Poesie (Francesco d'Altobianco Alberti)/XCVII

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XCVII

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XCVI XCVIII

 
Divin favor, da ’nfallibil ragione
commosso, è spinto da ’nfiammato effetto,
fondato in una essenzia e ’n tre persone.

Per satisfare a sì alto concetto,
conviensi ogni argomento atto a disporre,
sicché infin ne risulti utile effetto.

Ma se chi può, come suol, non soccorre
debole ingegno a tanta esperïenza,
natural suo contrar l’un l’altro aborre.

Adunche, o giusta e somma Providenza,
ch’inizio e mezzo e ’l fin non hai presente
sanza necessitare tua prescienza,

soccorri al meschin servo, abbilo a mente,
sicché non sia da l’ignoranza oppresso,
po’ che ’l tutto ha da te, da sé nïente,

sicché possa tradurre chiaro e spresso
in versi accetti el vangelico canto,
ché penna al buon voler non può gir presso!

Nel prencipio era il Verbo e ’l Verbo santo
apresso a Dio e Dio che quel Verbo era
nel principio di Dio mirabil tanto;

ogni cosa per lui mattina e sera
mirabil fatto e, come si dimostra,
che nulla sanza lui fatto s’avera.

Ma ciò ch’è fatto in esso è vita nostra,
e quella pria è degli uomini la luce,
com’apruova la santa madre vostra.

Costei, che fuor di tenebre conduce,
relusse sì ch’ella non fu compresa;
felice alfin chi me’ vi si riduce!

Mandato fu da Dio con mente accesa
uomo, il nome del quale era Giovanni,
ver testimon d’ogni nostra difesa;

non era esso la luce (ignun s’inganni),
ma testimon, ché ’n quella ognun credesse,
per tôrci da sì gravi e tanti afanni.

Questa è la vera luce, che reflesse
alluminando ogn’uom vegnente al mondo,
che, pel nostro fallir, tanto s’oppresse.

Esso era in quel che fertile e giocondo
creato avea, né vi fu conosciuto,
ché ’ngrato di pietà disecca il fondo.

Venne in propia e da’ suoi mal ricevuto;
m’a chi ’l raccolse come s’appartenne
potenza diè con ogni atto compiuto

farsi figliuol di Dio qual si convenne,
massime a quei che nel suo nome crede,
ché, per noi liberar, morte sostenne,

ne’ quali o sangue o voluntà succede
carnale o d’alcun uom la volontate,
ma nati sol da Dio, suoi propri erede.

El Verbo è carne fatto, o genti ingrate!
Miser a quelle che, pei falli suoi,
dell’etterne dolcezze fien private!

Quel che incarnato ha fatto abito in noi,
dalla cui gloria uscìe nostra salute,
vedemmo al ciel volar subito poi;

onde tutte le lingue sarien mute
e mancheria ogni sublime ingegno
a render grazie debite e compiute

dal Padre all’Unigenito sì degno.
Quasi la gloria e intera ogni bontate
vedemo, e rïuscirli ogni disegno,

perch’egli è pien di grazia e veritate.


Deo gratias,
XXI ottobre 1450
al Poggio