Poesie (Eminescu)/LXV. Epistola III

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LXV. Epistola III

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Mihai Eminescu - Poesie (1927)
Traduzione dal rumeno di Ramiro Ortiz (1927)
LXV. Epistola III
LXIV. Epistola II LXVI. Epistola IV
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LXV.

EPISTOLA III.


Un Sultan di quei che regnano su d’un popolo qualunque
che col pascol delle greggi è costretto a mutar patria,

dormiva con sotto il capo la man destra per guanciale.
L’occhio suo chiuso al difuori, ecco s’apre nell’interno

5e vede come scivola giù dal cielo e scende in terra
la luna e a lui s’accosta trasformata in bella vergine.

Come sotto i passi della Primavera, le fìoria davanti il sentiero,
e gli occhi eran pieni dell’ombra di misteriosi dolori;

rabbrividiscono i boschi davanti a tanta bellezza,
10e, tremolando, le fonti increspano il trasparente lor volto;

polvere di diamanti cade dall’alto come brina,
splende sospesa nell’aria, l’erbe imbrillanta e i fiori,

e, sul divino incantesimo, vola di susurri un concento,
mentre sul cielo si piegano notturni arcobaleni.

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15Accanto a lui sedendo, la bella Ninfa gli stende la mano,
mentre le nere chiome fluttuano al vento in onde dì seta:

— Permetti ch’io leghi la mia vita alla tua. Tra le braccia vienimi
e il mio dolce dolore col dolor tuo consola....

Scritto è nel libro della Vita dai secoli e dalle stelle
20ch’io sia la tua padrona, tu il padron de’ giorni miei.


Così ella dice, e, mentre il Sultano la guarda, la vision s’oscura... dispare;
ed ei sente allora che un albero dal cuore gli nasce,

un albero che cresce in un attimo come in un secolo,
e i suoi rami spande sulla terra e sul mare.

25L’ombra sua gigantesca stende fino all’orizzonte
e sott’essa l’universo oscurato si riposa.

Vede allora quel Sultano gigantesche catene di monti:
l’Atlante, il Caucaso, il Tauro e i Balcani secolari;

vede l' Eufrate, il Tigri, il Nilo e il Danubio antico
30e su tutto vittoriosa stender l’albero la sua ombra.

Così l’Asia, l'Europa, l’Africa co’ suoi deserti immensi
e i neri bastimenti che si cullano sul mare,

onde di verdi biade che svariano ne’ solchi,
mari che abbraccian terre, città con vasti porti;

35tutto gli si stende innanzi.... Come su d’un tappeto gigantesco
vede regni accanto a regni, popoli accanto a popoli,

che, tra biancheggiar di nebbie, s’intravvedono e si confondono
in un solo vasto impero alla gigantesca ombra di un albero.


Aquile scese dal cielo fino ai rami non arrivano;
40ma un vento di vittoria si scatena e batte a lungo

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agitando or quinci or quindi il fogliame risonante;
grida di: «Allah! Allah!» s’odono in alto tra i nembi,

cresce in alte onde il rumore come d’un mare in tempesta;
feroci urli di battaglia si rinnovano a ogni istante,

45le foglie acute e lunghe si piegan sotto le raffiche
e davanti a Roma nuova piegano a terra il capo.


Sobbalza in sogno il Sultano.... si desta.... e sul cielo
vede la luna che naviga al disospra dell’Eschiscer;

e triste guarda la casa dello Sceicco Edebalì.
50Dietro le grate della finestra una giovinetta gli appare

che a lui sorride, flessuosa come un ramo di nocciuolo:
dello Sceicco è la figliuola, è la bella Malcatùn.

Ailor vede ben che il sogno gli è mandato dal Profeta,
che un istante egli è vissuto nel paradiso di Maometto,

55che dal suo amore umano un impero nascerà,
la cui durata e i cui confini solo il Cielo lo saprà.


Il suo sogno prende forma e coni’aquila in alto spazia:
ad ogni anno il suo impèro sempre più lungi si stende,

ed ogni anno più in alto s’erge il sacro verde stendardo,
60mentre generazioni a generazioni, sultani a sultani succedono.

Così regno dopo regno a lui le porte apre....
fino al Danubio arriva il fulmineo Bajazìd....

Ad un segno, sponde opposte un ponte di navi lega,
ed a suono di fanfare tutta l’oste passa il fiume:

65giannizzeri, adottivi figli d’Allah, e fierissimi Spahì
empiono, il cielo oscurando, la pianura di Rovine;

brulicando come uno sciame spandon loro grandi tende....
sol lontano all’orizzonte, risuona il bosco di querce.

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Ecco che un araldo di pace s’avanza, con in cima a un bastone un velo,
70e Bajazid, guardandolo, gli domanda con disprezzo:

— Che vuoi tu? — Noi? Pace e amistà! E, se non vi dà noia,
il nostro Sovrano vorrebbe vedere il grande Padiscià.

Ad un cenno, si fa largo e alla tenda s’avvicina
un vecchio semplice all’abito e alla parola.

75— Sei tu Mircea? — Sì, Signore! — Son venuto perchè omaggio?
tu mi renda, e la corona non ti si cambi in spine.

— Qualunque sia la tua intenzione, Signore, e comunque sii tu venuto,
finché siamo ancora in pace, io ti dò il benvenuto.

Quanto poi al farti omaggio, mi dispiace, ma non posso.
80Sia però che guerra e strage a portarci sii venuto,

o che indietro tornar pensi e non più farci del danno,
fa’ che noi possiam saperlo. Questo in grazia io ti domando.

Nell’un caso che nell’altro ciò ch’è a noi predestinato
rassegnati subiremo: sia la pace sia la guerra.

85— Come? or che tutto il mondo le sue porte mi spalanca,
pensi tu che possa un ciottolo impedirmi l’avanzata?

Oh tu, vecchio, neppur sogni quanti ostacoli ho infranti:
tutto il fior di giovinezza dell’intero Occidente,

quanti all’ombra della croce cavalieri si raccolsero
90la tempesta ad affrontare della fiera Semiluna!

In maglie rilucenti partirono i cavalieri di Malta,
il Papa colle sue tre corone poste l’una sull’altra

il suo fulmine scagliò contro il fulmine, che nell’ira
sua tempestosa terra e cielo colpì;

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95non ebbero che a dare un cenno e tutto l’occidente
a migliaia di schiere armate riversò in oriente;

per la vittoria della croce inondarono i nostri campi,
dal profondo dei boschi usciti e persino dai deserti,

col lor fragore il mondo dai cardini scuotendo,
100e oscurando l’orizzonte con lor migliaia di scudi;

selve di lance e spade si mossero spaventose,
impaurito tremò il mare sotto migliaia di navi!

Tu non sai quanti eserciti si raccolsero a Nicopoli
a tenermi fronte, quali mura di freddo acciaio!

105Quando numerosi come le foglie vidi i nemici,
con odio inesorato borbottai nella barba,

e su di lor giurai di passar glorioso,
e degli aitar di Roma far greppia al mio cavallo!

Or tu con un bastone pensi difenderti da me?
110e che, portato dalla vittoria, un vecchio mi trattenga?

— Un vecchio, sì, Maestà! Poi che il vecchio che tu vedi
non è uomo da nulla, ma il Voivoda della Terra-rumena!

Mai ti farei l’augurio che tu ci conoscessi ai fatti,
poi che allora il Danubio annegherebbe tra le sue onde spumeggianti il tuo esercito.

115Molti da noi vennero nel corso dei secoli; a cominciar da quel superbo
Dario d’Istaspe, di cui ancor parlano i nostri vecchi;

molti nel corso dei secoli gittàr ponti sul Danubio,
su cui con terror del mondo passàr orde innumerevoli;

re e imperatori alla cui ambizione il mondo era poco
120vennero qui da noi a chieder terra ed acqua;

eppur.... (lodarmi non voglio e neppur farti paura)
come vennero, in terra e acqua le lor schiere si conversero.

Ti vanti d’aver dinanzi a te sgominato schiere e schiere
di lucido acciar vestite, conti, re, imperatori?

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125Ti lodi d’aver vinto gli eserciti dell’Occidente?
Ma per che idea combatteva, che voleva questo Occidente?

La corona di lauro dalla tua fronte svellere
i suoi cavalier volevano pel trionfo della Croce.

Io invece difendo la mia povertà, i miei bisogni, il mio popolo
130e perciò tutto quanto su questo suolo vive: l’uomo, il fiume, il ramo

a me solo è amico, e a te crudo avversario;
a da ogni cosa combattuto sarai senza neppur saperlo.

Eserciti non abbiamo, ma l’amor di patria è un muro
che della tua fama non teme, potente Baiazìd!


135Parte il vecchio appena, che di un lungo fremer d’armi
e di suono di buccine il gran bosco risuona

e dal suo verde lembo migliaia di teste capellute
migliaia d’elmi fulgidi escon dall’ombra oscura.

Cavalieri empiono il piano e formicolano a un cenno,
140i lor selvatici cavalli battendo colle staffe di legno;

fugge sotto il galoppo dei lor zoccoli la terra nera,
lance splendon lunghe al sole, archi al vento si tendono,

e, qual nembi di rame, qual raffica di grandine,
fitte le freccie cadono oscurando l’orizzonte,

145sibilando come il vento, come pioggia crepitando....
la pianura tutta suona di fieri urli di battaglia.

Invano rugge il Sultano qual leone infuriato:
l’ombra della morte sempre più vasta si stende!

Invano il verde stendardo chiama i figli del Profeta,
150poi che oramai tutta l’oste vede la sua rovina,

poi che decimate oscillano, cedendo, lunghe schiere,
e a squadroni cadon gli Arabi dispersi nel piano,

in ginocchio i fanti cadono, si rovesciano i cavalli,
nembi di frecce cadon tempestose sibilando,

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155e come la tormenta, in faccia colpendo e alle spalle,
par che il cielo precipiti sul campo di battaglia....

Mircea in persona conduce in lotta la tempesta paurosa,
che avanza, avanza, avanza e tutto sotto i piedi calpesta.

Ondeggiando avanzano i cavalieri come un alto muro di lance,
160e tra le schiere infedeli passano aprendosi larga strada,

sgominate si disperdono le schiere del nemico
e dietro esse, inseguendole, le gloriose bandiere della Patria

l’une seguono all’altre come diluvio distruggitore.
Un’ora dopo, quasi pula spinta dal vento,

165i pagani nel Danubio precipita quella grandine d’acciaio,
e dietro lor maestosa si spiega l’oste rumena.


Mentre le schiere si riordinano e il sole tramonta
desideroso d’incoronar le alte vette della patria

con un nimbo di vittoria, un vivo immobile fulgore
170orla le nere montagne verso occidente,

finché dai secoli sprizzan le stelle a una a una
e dalle nebbie dei boschi, tremolando esce la luna.

La Signora dei mari e della notte versa pace e sonno
sui mortali, ma, presso la tenda, uno dei figli del glorioso Voda

175sorride a un suo ricordo, una lettera sui ginocchi scrivendo
da mandare all’amor suo, laggiù, oltre l’Argeş:

           Dalla valle di Rovine
           con te parliamo, Signora,
           non a voce, ma per lettera,
           180poi che sei tanto lontana.
           Ti pregheremmo, ti pregherei
           di mandarmi per qualcuno
           quanto c’è di più bello nella Tua valle:
           il bosco coi prati,
           185gli occhi colle sopracciglia,

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           perchè anch’io manderò
           ciò ch’è più bello da noi:
           l’esercito colle bandiere,
           il bosco coi rami,
           190il grande elmo colle penne,
           gli occhi colle sopracciglia.
           E sappi che son sano
           e che, grazie a Gesù Cristo,
           ti bacio, Signora, dolcemente.

· · · · · · · · · · ·

195Di tali epoche andaron fieri e cronisti e rapsòdi,
ma la nostra è piena solo di buffoni e saltimbanchi.

Nelle antiche pergamene trovar posso ancor gli eroi,
ma; con cetra sognatrice e dolci note di flauto

dovrò io uscire incontro ai «patrioti» che venner poi?
200Oh, davanti a costoro, il volto copriti, Apollo!

O eroi che nel passato di grandezza v’ammantaste,
evocarvi ora è di moda dalle vecchie pergamene,

perchè del vostro nome ogni fedel minchione
un mantello possa farsi per coprir sua nullità,

205o, citando i vostri nomi, scroccar fama di dottrina,
ruminando un secol d’oro nel brago degli affari.

Oh restate nell’ombra santa, Basarabi e Musciatini
conquistator di popoli, promulgatori di leggi e d’usanze

che coll’aratro e la spada de’vostri regni i confini estendeste
210dalle montagne al mare e al cerulo Danubio!


O che il presente non è grande? Non mi dà quel che gli chiedo?
Fra i miei contemporanei nessun gioiello troverò?

O non viviamo a Sibari nel tempio della Superficialità,
e non nascono ogni giorno nuove glorie al Caffè?

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215Demagoghi non abbiamo che cento al giorno
lance spezzan d’eloquenza tra gli applausi della strada?

Giocator di bussolotti? Danzatori sulla corda
e maschere (tutte celebri!) della Commedia della Menzogna?

O di patria e di virtù non parla forse il liberale,
220sì che parrebbe che la sua vita fosse pura come il cristallo?

Nè tu sogni di parlare col più vile perdigiorno
che di tai parole ride, mentre cinico le snocciola!

Eccolo davanti a te, il mostro senz’anima e senza cuore
colle sue ciglia pelose, col suo muso grasso e tumido,

225nero, gobbo e avido, fontana di raggiri,
che a’ suoi pari dispensa le sue velenose imbecillità!

Tutti han virtù sulle labbra, e in mano moneta falsa,
quintessenza d’abiezione dalla testa alle piante,

e su tutti, a passare le sue schiere in rassegna,
230un omicciattolo fissa lo sguardo de’ suoi sporgenti occhi di rospo

Tra costoro oggi la Patria sceglie gli araldi suoi!
Uomini degni di stare tra le mura di San Golia

in camicie lunghe e bianche cuffie di folli,
ci dan leggi, c’impongon tasse, ci parlan di filosofia!

235Patrioti! Virtuosi! E, insieme, tenitor di locali
dove spumeggia la dissolutezza in gesti e in parole!

Con bigotteria volpina seggon ai lor stalli
quasi fossero ingenui fraticelli nel coro

e applaudono frenetici scurrilità oscene
240canzonacce, danze immorali, sudicerie d’ogni sorta.

Poi in Parlamento s’adunano ad ammirarsi a vicenda;
bulgaracci dalla grossa nuca, grechetti dal naso fino.

E tutte queste mutrie si dicono Romani!
Tutto il greco-bulgarume è nipote di Traiano!

245Dovrà dunque questa bava velenosa, questa plebe, questa lordura
dominare indisturbata sulla patria e su noi?

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Tutto quanto nei paesi vicini c’è di stupido e di sudicio,
tutto quanto porta in fronte il marchio del putridume,

tutto quanto c’è di perfido e d’avido, tutto il Fanàr, tutti gl’iloti,
250tutto da noi si riversò, e forma oggi.... i patrioti,

sicché, a conti fatti, blesi e chiacchieroni, imbecilli e gozzuti
e balbuzienti dalla bocca storta sono i padroni nel nostro paese!


Voi siete i figli di Roma? Voi malvagi ed eunuchi?
A voi l’umanità si vergogna di dare il nome di uomini!

255E quşsta peste del mondo e questi esseri indegni
non si vergognano colle lor bocche turpi

di contaminar — ricordandola — la gloria del nostro popolo
ed osano pronunziar persino il tuo nome.... o Patria!

A Parigi, in lupanari di cinismo e di pigrizia
260colle donne perdute e nelle orgie oscene

avete scialacquato la vostra fortuna, e la giovinezza al Faraone;
che poteva l’Occidente trar da voi, se nulla c’era da trarre?

Siete tornati in patria con al posto del cervello
un vasetto di pomata, l’occhialetto e la canna da passeggio,

265avvizziti innanzi tempo, ma con mente di bambini,
per tutta scienza avendo imparato un ballo da Bal-Mabil

e in tasca (unico avere!) una pantofola di cortigiana....
Oh ti ammiro, gran progenie d’origine Romana!

Ed ora guardate con terrore al nostro volto scettico,
270e vi meravigliate che le menzogne non abbiano più credito?

Quando vediamo che quanti s’empion la bocca di sante parole
van poi a caccia sol di danaro e di guadagno senza fatica,

oggi che la frase brillante ingannar più non ci può,
oggi la colpa è degli altri, non è vero, cari signori?

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275Ma troppo avete scoperto il vostro gioco e straziato questo paese,
troppo avete compromesso il buon nome del nostro popolo,

troppo avete fatto strazio della lingua, degli antenati, degli usi aviti,
perchè non apparisse chi siete in realtà: dei farabutti!

Sì, il guadagno senza fatica è l’unico ideale,
280la virtù è dabbenaggine e il genio una disgrazia!

Ma lasciate almeno gli avi dormir nella polvere delle cronache:
destandosi dal loro passato di gloria, vi guarderanno, a dir molto, ironici.


Oh torna un sol giorno al mondo o Țepeṣ Voivoda,
dividili in due schiere: di mentecatti e di delinquenti,

285cacciali a viva forza in due grandi prigioni,
e poi da’ fuoco e al carcere e al manicomio!