Poesie (Francesco d'Altobianco Alberti)/LXXXVII

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LXXXVII

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LXXXVI LXXXVIII

 
Quella abbundante grazia, che procede
da chi governa e regge l’universo,
che d’ogni parte ai suoi sempre provede,

e l’aer ciniger, pulito e terso
fa nubiloso e l’emisperio anotta,
quando volto è Feton dal canto averso,

e d’Elicona voi tutte a un’otta
prestate ingegno e guidate a buon fine
la salma, insin che sia salva ridotta!

Ché chi co’ poi le rose e chi le spine
conduce il tempo, e non chi porta o merta,
né tardi fien già mai grazie divine.

Vecchiezza è mal che volentier si cerca,
e chi la pruova a fin mal si contenta,
come ’l figliuol fa di mala noverca.

Però a voi ch’entrate si ramenta:
s’è ’l venir dubbio e lo stare angoscioso,
perché l’andarsen poi sì vi tormenta?

Dovrievi esser assai men faticoso
di noia uscir ch’acumulare affanni
chi non volgesse in su l’acqua a ritroso,

perché son tanti incarchi agli ultimi anni
che mille volte il dì muorsi vivendo:
chi se ne spaccia par che gli altri inganni.

Onde, poi ch’a scoprir di lei mi stendo
i proprî effetti e quel ch’ella contenga,
venir parte per parte intendo aprendo.

La virtù manca al corpo, e chi ’l sostenga
trastullando si va coll’intelletto,
sicché nulla che fa par si convenga.

Ogni piacer rincresce, ogni diletto,
e dibattesi tanto che si stanca,
ché non che gli altri, se stesso ha in dispetto;

né di dolersi mai cagion gli manca,
ma ’l proprio suo riposo è ’l condolere.
Barba ha canuta e la cervice imbianca,

gocciola il naso e raccorcia il vedere,
rigonfia il fiato e colla voce d’Ecco
fa maraviglie, standosi a giacere.

Lezzisce e fastidioso è come becco;
crespa ha la fronte e grottose le ciglia
con l’avanzo del cuoio arido e secco,

e sentesi isfrullar parecchi miglia
quando elli incorda e va palpando i tasti;
vedelisi il cervel quando isbadiglia.

E que’ pochi avanzati denti guasti
necessità converte in distruzione
perché quasi a pigion gli son rimasti.

Facile a ogni cosa s’interpone,
perch’ode male e peggio udir gl’incresce
quel ch’è d’ogni suo mal giusta cagione.

Alle volte gl’incontra, e chi perde esce,
che, perché la faccenda il serve bene,
l’acoglie in tre, rizzando a spina pesce.

Dolgongli i lombi e deboli ha le schiene,
paralitico, atratto, [s]ghembo e storto,
mastica il morso; e, come si conviene,

imbizzarisce ispesso; il collo ha corto.
È mal chi gli aconsente ciò che vuole,
e chi non gliel consente ha sempre il torto.

Biasima il poco e dell’assai si duole,
perch’ogni dì maggior sete s’accende,
sì che sente altro caldo che di sole.

Quando botta o madrone o fianco il prende,
nulla si può che gli piaccia o rïesca,
ma sempre loda e vuol quel più l’offende.

Se dorme o vegghia, e par che gli rincresca,
perch’ogni dì risurgon cose nuove,
onde convien che la soma s’acresca.

E come chi smarisce, e non sa dove,
si radrizza e, ben che torni al segno,
non li par desso e stima essere altrove,

così rïesce al vecchio ogni disegno,
perché natura manca e ’l fin s’apressa,
né giova incanti o forza, arte o ingegno.

E par ch’ogni giuntura sia sconnessa
e’ membri tutti lacerati e rotti;
rinfresca un nuovo mal, se l’altro cessa.

Non cade, ma rovina maggior botti
ed è più vago, al modo bolognese,
che non el ramaiuol di male notti.

Sempre isquaderna e sta con l’anche tese
e caccia l’unghie fra ’l concavo e ’l tondo,
cercando le ginie di quel paese.

E pel gran peso che carica il fondo
fa grembo il pantacchiume rigonfiato,
che par con quelle vene un mappamondo.

A rincrescer comincia nel celato
e nel palese ancor più d’una volta;
Sinigallia ha in commenda e ’l censo ha dato.

Se caso alcun gli occorre, ognun s’afolta,
perché par lor mille anni uscir di noia
pur che sia sì coral che faccia colta.

Ognun prega e disidera che muoia;
acresce il dubbio e mal può riparare,
perché presto ha lasciar di qua le cuoia.

Cogliesi il pan cornuto allo infornare
e dolze è lo ’mparare a l’altrui spese,
saper col tempo i suoi ben governare,

guardar da l’ozio e dalle male imprese:
così si cessan gli accidenti rei,
né rincrescon po’ lor l’erte o le scese.

Torniamo a quel ch’è il miserere mei,
con gravi accenti risonando a doppia,
che propio par la zolfa delli ebrei.

E questo è quel di che più criepa e scoppia
che rimediar non può, penter non giova,
sì che l’un mal coll’altro male acoppia.

Amor ci è peggio (è dove il mal più cova),
ché il perder tempo a madonna non piace,
perché l’ozio già mai fece util pruova;

e come ’l coglie un tratto in contumace,
e’ può sonar di berta o di pipino
che mai s’accordi a far quel che gli piace.

E, per me’ contraffare il libriccino,
rivolge spesso, e, se l’amico grida,
chiude gli orecchi e stassi a capo chino.

E, meschin!, ché ’l conosce e non si affida
scoprir gli aguati; al me’ che può s’asetta
per uscir dalle branche a mala guida.

Così fa l’un dell’altro ognun vendetta,
né creda alcun che, se non fa il dovere,
che ’l giudizio di Dio presto l’aspetta.

Vuolsi aguagliar con la voglia il potere
e l’uno e l’altro poi usare onesto
chi si vuol sempre in grado mantenere.

Se vela gli occhi, egli è subito desto;
ognuno alla carogna si dibatte
insin ch’acconci a lor modo quel resto.

Or morte, or coscïenza lo combatte,
e, s’altrimenti e’ volesse disporre,
presi gli sono i dadi e parti fatte,

così inanzi che caggia a chi ’l soccorre,
dandogli a creder che sogna e vagilla,
e ch’ogni sua ragion fa per apporre;

onde dentro si rode e fuor distilla
voci interrotte, e, voltosi al pimaccio,
rimembra miglior vita e più tranquilla.

Tapino a noi, quant’è greve l’impaccio
a che nostra miseria ci riduce,
sudditi a fame a sete a caldo e ghiaccio!

Però chi presso al termin si conduce
o si provegga avanti o e’ s’assetti
a sopportar quel ch’ella ci produce,

perché quando i contrarî son ricetti,
preso il partito e passato l’afanno,
fatt’hai che dei e sia che vòl s’aspetti.

Vendica mal chi pur aroge al danno,
e peggio incetta chi vi si mantiene,
perché ’nsieme col mal cresce lo ’nganno.

Niuno ardisca o presuma, or noti bene,
recalcitrar, perché chi è di sopra
dispensa a’ tempi quel che s’appartiene;

e mercenarî suoi secondo l’opra
meritansi che chi ha far non dorma,
perché convien ch’alfin tutto si scopra.

O tu che reggi gli altri e vuoi dar l’orma,
va’ più ristretto al taglio, ché il disegno
è di quel che non sai mettere in forma!

Così Matusalem, ch’è carco e pregno,
il tristo sacco fra l’orlo e la sponda
si truova, e non vi giova alcun disegno.

L’ira, la tosse e la rema gli abonda;
ognuno al brancolar destro s’ingegna,
e può bene affogar che niun risponda.

Manca lo spirto e l’alma si rasegna
presto dove ’l processo suo chiarisce
ch’altro per l’util suo non si disegna,

se non chi (ci) pò per farsa si squittisce.