Poesie (Rilke)/Urnekloster

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Urnekloster

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Rainer Maria Rilke - Poesie (XX secolo)
Traduzione dal tedesco di Giaime Pintor (1942)
Urnekloster
*** (II) Bibliothèque Nationale

Avrò avuto allora dodici, al massimo tredici anni. Mio padre aveva voluto portarmi con sé a Urnekloster. Non so che cosa lo avesse indotto a visitare suo suocero; per molti anni, dalla morte di mia madre, i due uomini non si erano piú visti, e mio padre non era neppure mai stato nel vecchio castello in cui il conte Brahe si era ritirato solo tardi. Poi non vidi piú quella casa singolare, che alla morte di mio nonno passò in mano di estranei. Cosí come la ritrovo ora nei miei elaborati ricordi d’infanzia non è piú un edificio; è tutta divisa dentro di me: là una stanza, là un’altra stanza, e qui un pezzo di corridoio che non congiunge le due stanze ma si sostiene da sé, come un frammento. E tutto è frazionato in questo modo: le camere, le scale che scendono solenni e altre rampe strette e tortuose nella cui oscurità ci si inoltra come il sangue nelle vene; il solaio, i balconi sospesi in alto, le altane in cui si sbucava improvvisamente da una piccola porta: tutto questo è ancora dentro di me e non si cancellerà piú. È come se l’immagine di quella casa fosse precipitata in me da un’altezza incredibile e si fosse frantumata sul fondo.

Tutta intera nel mio cuore, almeno cosí mi sembra, è soltanto la sala in cui ci si riuniva ogni sera alle sette per la cena. Non ho mai visto quella stanza di giorno, non mi ricordo neanche se avesse finestre e dove guardassero; sempre, al momento in cui la famiglia entrava, le torce ardevano in pesanti candelabri, e in pochi minuti si scordava la luce del giorno e quello che si era visto fuori. La stanza alta, col soffitto, mi pare, a volta, era piú forte di tutto; con il buio dei muri, con i suoi angoli sempre un poco in ombra, sembrava assorbire le immagini che ciascuno portava con sé senza restituire nulla in compenso. Ci si sedeva come disfatti senza piú volontà, senza conoscenza, senza coraggio. Si aveva l’impressione che il posto fosse vuoto. Mi ricordo che questo stato di avvilimento in principio mi procurò un certo malessere, una specie di mal di mare che riuscivo a vincere solo stirando una gamba fino a toccare col piede il ginocchio di mio padre seduto di fronte a me. Solo piú tardi mi resi conto che egli aveva capito o almeno indovinato questa strana reazione, benché i rapporti quasi freddi che esistevano fra noi rendessero inspiegabile il mio contegno. Tuttavia fu quel leggero contatto che mi diede la forza di sopportare le prime lunghe cene. Ma dopo qualche settimana di sofferenze spasmodiche, con la facoltà di adattamento quasi illimitata dei bambini, mi abituai cosí bene all’angoscia di quelle riunioni che non mi costava piú la minima fatica passar due ore a tavola; il tempo scorreva anzi relativamente presto mentre io m’interessavo a osservare i presenti.

Mio nonno li chiamava la famiglia e sentii anche da altri adoperare questa parola che era del tutto arbitraria. Perché, se fra quelle quattro persone esistevano lontani vincoli di parentela reciproca, non vi era nulla di comune fra loro. Lo zio, che sedeva accanto a me, era un vecchio il cui viso severo e bruciato mostrava delle macchie nere: come seppi poi, i segni di una esplosione di polveri. Arcigno e malcontento com’era, aveva lasciato il servizio da maggiore e ora faceva esperimenti alchimistici in una stanza del castello che io non avevo mai vista; a quanto mi dissero i domestici era anche in rapporti con una casa di pena da cui una o due volte all’anno gli mandavano dei cadaveri. Egli si chiudeva con questi per giorni e notti e li sezionava e li lavorava in modo misterioso cosí da preservarli dalla decomposizione. Di fronte al suo c’era il posto della signorina Matilde Brahe. Costei era una persona di età indeterminata, una lontana cugina di mia madre, di cui si sapeva solo che aveva una fittissima corrispondenza con uno spiritista austriaco, un certo barone Nolde, al quale ella era cosí devota da non intraprendere mai la minima cosa senza averne prima il consenso o addirittura la benedizione. In quei tempi ella era straordinariamente grossa, il suo corpo pigro e molle era come versato nelle larghe vesti chiare; i suoi movimenti erano fiacchi e imprecisi e gli occhi le lacrimavano sempre. E tuttavia c’era in lei qualcosa che mi ricordava la figura esile e dolce di mia madre. Osservandola a lungo ritrovai nel suo viso quei tratti semplici e fini che dalla morte di mia madre non ero più riuscito a ricostruire: solo ora che vedevo tutti i giorni Matilde Brahe seppi di nuovo che aspetto aveva la scomparsa, e forse lo seppi per la prima volta. Allora si ricompose in me di cento e cento particolari un’immagine della morta, quell’immagine che mi accompagna dovunque. Piú tardi mi convinsi che nel viso della signorina Brahe esistevano tutti quegli elementi che formavano la fisonomia di mia madre – ma erano disgiunti come se un viso estraneo vi si fosse sovrapposto, sforzati e non piú in armonia fra loro.

Accanto alla signorina sedeva il figlio di un’altra cugina, un ragazzo all’incirca della mia età, ma più piccolo e piú gramo. Da un colletto a pieghe si levava un collo esile e pallido che spariva sotto il lungo mento. Le labbra erano sottili e serrate, le narici tremavano leggermente e dei begli occhi bruni uno solo si muoveva. Con quell’occhio triste e calmo guardava a volte verso di me, mentre l’altro era sempre rivolto dalla stessa parte come un oggetto venduto che non gli appartenesse piú.

A capotavola stava l’enorme poltrona di mio nonno che un domestico, il quale non aveva altro da fare, gli porgeva e di cui il vecchio occupava solo una piccola parte. C’erano alcuni che rivolgendosi al vecchio signore altero e un po’ sordo lo chiamavano Eccellenza e Maresciallo, altri gli davano il titolo di Generale. E certo egli aveva posseduto tutte quelle dignità, ma era passato tanto tempo da quando aveva rivestito gli ultimi uffici che tali denominazioni parevano quasi incomprensibili. Mi pareva poi che nessun nome fosse adatto a quella personalità a momenti cosí netta ma subito dopo di nuovo svanita. Io non potevo risolvermi a chiamarlo nonno, benché talvolta si mostrasse affettuoso con me e mi chiamasse per nome cercando di dare un tono scherzoso alla sua voce. Del resto l’intera famiglia aveva di fronte al vecchio un atteggiamento misto di rispetto e di timidezza, solo il piccolo Erik viveva in una certa confidenza col vecchio signore. Il suo occhio mobile aveva a volte dei rapidi lampi d’intesa a cui il nonno rispondeva con pari rapidità; ed era anche facile vederli spuntare nei lunghi pomeriggi in fondo alla galleria e osservarli mentre passavano tenuti per mano davanti ai vecchi quadri scuri, senza parlare, intendendosi certo in qualche loro maniera. Io passavo quasi tutta la giornata nel parco e fuori, nei boschi di faggio o nelle brughiere; per fortuna c’erano dei cani a Urnekloster con cui mi divertivo. Qua e là si trovava una cascina o una fattoria dove mi davano pane, latte e frutta, e credo di aver goduto di questa libertà con abbastanza spensieratezza senza lasciarmi spaventare, almeno nelle ultime settimane, dal pensiero delle riunioni serali. Non parlavo quasi con nessuno, ero felice di essere solo; soltanto con i cani avevo di quando in quando dei brevi colloqui e con loro mi capivo benissimo. L’essere taciturni era del resto una proprietà di famiglia; lo sapevo da mio padre e non mi meravigliavo se la sera a tavola non si parlava quasi affatto.

Pure nei primi giorni dopo il nostro arrivo Matilde Brahe si mostrò straordinariamente loquace. Domandava a mio padre di antichi conoscenti in città straniere, ricordava impressioni remote e si commoveva fino alle lacrime citando amiche morte o parlando di un giovane che pare l’avesse amata di una passione intensa e disperata ma non corrisposta. Mio padre ascoltava garbatamente, chinava ogni tanto il capo in segno di approvazione e rispondeva solo quando era indispensabile. Il vecchio a capotavola sorrideva di continuo con le labbra socchiuse, e il suo viso appariva piú grande del solito, e allora non si rivolgeva a nessuno, ma la sua voce, benché fosse molto piana, si udiva in tutta la sala; aveva qualcosa del ritmo neutro e regolare di un orologio; e sembrava che l’aria intorno avesse una risonanza vuota, uguale per ogni sillaba.

Il conte Brahe considerava una speciale cortesia verso mio padre il parlargli della moglie morta, di mia madre. La chiamava la contessa Sibilla e tutte le sue frasi si concludevano come se chiedesse di lei. Me la faceva apparire, non so perché, come una ragazza molto giovane, vestita di bianco, che da un momento all’altro potesse entrare fra noi. Nello stesso tono sentivo parlare anche della «nostra piccola Anna Sofia». E quando un giorno chiesi di questa fanciulla che il nonno sembrava avere particolarmente cara, seppi che egli parlava della figlia del Gran Cancelliere Konrad Reventlow, un tempo sposa morganatica di Federico Quarto, ora sepolta a Roskilde da quasi cento anni. La successione del tempo non aveva senso per lui; la morte era un piccolo incidente che egli ignorava del tutto; le persone che erano entrate una volta nella sua memoria esistevano, e la morte non portava alcun cambiamento. Molti anni piú tardi, dopo la morte del vecchio, mi dissero che con la stessa sicurezza egli considerava presente anche il futuro. Una volta aveva parlato a una giovane donna dei suoi figli e in particolare dei viaggi che uno di questi figli avrebbe compiuto, mentre la donna, che si trovava appena nel terzo mese della sua prima gravidanza, sentendolo parlare con tanta pacatezza, era quasi svenuta di sgomento e di paura.

Ma cominciò cosí, che una sera io risi. Sí, risi forte, e non potei trattenermi. Era una sera in cui mancava Matilde Brahe. Tuttavia il vecchio domestico quasi cieco arrivato al suo posto le offerse ugualmente il piatto. Si fermò cosí per un attimo, poi continuò soddisfatto e dignitoso come se tutto fosse in regola. Io avevo osservato la scena e nel momento in cui l’avevo vista non mi era parsa comica. Ma un momento piú tardi, proprio mentre portavo un boccone alla labbra, il riso mi salì cosí rapidamente alla testa che singhiozzai e feci un gran rumore. E benché la situazione fosse molto spiacevole per me e mi sforzassi in tutti i modi di essere serio, il riso tornava impetuoso, finché mi dominò completamente.

Mio padre, anche per coprire il mio contegno, domandò con la sua voce piana e sommessa: «Matilde è malata?» Il nonno sorrise in quel suo modo strano e rispose con una frase a cui io, tutto assorto in me stesso, non badai, e che suonava press’a poco cosí: «No, ma desidera non incontrare Cristina». E non mi accorsi che per effetto di quelle parole il mio vicino, il maggiore bruno, si era alzato mormorando delle scuse confuse e con un inchino verso il conte aveva lasciato la sala. Notai tuttavia che arrivato alla porta, alle spalle del vecchio, il maggiore si era voltato indietro e aveva fatto al piccolo Erik, e con mio grande stupore anche a me, dei cenni con la mano e col capo come per invitarci a seguirlo. Ne fui cosí sorpreso che il riso finí di opprimermi. Del resto non prestai attenzione al maggiore; mi era antipatico, e vidi che anche il piccolo Erik non se ne curava.

La cena si trascinò avanti come sempre, ed eravamo quasi alle frutta quando il mio sguardo fu attratto e subito preso da un movimento che avveniva in fondo alla stanza, nella semioscurità. A poco a poco, mi pare, si era aperta una porta sempre chiusa, di cui mi avevano detto che dava nell’ammezzato; e ora, mentre io guardavo con un sentimento affatto nuovo di curiosità e di angoscia, era apparsa nel buio del vano una svelta figura di donna, vestita di bianco, che veniva lentamente verso di noi. Non so se mi mossi o se fiatai; il rumore di una sedia rovesciata mi costrinse a staccare lo sguardo da quella strana figura e vidi mio padre che si era alzato in piedi e, pallidissimo, con i pugni contratti, si muoveva verso la donna. Lei intanto si avvicinava a noi, passo passo, affatto estranea a questa scena, e non era lontana dal posto del conte quando il vecchio si alzò di colpo, prese mio padre per un braccio, lo ricondusse a tavola e ve lo tenne fermo, mentre la sconosciuta traversava la stanza ormai deserta e piena di un indescrivibile silenzio, in cui solo si sentiva il tintinnio di un bicchiere, per scomparire in una porta della parete opposta. In quel momento mi accorsi che il piccolo Erik chiudeva la porta dietro la sconosciuta con un profondo inchino.

Io ero il solo che fosse rimasto a tavola; mi sentivo cosí pesante sulla sedia che non credevo di potermi alzare mai piú. Guardai per un poco senza vedere. Poi vidi mio padre e mi accorsi che il vecchio lo teneva sempre per un braccio. Il viso di mio padre era eccitato, gonfio di sangue, ma il nonno, le cui dita stringevano il braccio come bianchi artigli, ammiccava col suo sorriso di maschera. Sentii quello che diceva, sillaba per sillaba, senza riuscire ad afferrare il senso delle sue parole. Pure penetrarono profondamente nel mio udito perché circa due anni fa le ritrovai un giorno nella memoria e da allora le so. Disse: «Sei impetuoso e scortese. Perché non lasci andare la gente per i fatti suoi?» «Chi era?» gridò mio padre interrompendolo. «Una che ha il diritto di trovarsi qui. Non un’estranea. Cristina Brahe». Allora tornò quello strano silenzio e il bicchiere cominciò di nuovo a tremare. Mio padre si liberò con uno strappo e uscí bruscamente dalla sala.

Per tutta la notte lo sentii andare su e giú per la sua camera, perché anch’io non riuscivo a dormire. Ma a un tratto, verso il mattino, mi svegliai da una specie di dormiveglia e, con un brivido che mi penetrò fino al cuore, vidi che qualcosa di bianco si era posato sul mio letto. Nel mio sgomento trovai finalmente la forza di ficcare la testa sotto le coperte e là cominciai a piangere di disperazione e di angoscia. Poi provai un’impressione di chiaro e di fresco sugli occhi e li tenni stretti sulle lacrime per non vedere. Ma la voce che ora mi parlava da molto vicino veniva sul mio viso tiepida e dolce, e la riconobbi: era la voce della signorina Matilde. Mi calmai subito, ma benché fossi già tranquillo dentro di me, mi lasciai consolare: sentivo che questa bontà era superflua ma me ne compiacevo e mi pareva in qualche modo di averla meritata. «Zia, – dissi finalmente cercando di ricomporre nel suo viso sbiadito i tratti di mia madre, – zia, chi era quella signora?» «Ah, – rispose la signorina Brahe con un sospiro che mi parve comico, – un’infelice, bambino mio, un’infelice».

Quella stessa mattina vidi in una camera i domestici che si affaccendavano con le valige. Pensai che saremmo partiti e trovai naturale la nostra partenza. Forse era stata anche l’intenzione di mio padre. Non seppi mai che cosa lo avesse indotto a fermarsi a Urnekloster dopo quella sera. Ma non partimmo. Ci fermammo ancora otto o nove settimane in quella casa, sopportammo il peso dei suoi strani eventi e vedemmo ancora tre volte Cristina Brahe.

Allora non sapevo nulla della sua storia. Non sapevo che da molto tempo, molto tempo, ella era morta nel suo secondo parto dando alla luce un bambino che poi doveva crescere a una sorte dolorosa e crudele – non sapevo che era una morta. Ma mio padre lo sapeva. Si era voluto costringere, lui che era un passionale ma credeva nella chiarezza e nella logica, ad accettare quest’avventura con fermezza e senza domande. Vidi, senza capirne il perché, le lotte che combatteva con se stesso e, sempre senza rendermene conto, partecipai alla sua vittoria.

Fu quando vedemmo per l’ultima volta Cristina Brahe. Quella volta era comparsa a tavola anche la signorina Matilde, ma era diversa dal solito. Come nei primi giorni dopo il nostro arrivo parlava continuamente senza un filo preciso e confondendosi spesso; inoltre c’era in lei una specie di inquietudine fisica che la obbligava ad aggiustarsi tutti i momenti i capelli o il vestito – finché a un certo punto balzò in piedi con un grido di sgomento e scomparve. In quello stesso attimo i miei occhi si volsero involontariamente a quella certa porta: entrava Cristina Brahe. Il mio vicino, il maggiore, ebbe una brusca scossa che si trasmise al mio corpo, ma evidentemente egli non aveva piú la forza di alzarsi. Il suo viso di vecchio, bruno e macchiato, si volgeva dall’uno all’altro, la bocca era aperta e la lingua batteva dietro i denti guasti; poi, di colpo, il viso sparí, rimase solo una testa grigia sulla tavola, le braccia abbandonate come in pezzi, e da qualche parte una mano flaccida e macchiata che tremava.

Allora entrò Cristina Brahe, passo passo, lenta come una malata, nel silenzio indescrivibile in cui tremava solo una nota, il guaito di un vecchio cane. E a sinistra del grande cigno d’argento pieno di narcisi si levò la grande maschera del vecchio col suo tetro sorriso. Levò il bicchiere verso mio padre. E vidi mio padre, proprio mentre Cristina Brahe passava dietro la sua sedia, afferrare il bicchiere e sollevarlo appena sopra la tavola come qualcosa che fosse molto pesante.

Quella stessa notte partimmo.