Piceno Annonario, ossia Gallia Senonia illustrata/Capitolo XI.

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Capitolo XI.

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Capitolo X. Capitolo XII.

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CAPITOLO XI.


Urbino Metaurense, ed Ortense, e Tiferno Metaurense


Dicendo Plinio Urbinates cognomine Metaurenses, et alii Hortenses, tutti gli antiquarii convennero nel riconoscere nella Sesta Region dell’Italia i due Urbini. Disputarono però fra loro sopra il sito, ove furono, e se l’esistente Urbino fu l’Ortense, o Metaurense, e la lor lite è ancora sub judice. Di fatti il Cluverio pretese nella sua Italia antica, che Urbino Metaurense fu [p. 119 modifica]dove ora è Urbania, e con lui si unì il Cellario. L’Olstenio facendo le note al Cluverio cangiò opinione, e lo collocò nella Massa Trabaria presso Castel delle Ripe situato sotto le rive del fiume Candiliano. Non mancò chi a lui si sottoscrisse. Non solamente il P. Beretta, ma l’Arduino, e Cimarelli opinarono come egli pensò. Pretese di dire la sua ancora l’Ortellio, ma sì arrenò di maniera, che non solamente non distinse un’Urbino dall’altro, ma confuse con essi ancor Suasa. L’Olivieri nell’elogio fatto a D. Luc’antonio Gentili da Torricella stampato nel Tomo XLIV della raccolta del P. Calogerà afferma aver errato su questo punto li nominati dottissimi uomini per esser noto, che da Guglielmo Durante detto lo speculatore deve riconoscere il suo essere Urbania chiamata prima di Urbano VIII Castel Durante, e che non da Urbino Metaurense, ma dal distrutto Castello delle Ripe provenne. Riconobbe per solenne impostura una lapide di T. Accio, sulla di cui fede il Macci fondava l’antichità del Castello Ripense, e per tale la riconobbero il Rastelli, ed Antonio Goze.

Nell’anno però 1734 il sig. Mattias di Cagli nel fare certi lavori in un suo podere posto sul fiume Candiliano presso dove al Burano si congiunge, scuopri gli avanzi di un’antica Città, medaglie, pezzi di statue, marmi stranieri, e quelche è più, iscrizioni poste dai Decurioni, e dalla plebe, ovvero da private persone con donativo nella dedicazione ai decurioni, ed alla plebe, le quali facevano fede, che ne’ tempi antichi ivi fu una Città contraddistinta da tutte quelle marche di onorificenza, che alle colonie, ed ai municipii si accordavano. Il Gentili avendo considerato il sito, e l’ampiezza opinò, che ivi fu l’Urbino Metaurense, che indarno era stato da tanti ricercato. Nell’Anno 1759 l’Olivieri aderì a tale opinione, come può vedersi nel Tomo XLIX della vecchia raccolta del P. Calogerà, e così concordemente fu detto, che l’Urbino, che esiste ora, è l’Ortense, ed il distrutto fu il Metaurense. Si risentirono gli Urbinati, e Monsig. Lazzari riporta tutto il fatto, e tutta la storia concernente questo [p. 120 modifica]intricato punto nel Tomo I. della raccolta di lettere inedite del Muratori, in una annotazione della lettera prima p. 128. colla stessa ambiguità, e dubbiezza. Ma la baldanza di alcuni intenti a discreditare la loro Patria, come egli dice, l’indussero a fare una Dissertazione, con cui dimostra, che l’esistente Urbino è il Metaurense. La mandò al Colucci, che l’inserì nel Tomo nono delle Antichità Picene. Questi fece ad essa alcune osservazioni, col promovere dubbj atterrò tutte le ragioni del Lazzari, e concluse, che l’Urbino presente è l’Ortense, e che s’ignora il sito dell’Urbino Metaurense.

Rimase dunque indecisa la questione, perchè il Cluverio, Cellario, Olstenio, Arduino, Olivieri, Lazzari, Colucci, e tanti altri collocarono i due Urbini ne’ luoghi, che di sopra accennai, e perchè li cercarono intorno al Metauro. Non considerarono, che non vi è ragione alcuna, perchè entrambi dovessero esistere intorno a tal fiume. Non rivolsero i loro sguardi all’Umbria cismontana, e non considerarono, che le Città omonime per lo più sono collocate in diverse Provincie, e che per non confonderle si dava loro un’aggiunto v: g: Alba Picena, Alba longa, Asculum Picenum, Asculum Apulum. Se poi erano situate nella stessa Provincia, non rimaneva una appresso l’altra, ma in molta distanza tra loro: v: g. Cupra Marittima era assai distante da Cupra Montana, i Tifernati Tiberini erano molto distanti da’ Tifernati Metaurensi, come in appreso dirò. Si deciderà subito dunque la lite, se si dimostrerà, che un’Urbino rimaneva nell’Umbria cismontana, che era porzione della Sesta Region dell’Italia. Questo ora mi accingo a fare confessando sinceramente di aver avute le notizie dall’erudito Sig. Cav. Francescantonio Frondini di Assisi mio Amico, il quale anche le somministrò al P. Ab. di Costanzo, che pubblicolle nel libro intitolato Disamina degli scrittori . . . riguardanti S. Rufino.

Lungi sette miglia di Assisi, e dietro a piccoli colli vi è un’amena vallata non lungi dal Castello di [p. 121 modifica]Collemaggio, o Collemancio fabbricato dalle rovine di un paese vicino distrutto. Ivi furono trovati mosaici, aquedotti, Statue Colossali, iscrizioni, ed altre anticaglie. La costante tradizione ci accerta, che quivi fu una città chiamata Urbino, e questa non solamente rimane in Collemancio, ma in Assisi, ed in Bettona. Vien confermata dal nome, che porta di Valle di Urbino, porzione del territorio di Collemancio. È diviso questo in quattro parto chiamate Valli con un’aggiunto per distinguerle, ed una di esse porta fin’oggi il nome di Valle di Urbino. Questa tradizione è anche confermata da’ documenti antichi. In quello dell’anno 1018 stampato dal detto P. Abate1 nell’indice delle Pievi, e dipendenze del Vescovato di Assisi si annovera Plebem S. Mariae de Orbinum. Lo confermano altri posteriori strumenti, e segnatamente due del 1403, e 1405 2, dove si nomina plebs, et Ecclesia S. Mariae de Monte Urbini extra Collemancium Diocesis Asisien. Lo attesta la vecchia cronaca ms. compilata nel secolo XIII, che si conserva nell’archivio del sacro Convento di S. Francesco di Assisi. Nel capitolo intitolato De oppressione Ducatus Spoletani a Totila, et Gothis3 si legge: ideo autem regio Umbriae a Gothis, et Totila oppressa fuit, et redacta in servitutem . . . . occupatis civitatibus, et oppressis . . . . Spoletana, et Mevanea, et Spellantenzi, et Bictonia, et arbiniensi, discurrentes victualia pro se, et jumentis suis a populis istarum petebant, et auferebant . . . fugientes a Gothis seminudi, et pauperes in aliam patriam perrexerunt, ed in altro Capitolo4: arbinense vero oppidum exterminatum emarcuit, et deinceps non resurrexit. Di fatti Procopio ci assicura del guasto, che all’Umbria, ed al Piceno fu dato da’ Goti. Per darne un piccolo saggio accennerò in succinto quello, che accadde nelle nostre parti nell’anno 538, tempo in cui Belisario ritolse dalle mani de’ Goti Urbino Metaurense, come sarò per dire.

[p. 122 modifica]Non solamente il flagello della guerra desolava l’Italia, ma ancora un’orribile carestia. Non essendo state seminate le terre, mancò del tutto il frumento nella Liguria, nell’Emilia, nella Toscana, e nel Piceno. La Dalmazia fu in breve tempo esausta, e vota. I popoli dell’Emilia si ritirarono nel Piceno, dove speravano di ritrovare di che sussistere a cagione della vicinanza del mare. Trovarono quivi la stessa penuria, e si morivano di fame insieme cogli abitanti, de’ quali accrescevano la miseria. Procopio dice, che nel Piceno soltanto perirono cinquanta mila persone. Nelle vicinanze degli Appennini fu fatto il pane di farina di ghianda, che cagionò delle malattie, per cui morirono molte persone. Non vedevansi che corpi scarni, ed affilati, volti macilenti, magri, tinti di un nero fumo, e simili a torcie spente, occhi minacciosi, e feroci, che uscivano fuori dalla testa, e simili a quelli de’ frenetici, e de’ furiosi. I miserabili, se trovavano qualche cosa da cibarsi, empiendosene avidamente, si morivano più presto ancora, che non sarebbero morti per la fame, e ve ne furono alcuni, che scambievolmente si divorarono. Dazio, Vescovo di Milano racconta, che una donna, che era al servizio della sua Chiesa, aveva mangiato il suo proprio figliuolo. Vicino Rimino due donne erano rimaste sole di tutto un villaggio, e dando alloggio a’ passeggieri li trucidavano, mentre erano immersi nel sonno, e se ne cibavano. Avevano già uccisi diciassette uomini. Il decimo ottavo si destò nell’atto, che esse di avvicinavano al suo letto, e dopo aver cavato loro da bocca la confessione di questi orribili misfatti, le trucidò. La campagna era tutta coperta, ed ingombra da persone morte, le mani delle quali erano ancora attaccate alle erbe, ed alle radici, che non avevano avuta forza di svellere. Questi cadaveri erano perfino rigettati dagli uccelli di rapina, perchè le loro carni erano già state consumate dalla fame. Ma lasciamo questo funesto racconto, e torniamo ad Urbino.

La memoria della di lui esistenza si è conservata sino a’ giorni nostri, e ne fa testimonianza un documento [p. 123 modifica]della pubblica Segreteria di Assisi del principio del Secolo XVII, nel quale tra i prospetti de’ luoghi già soggetti ad Assisi, così si parla di Collemancio: Collis Manci jam Orviensis Civitas, Umbriae emporium, civitati Assisii postea obediens. L’Egidi poi, che nel 1654 stampò le vite di quattro Eroi, parlando di S. Ruffino di Arce così si espresse = Col di Mancio terra dell’Umbria fabbricata presso le ruine della già famosa Città di Orviano, che da tempo immemorabile in quà giace del tutto estinta sette miglia lungi di Assisi = Si noti, che nè riportati documenti si chiama tal paese distrutto Urbinum, Orbinum, Arbinum, Orviensis Civitas, Citta di Orviano. Ognun vede, che la parola è la stessa, e che la differenza derivò dal maggiore, o minore studio, che fecero coloro, che la scrissero, come succede presentemente di tanti paesi, e contrade, le quali con piccola varietà sono pronunziate non solo da’ forastieri, ma anche da’ paesani, che mutano le lettere, e storpiano le parole, e perciò anche presentemente il luogo, ore fu Urbino, da chi è chiamato Urbino, da chi Orvino, da chi Orviano. Se dunque la tradizione, il nome della contrada, ed i documenti antichi ci dicono, che presso Colle Mancio vi fu una Città chiamata Urbino, chi potrà dubitarne? E qual’altro popolo, o Città potrassi supporre in tal luogo, quando la tradizione delle circonvicine Città avvalorata da’ documenti di otto secoli sono, ciò ci dice? Siccome da questo resta lontano il Metauro, così la ragion vuole, che si creda esser questo l’Urbino Ortense. Per distinguerlo dall’altro, a questo fu dato un nome generico, comune, e proprio di tutti i paesi, cioè Ortense. Imperocchè Hortus non solamente significa quel luogo, dove si coltivano gli erbaggi, ma secondo Festo hortus apud antiquos omnis villa dicebatur, quod ibi, qui arma capere possent, orirentur.

Rimanendo l’Urbino ortense presso di Assisi, non può dubitarsi, che l’esistente Urbino sia il Metaurense, perchè rimane vicino al Metauro, da cui prese il distintivo, ed ove questo fiume sgorghi, ed ove si scarichi, ce lo fa sapere Monsig. Baldi nel suo encomio di [p. 124 modifica]Urbino5 = In quella parte dell’Appennino, vicino alla quale sopra degli altri s’inalza il monte di Carpegna, nascono da due fonti non molto lontani fra loro due fiumi, l’uno è Metauro, che scendendo alla destra mano di Urbino bagnando Castel Durante, e Fossombrone va a scaricarsi nell’Adriatico non lungi dalla Città di Fano. L’altro Isauro, o Pisauro, che oggi con voce corrotta dicesi Foglia che presa la strada verso la sinistra, radendo le mura della Città di Pesaro da otto miglia lontano dalla foce del Metauro sbocca nello stesso Golfo. Tra questi due fiumi dunque nel mezzo quasi fra loro in guisa d’isola sopra alto, e rilevato colle fu edificata la nostra Città = Riporta inoltre il Muratori6 la seguente lapide, in cui leggesi VRVINAT MAT. ed asserisce, che esisteva nella Cattedrale di essa Città, e che da lui fu tolta dalle schede Farnesiane, e Capponiane.

IMP. CAESARI C. VIBIO
AFFINIO. GALLO. VELDVM
NIANO. VOLUSIANO. PIO
FELICI. AVG. PONT. MAX.
TRIB. POT. II. COS. VRVINAT.
MAT. DEVOTI. NVMINI
MAIESTATIQVE EIVS
DEC. DEC. PUB.

Il Colucci, che non nega questa lapide, dubita, se esistesse veramente in Urbino, e se sian vere le schede Farnesiane. Allora, replico, dubiteremo di tutto, e nulla crederemo, se non l’osserveremo cogli occhi nostri. Si noti, che in questa, e nelle altre lapidi riportate dal Grutero, e dal Muratori trovasi VRVINATIVM non per l’affinità grande delle due lettere V e B, come pensa il Colucci, ma perchè nella decadenza della lingua latina non solamente si tralasciavano ne’ vocaboli [p. 125 modifica]le due lettere liquide M. ed N. e perciò troviamo nelle lapidi Infas invece di infans, Asa invece di Ansa, Redepta in vece di Redempta, ma si cambiava la lettera V con la B, ed invece di scrivere viva, vixit, scrivevano BIBA, BIXIT, invece di Novus Nobus, come dice l’Ortellio, e come può vedersi nel Lupi7, e nelle lapidi riportare dal detto, e dal Fabretti. L’errore dunque è de’ Copisti, che scrissero Urbinates invece di Urvinates, e tale errore devesi in avvenire correggere in Plinio. Monsig. Lazzari crede8, che il nome di Urbino derivi da Urbia, ovvero Orobia nome, che gli antichi Urbinati davano alla Dea Vesta. Dice, che questa voce è composta da due parole greche, cioè da Oros, che significa Monte, e Bios, che denota vita, e che viene a dire Abitatrice de’ Monti.

Fu aggregato Urbino nella tribù XXII Stellatina, la quale abbracciava gran parte de’ Toscani, e degli Umbri costantemente la Cattedra Vescovile, mentre i di lei Vescovi, al dire del Lazzari, trovansi sottoscritti in alcuni antichi codicilli. Procopio9 racconta l’assedio, e la presa di Urbino fatta da Belisario nell’anno 538 di Cristo. Riferirò quello, che egli narra. Belisario spedì Perano ad assediare Orvieto con un distaccamento, ed egli marciò verso Urbino, piazza importante una giornata lontana da Rimino. I Goti tenevano quivi una forte guarnigione comandata da un Uffiziale di riputazione per nome Morrhas. Narsete, Giovanni, e gli altri Capitani del loro partito seguirono Belisario, ma quando furono arrivati davanti alla Città si separarono da lui. Belisario aveva posto il suo campo all’oriente della Piazza, ed essi andarono ad accampare all’occidente. Urbino era fabbricato sopra una collina circolare, molto elevata, la quale benchè non fosse dirupata e scoscesa, non era tuttavia facile a salirvi [p. 126 modifica]a cagione dell’asprezza del suo pendio, eccettochè dalla parte di settentrione. Belisario sperando, che gl’inimici dopo la fuga di Vitige non avrebbero aspettato un’assalto, mandò ad offerir loro un vantaggioso accordo. Ma i Goti rigettarono la proposizione, e non permisero a’ Deputati di entrare nella Città. Confidavano nel buono stato della Piazza, vantaggiosamente situata, e ben fornita di munizioni. Belisario comandò tosto, che fosse costruita una galleria per andare a scavare a’ piedi del muro, e si facesse avanzare verso di esso nel sito dove il terreno era più basso, e più comodo per gli approcci. I partigiani di Narsete si ridevano di questi apparecchi, dicevano, che Belisario intraprendeva l’impossibile, che non conveniva a Narsete perder tempo in un inutile assedio, e che egli doveva impiegare piuttosto le sue truppe nella conquista dell’Emilia. Narsete diede orecchio a questi consigli, ed avendo levato il campo di notte tempo, se ne tornò a Rimini in diligenza seguito da’ suoi partigiani, e da’ loro soldati.

Allo spuntare del giorno Morrhas, e la guarnigione vedendo, che la metà dell’armata Romana si era ritirata, insultavano il resto con pungenti motteggi. Nondimeno Belisario era risoluto di continuare l’assedio, e l’accidente lo favorì più che egli non isperava. Era in Urbino una sola fontana, che somministrava acqua a tutta la Città, si disseccò in tre giorni, sicchè gli abitanti si determinarono di arrendersi. Il generale Romano non essendo informato di questa risoluzione si avanzava per dare un’assalto, quando vide, che gli assediati invece di apparecchiarsi alla difesa gli stendevano le braccia, e chiedevano di venire ad un’accordo. Egli vi acconsentì con allegrezza. I Goti ebbero salva la vita, e si obbligarono a servire nelle truppe Romane. Narsete non intese senza dispiacere la felice riuscita di un’impresa, di cui non aveva voluto dividere la gloria. Per acquistare dal canto suo spedì Giovanni ad attaccare Cesena. Questi fu vivamente ributtato in un’assalto, dove perdette molti soldati, e fra gli altri offiziali Fanoteo comandante degli Eruli. Disaminato da [p. 127 modifica]questo cattivo successo marciò verso Imola, che sorprese: ed abbandonando i Barbari le piazze senza ardire di venir seco alle mani, s’impadronì di una parte dell’Emilia.

È nominato Urbino dall’Anonimo Ravennate, che dice: Monte Feltre, Orbino, Foro Sempronio, ed Anastasio Bibliotecario ci avvisa, che dal Re Pippino fu donato alla S. Sede. Lo troviamo enumerato fra le Città della Pentapoli ne’ diplomi di conferma fatta dagli Imperadori Lodovico, ed Ottone. I Pontefici Romani diedero in Vicaria perpetua per la S. Sede Urbino col suo Ducato ai Signori di Monte Feltro, ed estinta la linea di questi, ai Signori della Rovere, che furono adottati per figli. L’ultimo Duca fu Francesco Maria II. per la morte di cui la S. Sede rientrò in possesso de’ suoi stati. Sopra la porta grande di Urbino detta di Valbana rimane la seguente lapide, che contiene la storia di detta Città, e dice, che appartenne al Piceno, cioè annonario. Vi fu posta nell’anno 1621 in occasione, che i serenissimi Sposi Federico, e Claudia venendo da Firenze fecero la pubblica entrata, come narra il Benedetti.


VRBINVM ROMANORVM ANTIQVISSIMVM
MVNICIPIVM
OLIM VMBRIAE VETVSTISSIMA CIVITAS
MODO INTER PICENI MAIORES
LONGE TAMEN HISCE TEMPORIBVS
SVB SERENISSIMIS DVCIBVS SVIS CLARIOR
SED HILARIOR NVNQVAM
FEDERICO ET CLAVDIAE PRINCIPIBVS
FAVSTVM ET FOECVMDVM PRECATVR
CONIVGIVM


Come Urbino prese il distintivo dal vicino fiume Metauro, così da esso lo prese un’altra Città chiamata Tiferno. Plinio descrivendo la sesta regione dice: Tifernates cognomine Tiberini, et alii Metaurenses. Due dunque erano i Tiferni: uno presso il Tevere, e l’altro presso il Metauro. Gli antiquarii come [p. 128 modifica]convengono tra loro nel fissare il Tiferno Tiberino nella Città di Castello: così convengono nel credere l’altro in S. Angelo in Vado. Imperocchè questa Città rimane vicina al fiume Metauro, e vi esistono alcune lapidi riportate da’ collettori. Nella seguente riferita dal Maffei, dal Gori, e dal Muratori10 si legge il TIF. MAT, cioè Tifernatis Mataurensis.

L. DENTVSIO L. F. PAP.
APROCVLINO EQ. P.
CVRAT. AL. TIF. MAT. DA
TO AB IMPP. SEVERO ET AN
TONINO. AVGG. AED. IIII. VIR
FLAM. AVGVRI. PATRONO
COLL. CENT. IIIIII. VIRI AVG.
ET PLEBS VRB. OB PRAECLARAQVE
MERITA EIVS PATRONO
CVIVS DEDICATIONE DECR.
III SEVIR. ET PLEB. II
CVM PANE, ET VINO DEDIT
L. D. D. D.

Il Muratori riferisce11 la seguente come esistente in S. Angelo in Vado


C. CLODIENO C. FIL. STEL. SERENO
VESNIO DEXTRO EQVIT. ROMANO
PATRONO ET PONTIF. VRVINAT.
MAT. PATRONO ET CVRATORI. REI
PVBLICAE FORO CORNEL. OPTIMO etc.


Si noti, che in queste lapidi si legge TIF. MAT. VRVINAT. MAT.. Avendo notato ciò il Muratori, ed avendo osservato, che in altre lapidi leggesi Mataurum, giustamente credette; che si dovesse scrivere Matarurum, [p. 129 modifica]e non Metaurum. Apud clariss. Maffejum legitur in tertia linea CVRAT. TIF. MET. sed retinedum MAT. Nam in aliis quoque saxis Mataurum occurrit, non Metaurum. Queste parole non piacquero al Colucci12: pretende contro il detto, che debba scriversi Metaurense, e non Mataurense, e lo sostiene col riportare alcuni passi di Silio Italico, di Orazio, di Sidonio, e di Plinio. Non considera, che questi caddero sotto le mani de’ copisti, che li adulterarono, e che sotto le lor mani non caddero le lapidi. Io niente dubito, che debba dirsi Mataurum, e non Metaurum, come pretese il Muratori. Penso, che i Siculi edificarono il Tiferno Metaurenses, e che essendo stati cacciati dalle nostre parti dagli Umbri, come dice Plinio, ed essendo andati lunghesso il Tevere, come dicono Dionisio, e Servio, quivi edificarono un altro Tiferno in memoria di quello, che avevano abbandonato. Apparteneva alla Tribù Stellatina, come ci dicono le lapidi, per dare il suffragio nei Comizj, alla quale, come dissi, apparteneva ancora Urbino. Il di lui territorio confinava con Pitino Mergente, e ne’ decreti d’Ilario Papa13 si legge Lucifer Tifernis Metauris. Altre notizie non ho trovate appartenenti a questa Città. Non essendo segnata tra le Città della Pentapoli donate alla S. Sede, nè essendo ricordata da Anastasio Bibliotecario è segno, che non più esisteva, e che era stata già distrutta dà Goti, o dà Longobardi. S. Angelo in Vado, che succedette a Tiferno, ha la cattedra Vescovile, e fu di lui cittadino il Pontefice Clemente XIV, del mio ordine de’ Minori Conventuali. Fu egli oriundo di Borgo pace nella Diocesi, e distretto di Urbania, che prima chiamavasi Castel Durante, nacque nella terra di S. Arcangelo14 presso a Rimini li 31 Ottobre 1705, [p. 130 modifica]e fu posto nella Cattedra di S. Pietro li 19. Maggio 1769. A lui succedettero i Pontefici Pio VI., e VII nativi di Cesena, che è limitrofa al Piceno Annonario, ed a questi Papa Leone XII felicemente regnante nativo della Genga. La sapienza di Dio ha disposto, che degli ultimi quattro Pontefici due fossero del Piceno Annonario, due altri di Cesena, che confina con esso: anzi secondo Procopio ancor Cesena a’ suoi tempi era portione del Piceno, come dissi nel Capitolo I.

Note

  1. n. 5. Arch.
  2. Arch. publ. di Assisi protocol. Ser. Benvenuti Stephani n. 18. p. 46.
  3. p. 24.
  4. p. 42.
  5. p. 39.
  6. p. CCLIII.
  7. Diss. in Epitaph. S. Severae M. p. 220.
  8. Antic. Pic. Tom. 3.
  9. De bel. Gothor. lib. 2. c. 19.
  10. p. 997.
  11. p. 2047.
  12. Antic. Pic. T. XV p. 167.
  13. P. 250.
  14. Questa Terra ha fatto sempre nobiltà generosa, ed ha prodotto de’ grandi uomini. Giace sopra un’ameno colle, erimane tra i fiumi Marecchia, ed Aprusia. Sette Vici furono anticamente nelle vicinanze di Rimini, de’ quali parlò il Maffei nell’arte critica lapidaria (p. 224). Uno di essi si disse Vicus Germalus. Presentemente presso Santarcangelo rimane un fondo chiamato Acerbolo, ove si ritrovano di tanto in tanto anticaglie di tutte le sorti. Con ragione si crede, che questa Terra vicina a Rimini fu il Vico Germolo, che fu poscia chiamata Acerbolo con nome corrotto. Nel Codice Bavaro si nomina Basilica S. Arcangeli fundata in loco, qui dicitur Acervulis. Veggansi le Memorie di b. Arcangelo stampate in Cesena nel 1817. e Monsig. Marino Marini negli Aneddoti etc. p. 149.