Prose (Foscolo)/VIII. Scritti vari dal 1805 al 1806/II. Difesa da me fatta a Valenciennes l'anno 1805 pel disgraziato sargente Armani

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VIII. Scritti vari dal 1805 al 1806 - II. Difesa da me fatta a Valenciennes l'anno 1805 pel disgraziato sargente Armani

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VIII. Scritti vari dal 1805 al 1806 - II. Difesa da me fatta a Valenciennes l'anno 1805 pel disgraziato sargente Armani
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II

DIFESA
DA ME FATTA A VALENCIENNES L’ANNO 1805
PEL DISGRAZIATO SARGENTE ARMANI

So che con uomini i quali giudicano secondo il vero ed il giusto, a’ quali unica base è la legge, unica norma la verità, inutili riescirebbero le lusinghe oratorie; e però, s’io potessi e sapessi valermi della eloquenza, me ne asterrei: poiché né potrei certamente adescare il giudizio vostro co’ sutterfugi, né impadronirmi dell’animo vostro per mezzo della commiserazione e delle altre molte passioni comuni alla universalità delli mortali, ma, e per l’educazione militare e per l’istituto vostro, lontane tutte da voi. E d’altra parte crederei di offendere la dignità del mio grado e del mio carattere, s’io ricorressi piuttosto alle parole che alle cose, e se, invece di difendere il mio cliente con la schiettezza che presta la coscienza della verità, io scegliessi per armi gli artifizi del fòro. Ma poiché io mi spoglio di tutte le arti, e poiché per unica difesa mi appiglio all’esame logico del processo, io vi scongiuro, o giudici, di spogliarvi dal canto vostro di tutti i pregiudizi, di cui l’atrocità del fatto, la disparità del grado fra il preteso offensore e l’offeso, la necessità di offrire una vittima sull’altare della disciplina militare, e mille altre considerazioni avessero potuto preoccupare l’animo vostro. Consideratevi ora uomini integri come siete, e non generosi militari quali vi professate: consideratevi applicatori freddi della legge anziché zelanti esecutori.

Sono molti delitti de’ quali l’uomo è moralmente persuaso, ma che per difetto di prove l’uomo giudice non può punire. Sono molti parecchi altri delitti, alla punizione de’ quali par [p. 188 modifica] che concorra tutto il processo, ma che, nulla ostante, lasciano nell’animo e nel giudizio secreto del tribunale una schiera di dubbi per cui i giudici graverebbero la propria coscienza e macchierebbero la propria fama, se li punissero senza un prudentissimo esame. A questa seconda specie appartieni il caso che dovrete oggi giudicare. Perocché, ad onta dei moltiplici testimoni e delle deposizioni contro l’accusato, egli è certo che, separando la cosa dalle persone, da tutto il processo non emergono che dubbi; che le testimonianze sono inattendibili ed illegali; che le armi deposte sul vostro tribunale, quasi parte essenziale del corpo del delitto, giovano piú alla difesa che all’accusa; che finalmente le stesse asserzioni contro il prevenuto sono incoerenti fra di loro, e che parte di esse si può agevolmente attribuire all’interesse, parte all’animosità. S’io dunque mostrerò al vostro augusto consesso questa schiera di dubbi col processo alla mano, s’io scolperò il sargente Armani dalla taccia di assassinio, non dovrà egli aspettarsi dalla vostra giustizia una sentenza diversa assai da quella propostavi dal capitano relatore? Egli fa le parti di accusatore; voi quelle di giudici. Egli pronunzia la morte: ma, quando si parla di morte, conviene che le prove, che la promovono, siano limpide, ferme incontestabili, e che permettano al giudice di alzarsi dal tribunale libero da tutti i rimorsi.

Giovanni Armani, sargente maggiore, è accusato assassino del suo capitano. L’accusa è fondata: 1° sulle ferite e su le armi, che sono il corpo del delitto; 2° su la deposizione del capitano Gerlini; 3° su vari testimoni; 4° sulla confessione del reo.

E, per incominciare da’ testimoni, sono tutti inattendibili e di verun peso. Due soli sono oculari nel tempo del fatto: il fuciliere Bellini ed il granatiere Dim; ma non hanno né legale né morale preponderanza nel giudizio.

Prima. — Il fuciliere è della compagnia del capitano Gerlini: alla condizione di subordinato aggiunge quella di ordinanza domestica del capitano, e quindi appassionato a scolpare ed a vendicare il padrone; e dove non l’avesse mosso l’amore, [p. 189 modifica] l’avrebbe mosso certamente il timore. Il capitano relatore non domanda egli stesso al Bellini, in virtú della legge, se egli ha rapporto d’amicizia, d’inimicizia o d’interessi con le persone nominate nell’esame? Assurda domanda. Un servo con chi ha maggiori interessi se non con colui che lo paga e che lo può punire? Seconda eccezione: il granatiere Dim appartiene allo stesso reggimento, coabita nella medesima casa. Terza eccezione: quand’anche questi due testimoni fossero personalmente legali, essi non si trovavano nella stanza che in diversi momenti: quindi non riferiscono che diversi accidenti del fatto; perciò ciascuno di loro è testimonio unico, ed i statuti criminali di tutti i tempi esigono lo stesso fatto e gli stessi accidenti siano uniformemente deposti da due testimoni almeno.

I testimoni civili inutilmente introdotti sono nulli, e perché sono posteriori al fatto, e perché si contraddicono. A pagina ventuna del processo, una donna dice che il sargente Armani usciva inseguendo il Gerlini con una pistola alla mano; ed a pagine ottantacinque due testimoni assicurano che il capitano era su la porta di una bottega circondato dagli spettatori, e che il sargente prendeva la via della piazza di San Geri, ed aveva sembianza non d’inseguire ma di sgombrarsi il passo.

Finalmente sono nulle per se medesime anche le testimonianze di que’ carabinieri che arrestarono il sargente e di quelli che lo accompagnarono all’ospitale: facilmente cade in demenza, nel primo impeto in cui si vede quasi perduto fra le mani della giustizia, un uomo caldo ancora d’un’azione sanguinosa, che non è consigliato che dal dolore delle proprie ferite e non si conforta che nell’idea di vendicarsi col sangue del proprio inimico; che, abbandonato da tutte le speranze, non vede davanti a sé se non la morte, e che gli elementi di vita, che ancora gli restano, sono l’orrore del presente e il terrore del futuro. L’accusato stesso né conferma né nega di avere in que’ momenti parlato; ma la situazione della sua vita di allora gli è escita dalla memoria: egli stesso confessa che non può ricordarsi né dei suoi atti né delle proprie parole, perché egli era tutto allora posseduto dalla ubriachezza e dalla febbre delle [p. 190 modifica] passioni: tutti i codici criminali escludono, o giudici, la confessione spontanea di un uomo il quale, o per ira o per prepotenza di dolore o per disperazione o per infermità, può dare, non dirò certezza, ma indizio semplice di demenza. E, d’altra parte, non appartiene che alla legislazione de’ barbari di profittare delle esclamazioni di un uomo fra le armi. Appena il reo è nelle mani della giustizia, ogni sua parola in faccia a’ giudici è nulla, tranne quella che egli, riconosciuto sano e tranquillo di mente, depone nel processo dietro schiette e non suggestive interrogazioni. E molto piú nel caso presente sono inattendibili le testimonianze degli ascoltanti, poiché le parole uscivano mezze e mal articolate da un uomo che aveva le fauci insanguinate e soffocate dallo scoppio recente di una pistola, la lingua bruciata e la bocca grondante di sangue.

Rigettati dunque tutti i testimoni, perché altri illegali, altri incoerenti ed estranei, è da ridurre l’esame del fatto alle deposizioni dell’accusatore e dell’accusato ed alle armi.

In quanto al capitano, voi vedete, o giudici, che egli non può essere accusatore e testimonio ad un tempo, e che le sue asserzioni non possono meritare fede se non in quanto hanno coerenza co’ fatti. Ma s’egli nel suo costituto dissimula la cosa piú essenziale, se la cosa dissimulata è tutta contro di lui, se questa stessa cosa è poi incontrastabilmente dichiarata dai fatti, la sua deposizione non merita ella i vostri sospetti? Perché mai il capitano mostra le proprie ferite, indica il modo, il momento, l’attitudine dell’assalitore e dell’assalito, e non parla mai delle ferite del sargente? Eppure esistono queste ferite: esistono nel processo, nelle membra del sargente, nelle dichiarazioni de’ chirurghi, e sono appunto ferite di spada. Ma il capitano non ne fa motto né nel suo rapporto in iscritto né nel suo costituto. E come mai fra le armi, che ebbero parte in questa sciagura, io non vedo, o giudici, sul vostro tribunale la spada del capitano? Voi, cittadino relatore, a cui veruna minuzia è sfuggita nel vostro lungo processo, a che non presentate la spada del capitano a’ giudici? Perché nasconderla, poiché serví non solo al capitano, ma anche al sargente nella zuffa? È vero che il Gerlini asserisce che [p. 191 modifica] la spada gli fu trafugata dagli amici per sospetto ch’ei n’abusasse contro di sé; ma, poiché non appaiono testimoni di ciò nel processo, devo io credere, devono credere i giudici alle sole deposizioni del capitano Gerlini? Ma s’ei pure pretendeva fede, doveva fare le sue deposizioni con piú d’esattezza e di verità. Ma la cosa piú mirabile si è che nemmeno il capitano relatore si degna di far menzione nelle sue conclusioni delle ferite del sargente.

Al contrario il sargente confessa, con l’imperturbabilità dell’uomo d’onore che né teme né spera, che egli era andato dal capitano ad aggiustare i suoi conti; che, vedendolo persistere nelle sue feroci determinazioni, che parevano ingiuste al sargente, temendo il disonore e la prigionia, volle uccidersi per lasciargli a’ suoi piedi la vittima che da gran tempo perseguitava; che il capitano, temendo, gli trasse lo stocco e lo ferí, e che il sargente, mosso in quel momento dalla difesa naturale della vita e dall’odio contro il suo persecutore, strappò la spada al capitano, si difese con tutto l’accanimento; ma che finalmente, ripensando alla colpa commessa, tentò di darsi la morte, già premeditata da prima.

Cosí stando nel processo le deposizioni dell’accusatore e del prevenuto, la cosa si riduce, o giudici, ai due seguenti minimi termini:

Se il sargente Armani fu il primo a ferire, il sargente Armani è assassino: se il capitano Gerlini fu il primo ad assalire, il sargente Armani non è assassino.

Mancano testimoni oculari: poiché anche i due testimoni unici, ove fossero ammessi legalmente, non proverebbero se non che il capitano ed il sargente erano azzuffati l’un sopra l’altro e che tutti e due grondavano sangue; le deposizioni del fuciliere e del granatiere appartengono piú ad una rissa reciprocamente accanita che ad un assassinio. Non possiamo dunque, o giudici, essere guidati se non dalle congetture: ma poiché in giudizio tanto pesa il sí dell’accusatore quanto il no dell’accusato, il tribunale deve calcolare chi de’ due merita fede: !° con le coerenze che le deposizioni hanno co’ fatti che si [p. 192 modifica] vedono; 2° col carattere morale de’ due individui che contrastano; 3° finalmente con l’interesse che ciascuno de’ due individui ha di dire piuttosto una cosa che un’altra.

Ed in quanto ai fatti, essi sono piú coerenti alle deposizioni del sargente che a quelle del capitano: il primo confessa le ferite date; l’altro non mostra che le ferite avute. Il primo dice di essere stato assalito in piedi e di essersi difeso con vigore: il capitano, al contrario, dice di essere stato assalito seduto ad un tavolino. Ma se i testimoni e tutte le deposizioni sono uniformi nel dire che l’uno e l’altro erano azzuffati e feriti, è molto piú verisimile che questa attitudine provenga piuttosto da un assalto di due individui armati e in piedi che dall’attitudine di un uomo seduto ad un tavolino con le gambe e i ginocchi impediti, con le mani in atto di scrivere, e quindi esposto non solo alle pistole, ma allo stocco dell’assalitore, e nell’assoluta impossibilità di difendersi. Se dunque il sargente avesse premeditato l’assassinio, e se il Gerlini stava, come egli dice, seduto; l’assassinio sarebbe stato maturato con tutte le opportunità. Che se il Gerlini non gli avesse strappato lo stocco, avrebbe avuto bisogno il sargente di ferirlo con la di lui spada?

La seconda norma dei giudici, dipendente dal carattere morale dei litiganti, milita in favore piú dell’accusato che dell’accusatore. L’accusatore allega di essere stato assalito e di non avere né assalito né ferito. L’accusato allega di essere invece stato assalito e ferito, e di essersi difeso col furore repentino della vendetta e con l’intrepidità del coraggio. Fino ad ora l’accusato è piú veritiero dell’accusatore. L’accusatore allega precedenti malversazioni nel suo subordinato, e mostrasi esacerbato contro di lui appunto nel giorno in cui egli deve per giusto decreto pagare il deficit, nato per la sua indolenza. L’accusato allega l’indolenza per molti mesi nel capitano ed il poco amore per l’aniministrazione della compagnia; le ritenute di solito fatte per ordini generali e superiori a’ soldati per gli stivaletti, da cui derivò il deficit, non in quanto alla somma, ma in quanto al tempo della ritenuta; allega i certificati (li depongo) dei suoi camerata e d’altri uffiziali; allega i continui improperi che [p. 193 modifica] avviliscono e chi li dà e chi li riceve; allega l’onore perduto in faccia e tutto il reggimento e l’ingiustizia della prigionia imminente.

Nell’accusatore dunque si vede l’indolenza, l’imperízia e la debolezza di reprimere i disordini, la illiberalità e la villania. Nell’accusato al contrario appare la stanchezza della persecuzione ed il punto d’onore. L’accusatore confessa che egli aveva preso un ordine per un altro, e che per questo sbaglio invece della sala di disciplina intimò al sargente la prigione della cittadella. E qui può il giudice sospettare che non forse per ismemorataggine, ma pel solito spirito di persecuzione, il Gerlini aggravò considerabilmente la pena ordinata in iscritto dal comandante Rossi. L’accusato confessa che per quest’ordine violento, reputandosi morto civilmente, meditò il suicidio appiedi del proprio tiranno. L’accusatore dunque appare un uffiziale che per ismemorataggine e per imprudenza, e forse per crudeltà, strascina alla disperazione ed al sepolcro un suo subordinato; l’accusato al contrario appare un soldato che non può sopravvivere alla infamia. L’accusatore confessa che nella zuffa egli aveva perduta la presenza di spirito: fugge in mezzo al popolo, geme, si querela fra le donne. L’accusato mostra col fatto, che per non morire come pecora, si difese da chi lo assali; che non teme la morte ma il modo vile della morte, e che, persistendo sempre nel suo proponimento del suicidio, si scarica con tranquillità d’animo una pistola nella bocca: la pistola lo inganna: invece di dargli la morte senza dolore, gli lascia il dolore e gli nega la morte ch’ei desiderava; con tutto ciò egli esce tranquillamente dalla casa, non insegue persona del mondo, non fugge, ma va a passo tardo e generoso, simile a quelle fiere magnanime che temono di essere vedute fuggire dal cacciatore. L’accusatore appare dunque un uomo di animo misero; mentre l’accusato è un uomo consigliato e sicuro, anche nel sommo turbamento della sciagura. Fra due uomini di sí diversa tempra a chi è da credersi, o giudici?

In ultimo luogo, la terza norma per il tribunale in siffatti casi di dubbio deve essere l’esame dell’interesse che move ciascuno de’ due individui a dire piuttosto una cosa che un’altra. [p. 194 modifica]

Certamente che il sargente Armani aveva interesse di dire, e poteva anzi dire, che la terza pistola non era sua, ma che l’aveva trovata nella stanza del capitano: aveva interesse di dire, e niuno poteva provargli il contrario, che quel colpo che egli ha nella bocca gli fu diretto dal Gerlini, poiché, quando se lo diresse, non fu veduto da occhio vivente: aveva interesse di tacere, e poteva tacere, molte particolarità nel processo, che egli pertanto non tacque; e non solo aveva interesse, ma avrebbe avuto anche la tranquillità di animo e la freddezza di mente, poiché voi vedete in ogni parola del suo costituto tutta la fermezza e la rassegnazione. E dove il Dim dice d’aver veduto l’atto del suicidio nel primo processo verbale fatto dal sottotenente Mazzacurati, nel processo poi il Dim depone di non esservi stato presente1.

Diversa bensí è la deposizione del Gerlini, il quale non solo non si aggrava mai, ma lascia ad ogni ora involontariamente travedere e il sommo spavento nel combattimento, e con tutte le cautele cerca di non far mai sospettare che egli abbia mai assalito o ferito.

Tanta differenza di costituti, l’uno intrepido e leale, l’altro dubbio e cauto, da che può mai derivare se non che l’uno è suicida ragionato, e l’altro ancora è uomo, vale a dire soggetto a tutti gli errori a cui il mortale è guidato dall’amor della vita? Il sargente, stanco da lungo tempo dalle tempeste d’una esistenza afflitta e perseguitata, non teme la morte, anzi se la preparava egli stesso quando ei credeva d’aver perduto l’onore; non ha quindi interesse di dissimulare, e non vuole maggiormente disonorare gli ultimi suoi giorni con la menzogna. Ma il capitano essendo ancora tutto attaccato alla vita, egli è trascinato dalla tema del disprezzo de’ suoi camerata, dal timor del castigo, dalla coscienza della propria colpa, dall’ardore della vendetta a mascherare a tutto potere la verità.

Dopo tutto ciò, o giudici, poiché la sentenza non può essere fondata che sulle parole de’ due litiganti, considerate chi [p. 195 modifica] di questi due merita maggiormente la vostra fede. Quandanche l’Armani non la meritasse, la merita per questo il capitano? Per condannare il sargente è forza che troviate limpide, incontestabili, non soggette a debolezza di carattere ed a passione le asserzioni del capitano. Per non condannare il sargente basta che le asserzioni dell’accusatore siano dubbie. Ma io mi richiamo, o giudici integerrimi, alla vostra coscienza: siete voi pienamente certi che il sargente maggiore sia l’assassino? Tutto è coperto in una dubbiosa oscurità. Il furore, la disperazione, il timore, le passioni tutte insomma, che hanno provocato e maturato questo terribile fatto, lo hanno involto nella lor confusione. Quali fatti emergono contro il prevenuto? Uno solo: quello di essere entrato armato nella stanza del capitano. Ma che egli fosse entrato per uccidersi, per contaminare la casa del suo persecutore col proprio cadavere, lo prova non solo il colpo che egli volse contro di se stesso, ma la tranquillità con cui egli attende senza timor della morte la vostra sentenza. Che s’ei s’era armato per uccidere il capitano, come mai non consumò il delitto con tre pistole? Una scroccò; ma non gli sarebbero tutte sfallite, poiché quella ch’ei sparò contro di sé prese fuoco, e voi ne vedete ancora le cicatrici. Ma, oltre alle pistole, non aveva egli uno stocco? E prova ch’ei non recò quest’arme contro il capitano, vi sia ch’egli sino dalla mattina per le vie ed in faccia gli uffiziali superiori lo aveva portato.

L’ordinanza lo proibisce, ch’il niega? ma accusatene il capitano, che doveva egli stesso primo di ogni altro vegliare perché le ordinanze fossero eseguite da’ suoi subordinati; egli che, per la sua lunga indolenza e per la sua subitanea ed importuna severità, provocò le proprie ferite e la disperazione di questo giovine sciagurato. So che la delazione delle armi è vietata, ma voi sedete oggi per giudicare un militare prevenuto di assassinio, e non di delazione di2 armi; e che ogni sentenza divergente dall’accusa di assassinio sarebbe oggi incompetente e crudele. [p. 196 modifica]

Havvi tale frattanto che, quantunque dall’evidenza delle cose da me esposte convinto, osa gridare che la militare disciplina domanda ad alta voce un esempio; e che, sebbene il delitto non riesca chiaramente provato, è necessaria una esecuzione capitale per ispaventare coloro che meditano scelleraggini! Oh! se la scure e le carceri sole dovessero prevenire i delitti, non esisterebbe piú, non dirò milizia, o giudici, ma neppure società! Le vere vie della disciplina non sono assicurate dalle catene del carceriere né dalla scure dei carnefici, bensí nell’esempio e nell’avvedutezza di chi comanda; onde sapientissima era la disciplina romana, che puniva il centurione ed il decurione di tutte le colpe commesse dal soldato. Ma forse gli uffiziali hanno piú emolumento, piú onori, piú autorità, per avere meno doveri? Per affrontare con me questa opposizione, piacciavi, o giudici, di considerare che quegli esempi sono utili che si riflettono sopra molti individui, quando la morte di uno può essere di specchio a’ molti, che hanno o l’occasione o la propensione a pari delitto. Ma il delitto di oggi, ove fosse stato provato, esige uno straordinario coraggio, una matura e ferma deliberazione, un alto carattere; cose rare nella moltitudine, e per conseguenza di veruno esempio. Onde inumana cosa sarebbe di prevenire con una morte certa e presente un qualche attentato futuro ed incerto.

Ma, per appagare il simulacro della disciplina, coglierete voi l’opportunità di dissetarla nel sangue di un giovine militare nel fior dell’età, di un giovane il di cui ingegno non è soltanto limitato negli esercizi della sua professione, ma che esibisce tutti i frutti di un’utile e colta educazione, che possiede più lingue, che da sette anni siegue le insegne nostre non solo nelle liete fortune (come tale, che ora non mi giova di nominare, ha fatto vilmente) ma ne’ pericoli e nelle disavventure; che ha perduto un fratello per la repubblica; che scenderebbe sotterra desiderato da molti de’ suoi superiori, compianto da’ suoi camerata, e la di cui perdita rapirebbe alla patria un uomo intrepido, il quale anche in questo avvenimento, atto a turbare l’anima piú costante, si è portato con eroico coraggio e con filosofica tranquillità? Tuttavia, se la giustizia lo esige, si coprano di un velo [p. 197 modifica]

tutti i meriti dell’accusato e tutti i diritti che egli potesse mai avere su la vostra pietà: egli stesso, scegliendomi per suo difensore, m’impose ch’io non cercassi pietà ma giustizia. Ponete dunque la giustizia su la bilancia; trovate voi nel processo le prove chiare, indubitabili, capaci di farla pendere contro l’Armani? Tutto si riduce: 1° a due feriti, uno meno gravemente dell’altro, ma tutti e due feriti in diverse parti del corpo; 2° a nessun testimonio legale; 3° a tre pistole appartenenti all’accusato; ma due cariche ancora, e la scaricata lascia le ferite non sull’offeso, ma sul preteso offensore; 4° a due spade appartenenti a ciascun dei due feriti, una delle quali è nascosta dall’accusatore; 5° ad una deposizione simulata dell’accusatore e ad una confessione leale dell’accusato; 6° all’accusa da un lato di alta insubordinazione, dall’altro di una feroce provocazione.

Maturate voi dunque nella vostra saviezza la sentenza, e, prima di pronunziare una pena capitale, badate che mille discolpe, che la fortuna od il tempo potessero far emergere dopo la vostra decisione, non potranno risuscitare la vittima; badate che la società perde un individuo il quale sino a questo sciagurato avvenimento non ha dato mai prove di delitto o di vizio; badate che la patria perde un soldato generoso; la patria, la quale, traendovi in questo giorno dal numero di ciechi esecutori, vi onora altamente, confidandovi la parte piú nobile della legislazione, [non] la punizione della colpa, ma la protezione dell’innocenza; e che se fosse da voi sacrificata, non potreste mai per mille pentimenti liberarvi dal rimorso, e vi vedreste macchiati sempre del suo sangue.

Queste cose, o giudici, m’impone il sargente Armani di presentarvi a sua difesa. Concedetemi ch’io torni a ricordarvi che in questo luogo siete giudici e non militari3. Faccia il cielo che la vostra decisione non offenda la giustizia, riesca onorevole a voi ed utile alla repubblica.

Note

  1. Nel ms. questo periodo è scritto in margine senza alcuna indicazione del luogo dove debba essere inserito [Ed.].
  2. Autogr.: «alle» [Ed.].
  3. Nell’autografo è aggiunto, ma poi cancellato: «E che non potete colpite come assassino il sargente Armani, e non siete pienamente sicuri che il capitano Gerlini non fu il primo aggressore» [Ed.].