Prose (Foscolo)/V - Scritti e frammenti vari dal 1802 al 1805/III. Frammenti su Lucrezio

Da Wikisource.
III. Frammenti su Lucrezio

../II. Saggio di novelle di Luigi Sanvitale, parmigiano (1803) ../IV. Commentari della storia di Napoli (1803-4) IncludiIntestazione 9 maggio 2022 75% Da definire

V - Scritti e frammenti vari dal 1802 al 1805 - II. Saggio di novelle di Luigi Sanvitale, parmigiano (1803) V - Scritti e frammenti vari dal 1802 al 1805 - IV. Commentari della storia di Napoli (1803-4)

[p. 195 modifica]

III

FRAMMENTI SU LUCREZIO

Mi abbandono prima degli anni giovanili il dolce spirito delle muse, che primo mi iniziò nelle lettere. Io era appena tinto della lingua latina, e ignaro al tutto della toscana, quando venni di Grecia in Italia; e que’ primi anni della mia gioventú, sebbene circondati da molte miserie, furono nondimeno illuminati dalla musa, e fu il mio ingegno come innaffiato dalla poesia, alla quale tutta l’anima mia si abbandonava. E dal suo amore incitato, tutti lessi in quel tempo e gl’italiani e molti de’ latini poeti; piú assiduamente il padre nostro Allighieri e Omero, padre di tutta la poesia. Cosi mi ravvolsi, senza avvedermi, nelle passioni degli uomini e nello studio de’ tempi e delle nazioni, onde di mano in mano, dopo avere scritti molti ardenti ed ineruditi poemi di ogni specie, m’inoltrai nella storia e nelle dottrine morali e politiche. E la rivoluzione, e l’esilio, per cui non ho né tetto né sepolcro, e la guerra, dove ritrassi lode, prigioni e ferite, ma né sostanze né lustro, mi stornarono per piú anni dalla poesia; ed ora in questa passeggera mia tranquillitá me ne distorna non solo il sentirmi in cuore poche faville di quel primo fuoco, ma e l’abbondanza de’ poeti in Italia ed il secolo meno schivo di filosofia che di versi.

Aggiungi ch’io ho sempre scritto, perché non ho potuto fare, e cercava così di mandar fuori del mio petto un certo fuoco che ruggiva dentro di me, e che cresce con gli anni; onde il cuore mandò sempre i sensi miei all’ingegno, e l’ingegno alla penna: perciò io confesso di avere moltissimo sentito e poco [p. 196 modifica] pensato. Ed ora rivolgo in cuore cose che rifuggono dalla eleganza de’ versi, né sono sí mature da essere scritte apertamente; ma sará di me e de’ miei pensieri ciò che destinerá la dea Fortuna. Ma, poiché mi abbandonò lo spirito delle muse, non volli io del tutto abbandonarle, e per la gratitudine ch’io devo a’ lor benefici, e per la soavitá che hanno lasciato dentro di me. Ma, come ad amante da cui mi hanno disgiunto le sorti, rivolgo spesso [loro]1 i miei pensieri e i miei sguardi; e, poiché non posso adornarmi de’ fiori troppo giovanili che un tempo mi diedero, io sto ammirando e respirando la fragranza di quelli che compartirono altrui. E molto piú, perché io reputo che nulla torni piú [atto] alla verace eloquenza, quanto un certo spirito poetico maestrevolmente insinuato negli scritti anche filosofici e severi. Però Tacito fra gli antichi e Gian Giacomo Rousseau fra’ moderni hanno lettori, che con essi piangono filosofando; e ben presto si persuade la ragione, quando ne’ mortali sono persuase prima le passioni.

Queste cose preaccennai e per me, o lettore, e per te. Ben fugge questo acerbo tempo, mentr’io vo guardando il passato, e vivo in quegli anni miei non meno infelici forse di questi, ma piú ignari della propria infelicitá; e per te, lettore, onde tu non mi reputi troppo ardito, se parlerò della divina poesia e di Lucrezio, quasi sacerdote che sagrificasse alle are di deitá ignote.

Per me ho reputati grandissimi e veri poeti que’ pochi primitivi di tutte le nazioni, che la teologia, e la politica, e la storia dettavano co’ loro poemi alle nazioni; onde Omero e i profeti ebrei e Dante Allighieri e Shakespeare sono da locarsi ne’ primi seggi. Di que’ molti che vennero dopo, se tu ne togli i tragici e que’ rari che somigliarono a Tirteo, da Platone chiamato «poeta divinissimo», tutti gli altri non cantano che de’ loro amori o de’ loro signori. Ma la poesia greca e latina spargeva tutti i versi de’ costumi de’ loro tempi, e molto giova a’ posteri per tramandare la storia della morale di quelle etá. [p. 197 modifica]

Ma questi nostri italiani, ove si guardi allo scopo vero e primo della poesia, non solo non hanno (ove pochissimi tu ne tragga) né la storia, né la morale, né la politica descritto della nazione; ma né adombrato il genio ed i costumi del tempo. Di questi pochissimi è signore e maestro l’Allighieri, e dopo di lui nelle sue Canzoni eroiche il Petrarcanota e due ne ebbe il nostro secolo, uno maestro di libertá, e l’altro mollemente ed argutamente derisore della nobiltá italiana, onde a ragione Vittorio Alfieri gl’inviò le sue tragedie, chiamandolo

primo pittor del signoril costume.


DE’ TEMPI DI LUCREZIO

Molti epicurei, ed eccellenti tutti, fiorivano intorno a’ tempi di Lucrezio, fra’ quali Tito Pomponio Attico. Come i bisogni fanno trovare le arti, cosí i tempi fanno trovare la filosofia piú acconcia; e, se pur fu per lo innanzi trovata, la fanno rifiorire. Viveva Lucrezio intorno a’ tempi di Silla e Mario. Da Silla derivò la fazione aristocratica, di cui fu principe Pompeo: da Mario la popolare, di cui fu principe Cesare; e queste fazioni si moltiplicavano in piú capi di parte, a seconda della fortuna; e il vincitore si placò sempre col sangue de’ vinti; e da quel sangue sorgeva spesso il macello de’ vincitori. Né potevano, in tante civili faccende, non favorire i cittadini chi l’una e chi l’altra parte, e specialmente gli uomini notati splendidi per natali, per ricchezze e per eloquenza; tanto piú che tutti erano i romani d’istinto e d’animo bellicoso. Onde nella varia fortuna delle battaglie tutti erano ora tiranni, ora schiavi. Quelli, che vollero cercare calma in tanta tempesta, volgevansi alla filosofia, e molto piú alla epicurea, che lascia il mondo politico come sta ed attende a vivere soavemente. Fu quindi opportuna questa filosofia in


2 [p. 198 modifica] que’ tempi, come fu opportuna la stoica ne’ tempi che seguirono le fazioni, [cioè durante] la tirannia. Perché Tiberio e gli altri non volevano spegnere avversari, ma tutti quelli ch’erano o piú virtuosi o piú ricchi; e si vede che in que’ tempi nemmeno l’oscuritá era porto. Erano quindi fatalisti e stoici, e presti al morire e alle severe virtú, sulle quali l’arbitrio de’ tiranni non poteva. Alludono que’ versi [del libro terzo] di Lucrezio, dal 59 al 73, alle sciagure sanguinose de’ suoi tempi; e ben se ne duole, benché epicureo. È da notarsi questa cosa, benché straniera al discorso. Le fazioni sillane produssero pure de’ grandi personaggi tutti in un tempo, che controbilanciavano quanti romani li precedevano. Sertorio, Pompeo, Cesare, Catone, Cicerone, Catilina, Lucullo, Bruto, Marcantonio, Orazio, e tanti altri splendidissimi per trionfi, per magnanimitá, per opulenza sterminata, per austeri costumi, furono tutti e contemporanei e grandissimi. Non che dalla natura avessero sortite piú doti di que’ primi romani, ma piú necessitá di essere grandi traevano dai tempi. Questo esempio si vide nella rivoluzione francese, dove molti morirono famosi, che sarebbero vissuti ignoti. E quanti italiani ora in questa calma si strascinano oscuri, e, non potendo fare, ruggono vanamente come il leone? ovvero

Acrius advertunt animos ad religionem?

Dal verso 41 fino al 54 Lucrezio, volendo convincere tutti gli insultatori di morte, i quali nelle disavventure perdono ogni filosofica baldanza, pare che non debba eccettuare neppure la propria setta. Che se que’ medesimi, che vogliono l’anima nel sangue, e la reputano uscire e perdersi col sangue nella massa delle cose, si avviliscono nullaostante nelle sventure, e piú intensamente si volgono alla religione, perché non denno avvilirsi anche gli epicurei? E gli uni e gli altri non credono la immortalitá dell’anima: gli argomenti sono diversi; ma uno è il fine. Onde parmi che... Si vedrá piú avanti come molte filosofie negarono la immortalitá dell’anima; né sono diverse dalla epicurea, se non negli argomenti. Lucrezio nondimeno le accusa, perché la loro dottrina è soltanto speculativa, e manca [p. 199 modifica] alle prove. Tutti i moralisti dicono ciò che si deve fare o non fare; non dicono il come. Onde que’ tanti insultatori di morte, spesso nelle disavventure non solo ogni giorno di vita [comprano] con altrettanti giorni di pianto, ma si volgono superstiziosi alla religione, che nella felicitá disprezzavano. Questa guerra fra la dottrina e le azioni deriva, perché, armandoci di tutti gli argomenti che ci fanno disprezzare la morte, non sappiamo spogliarci delle passioni che ci fanno amare la vita; gli argomenti sono ne’ libri, e le passioni nel cuore; e queste prevalgono.

Ma Epicuro dá per sicura norma, onde liberarci dallo spavento della morte, il freno di quelle passioni per le quali noi bramiamo la vita. Quando il timore del disprezzo, la libidine delle ricchezze e delle voluttá, l’insaziabile furore del potere e degli onori sono elementi della vita, noi dobbiamo a tutto potere accarezzarla, perché, morendo noi, morrebbero tutte le speranze di soddisfare le nostre passioni. Onde dai riposati costumi degli epicurei nasce anche la tranquillitá della morte. E, poiché dal timore del sepolcro derivano tutte le inquietudini umane, Lucrezio in questo libro prova la mortalitá dell’anima, e la necessitá quindi di godere soavemente della vita, mentre, dopo morti, ritorniamo a rimescolarci nella materia. Il non esservi altro mondo dopo questo, toglie ogni principio di religione, alla quale sogliono rifuggire i mortali nelle loro disavventure.

Ma questa dottrina è anch’ella fondata sopra i ragionamenti dell’intelletto, ma non può essere in concordia con la nostra natura. Se gli uomini fossero senza numi, perderebbero certamente molti timori e molte speranze, e dovrebbero o abbandonarsi alla noia, fierissimo de’ mali, o alle speranze e a’ timori delle altre passioni. Non considerando la religione come stromento politico, ma come cosa interamente morale, dico che sono tante le avversitá, alle quali, volendo o non volendo, soggiacciono, che, se togli la religione alla filosofia, rari potranno goderne i frutti. Per la universalitá gli dèi sono terrore, ma sono piú sovente consolazione: anzi non possono atterrire che i pochi scellerati e possenti; ma consolano i deboli ed infelici, i quali fra le miserie [p. 200 modifica] e le ingiustizie cercano nel cielo il conforto futuro del pianto presente. E gl’infelici fanno in tutti i secoli l’universalitá del genere umano. Quindi questa setta3 epicurea deve essere acconcia a pochi, perché pochi possono accomodarsi a quella filosofía che combatte con la natura. E ben di ciò s’era avveduto Epicuro, che vietava a’ suoi discepoli le pubbliche faccende, perché nelle cose civili e nelle guerre non solo le passioni si eccitano e s’infiammano, ma sono piú facili le sventure, e sempre quasi inevitabili; e le sventure fanno superstiziose anche le anime filosofiche e superbe. Epicureo perfetto era Cassio, ed eccellente guerriero e romano, in tempi assuefatti alle civili battaglie ed alle sanguinose rivoluzioni. Pure, mentr’egli accingevasi ad assalire Cesare con gli altri congiurati, raccontano gli stoici ch’ei, volgendo intensamente gli occhi alla statua di Pompeo, lo invocasse col cuore. Così la fortezza stoica di Bruto non potea preservarlo dal fantasma del suo cattivo genio, col quale parlò dopo l’uccisione di Cesare, e [che] rivide ne’ campi filippici all’ora della morte.

Allego questi esempli d’uomini illustri, perché, essendo i primati dell’umano genere, sentivano quindi in se stessi piú altamente, e per natura e per educazione, tutte le passioni dell’uomo. Che se la religione non fosse né terrore né conforto, ma sola occupazione del nostro cuore, sarebbe nondimeno necessaria, poiché il piú fatale stato dell’uomo è la noia4. La natura ha ricompensato i sudori, la fame e le lagrime dell’agricoltore e [p. 201 modifica] della plebe, [che] non può sovvenire a’ propri bisogni se non col lavoro; ed il lavoro le fa dimenticare le ingiustizie della fortuna. Però vediamo che gli uomini, i quali possono con le loro sostanze vivere nella impassibile tranquillitá degli dèi, la piú parte corre cercando onori o ricchezze maggiori ed inutili, o scienze vane e dottrina. E il bisogno d’occupazione, o, per meglio dire, il timore innato della noia fa nascere desiderio dopo desiderio; ed infelicissimo sarebbe quel conquistatore, che fosse padrone dell’universo e che nulla avesse a desiderare. Allora nasce in noi, per una opposta via, una nuova sventura, la quale pure lo farebbe avere necessitá degli dèi; ma insomma non sarebbe che necessitá di evitare la noia.

Dico a me stesso: perché vivi? tu e tutta l’umana razza, qual mai fine dovete adempiere nel mondo? Chi mi ha preceduto nacque, visse, morí, e lasciò dopo di sé una mano di posteri, che non fanno che riprodursi per nascere, vivere, morire. Le nazioni si struggono vicendevolmente e, divenute senza rivali, se stesse; e il romano combattea col romano. O umana razza, quale è la meta di tante fatiche? Niuno lo sa, e ognuno nondimeno si affanna per vivere. Ma né l’uomo è contento della semplice vita. Loda la tranquillitá appunto perché non l’acquista mai; e, se mai l’avesse, la fuggirebbe come si odia la sazietá. Il supremo motore di tutti i suoi pensieri, di tutte le sue membra è la noia. Ove nasca solitario, lontano dalla voce e dalle orme di tutti gli altri uomini, saziandosi di ciò che gli offre il campo, s’ei non sa come tormentarlo, cerca gli altri animali, e uccide que’ che lo possono nutrire e que’ che potrebbero nuocergli; e, tratto dall’inquietudine di agire, uccide anche quegli animali che, vivi o morti, non gli farebbero né bene né male. Cosí di desiderio in desiderio si trasforma, e dalle caverne cerca le capanne, e le cittá, e i mari, e il mondo tutto, ed il cielo5. [p. 202 modifica]

Ora il primo motore di tutte le azioni è la noia, la quale ci fa cercare occupazioni e desidèri nuovi, quando sono sodisfatti quelli che ci rodevano. Né io disputo se tale è l’uomo in istato di natura: io non l’ho veduto, né si può nemmeno argomentare e desumere quale egli sarebbe: dirò bensí che, se l’uomo in istato di natura si fosse contentato dell’essere suo, non sarebbe cosí prestamente ridotto in societá. Se dunque gli uomini considerassero la loro misera vita faticosa e quale ne è lo scopo, certamente dovrebbero tutti fuggire e ritornare dov’erano prima che fossero nati. Me fortunato, s’io ai tranquilli ed operosi studi dell’agricoltore e dell’artigiano o alle boriose scienze della matematica e dell’astronomia avessi rivolto il pensiero, anziché allo studio dell’uomo! Io non6 sarei sí spesso di compassione e di disprezzo a me stesso; non mi si farebbero svanire le illusioni, che, come mere apparenze, velano il vuoto della vita; non avrei perduta la speranza del cielo, e la superbia di non morire affatto, e di lasciare dopo il mio corpo il mio spirito. Tornando dappertutto nel vóto e nel nulla, io vedo gli uomini infelici quando hanno desidèri, ed infelicissimi quando non ne potessero avere.

Lucrezio stesso confessa che la gloria fu la motrice del suo sovrumano poema; e, quantunque voglia spogliarsi dalle passioni, egli stesso ha per motrice una passione. Onde è tratta, siccome [p. 203 modifica] io stimo, dalle viscere della filosofía quella sentenza di Sallustio, che assegna per principale cagione della guerra catilinaria la pace e le ricchezze. «Caeterum iuventus pleraque, sed maxume nobilium, Catilinae incoeptis favebat: quibus in otio vel magnifice vel molliter [vivere] copia erat, incerta pro certis, bellum quatti pacem malebant».

Dissento perciò dalla opinione di quel sommo filosofo, che morí nell’anno appunto in ch’io nasceva, il quale crede che l’uomo sia posseduto dalla forza d’inerzia ed inclinato piú allo starsi che al fare. Ma io, esaminando le mie azioni e quelle degli uomini, e le piú naturali, ho trovato che si cercano spesso dolori per avere poi, sfuggendoli, piacere; e che molti, che pur trovano fatale necessitá il sonno e il mangiare, ove perdano l’appetito e la stanchezza, se ne dolgono, e cercano quasi sproni alla loro natura. E la vita non è che un perpetuo moto; e, dove cessi, cessa la vita. E l’universo tutto è moto, il quale moto è governato dalla forza; e queste due sono le suste che fanno operare la universale macchina delle cose.

Volevano in questi miei tempi molti uomini svellere da radice la religione, perché la religione aveva sino ad ora favorito la tirannide. E, credendola elemento della tirannide e non della umana natura, s’avvisarono che lá fosse repubblica dove [non] fosse religione. Ma quanto costoro s’ingannassero, lo disse l’esperienza di due soli anni: e furono, e in Francia, donde sorse questa pianta, e in Italia, dove pure stese qualche radice, forzati a ricovrare quella religione che volevano prima esiliare; e questo serví anche di alimento alla tirannide, che ora è ne’ Cesari, e che presto andrá agli Ottaviani ed a’ Neroni. Origine fu, questa matta persecuzione contro la religione, e della credenza che il popolo maggiormente le presta (poiché così si sono verificati i vaticini de’ profeti di Roma), e del favore con cui la tirannide, che restituí la religione, fu accoltanota. E se, mai venisse giorno di libertá e di possanza per

(1) 7 [p. 204 modifica] gli italiani, questa sia prima lor cura: di conservare all’Italia la sede [della religione] di Cristo, la quale, benché tutta insanguinata di delitti, fece tributari un tempo senz’arme tutti i re e gl’imperatori d’Europa, e trasse a Roma le adorazioni e l’oro degli stranieri. Se non che fors’anche questa religione avrá fine come tutte le umane cose. Ma, qualunque siano le rivoluzioni del cristianesimo, queste due cose dico doversi fare dagl’italiani, se mai acquistassero libertá e grandezza: ritrarre la Chiesa di Cristo a’ suoi principi, e darle magnificenza. La prima cosa la fará meno scellerata, l’altra piú utile allo Stato. Ed è facile ritrarla a’ suoi principi, tutte quelle cose da prima recandole che sono utili a’ preti, non discare alla plebe; e però conviene osservare quello che piú appetisce la nostra natura. E primamente partecipando a’ preti tutte le magistrature della repubblica; concedendo il matrimonio; armandoli gli uni contro gli altri, e specialmente i regolari, per la possessione di terreni, la qual cosa diminuirá la lor lega e li fará ridicoli per le loro dispute e dispregiabili per le loro colpe al popolo (ché, ove si tratta di averi, i mortali non risparmiano contumelie e delitti), facendo non ad un tratto, ma di lenta consunzione morire tutte le religioni fratesche; tutte abolendo le decime, che gli agricoltori pagano a’ parrochi, e ricompensando i parrochi con piú stipendi di ciò che da prima ritraevano; pubblicamente sieno venerati, e secretamente strozzati, ma non giá puniti mai con apparato, perocché piú a’ miei tempi incuteva in Venezia il nome degli inquisitori di Stato, che avea fama di strangolare e di imprigionare, sebbene assai piú teste, ma con meno timore, si mozzino in tutta Italia. E cosí a poco a poco levare a’ preti le celebrazioni misteriose e la confessione: insomma fare cittadino ogni prete e prete ogni cittadino. In quanto alla magnificenza, conviene ornare di assai edifici le cittá, e con somma pompa fare l’esequie de’ cittadini, ed ogni festa sí lieta che trista tragga

[p. 205 modifica] principio dalla religione, e siano le vesti de’ sacerdoti non dissimili da quelle de’ grandi magistrati; e, santificando molti egregi concittadini o nelle scienze, o nelle armi o ne’ costumi, le loro statue ponendo fra i simulacri de’ nostri dèi, e celebrando sontuosamente i loro nomi e le loro solennitá fare a poco a poco dimenticare i nomi de’ Giuseppi e de’ Franceschi, facendo che lo Stato sia l’anima della religione, e che ad ogni gioia o patimento dell’animo il corpo patisca. Sopra di che unico modello ti sia la religione romana, non in quanto a’ dogmi, che piú o meno cangiano negli accidenti e ne’ nomi, ma in quanto al rito. Ed era certamente filosofo Cesare e ben disse nel senato che dopo morte tutto è ignota calma, ed era nondimeno sommo pontefice, il che non gli fu scala alla possanza, e ben cel dice Cicerone ed Orazio. Pure Cicerone, mentre stava per andare [in] esilio, dedica in Campidoglio la statua di Minerva con l’epigrafe: «A Minerva protettrice di Roma»; e l’altro cantava il Carmen seculare alla plebe romana. Né di lieve aiuto saranno a ciò i poeti e gli scrittori. Cosí, a poco a poco, la religione muterá aspetto come uomo nutrito d’altro cibo. Che se mi si opponesse la difficoltá [di] mettere in opera questi cangiamenti, io dico che niente può essere difficile a uno Stato, quando pur voglia; e se i Colonnesi e gli Aragonesi e i Medici poteano avere papa chi volevano, tanto piú gli italiani, quando pur fossero indipendenti, potranno far papa e cardinali chi saprá con questa via provvedere alla patria; e, in quanto a’ popoli, dico, che que’ popoli, che soffrirono il tribunale della inquisizione perché li divertiva con lo spettacolo delle pire, potranno soffrire le riforme che si pasceranno di baccanali. E la religione del mondo ha dipenduto da Costantino, e quella d’Inghilterra da Enrico ottavo. Perché i popoli in tutte le cose, e molto piú nella religione, sono greggia; ma la non si tolga8.

  1. Si avverte che le parole fra parentesi quadre mancano nel ms. [Ed.]
  2. Nel ms. seguono queste parole, non ben chiare, come d’un periodo lasciato in tronco: «e queste canzoni o sonetti fra tanta furia di versi di quasi quattrocento anni» [Ed.].
  3. Sopra la parola «setta» nel ms. c’è «massima» [Ed.].
  4. In fine del ms. c’è l’appunto seguente, che si riferisce a questo luogo: «Però, veggendo Epicuro che questa noia ci faceva scorrere di desiderio in desiderio, e di pianto in pianto e [di] fatica in fatica avvicinarsi al sepolcro, riponea tutta la sua felicitá nella indolenza del corpo e dell’animo; e questa beatitudine guatavano (?) i suoi dèi, che né del bene si rallegravano de’ mortali, né punivano i lor delitti.
    «Così pure Cicerone s’imbattè in Macedonia, donde guardava con occhi lacrimosi i lidi d’Italia, s’imbattè in un epicureo, che con [la] sua filosofia s’argomentava a consolarlo.
    «Gli stoici e gli altri filosofi, che vogliono... questa tempesta, cadono (?) sempre quasi in un’altra maggiore, che... tutta la vita, perché combatte con la natura. E poi quanti stoici...» [Ed.].
  5. Di questo paragrafo c’é nel manoscritto la variante seguente:
    «S’io domandassi, non dirò ad un uomo volgare, ma ad un provetto filosofo: — Sai tu perché l’umana razza vive? sai tu quale fine deve adempiere nel mondo? — certo che niuna risposta piena potrei ritrarne; e noi vediamo che gli uomini nascono, vivono, muoiono e s’affannano per vivere senza sapere quale debba essere lo scopo della loro vita e delle loro fatiche. Quantunque l’uomo, scelleratissimo fra tutti gli animali, perché è bugiardo e credulo ad un tempo, perché è leone con le lepri, e volpe con i leoni, perché distrugge tutti gli animali, non solo quelli che gli sono dannosi vivendo e quelli che gli sono utili uccisi, ma anche quegli animali tranquilli e solitari che, vivi o morti, non gli fanno né bene né male; — tuttoché egli domini tutto il creato, io gli chiedo perché... per vivere. Ma tu cerchi nuovi mondi, tu assalisci il cielo, tu vai superbo di scienza e di dottrina... Sono necessari a vivere? Queste fatiche, che pure ti fanno sí affannosa la vita, e te raccorciano e la fanno fuggire prima che tu la goda, dove ti conducono?... al sepolcro. Quale differenza credi che vi sia fra te ed il barbaro, ch’egli ride di te e tu di lui; ch’ei t’ammira lontano e li odia vicino, e che tu sei piú infelice quanti piú hai bisogni. Qual differenza da te alla formica ed a tutti gli altri animali? Conosci tu l’orrore in cui deve loro essere la vista deH’uomo? Tu passi frattanto e li calpesti» [Ed.].
  6. Sopra le parole «io non», cancellate nell’autografo, è scritto «la mia specie» [Ed.].
  7. E, quand’anche si dovesse del tutto svellere ogni religione (la quale cosa parmi provata assurda), non doveano essi usare della violenza, ma della tolleranza, piú efficace sempre, ed efficacissima nell’abbattere le opinioni, le quali, non potendo essere abbattute che da altre opinioni, lentamente quindi e senza che gli uomini pure si avvedano, si deve insinuarle nelle teste della moltitudine.
  8. Roma visse tanto tempo, perché il papa era dittatore e i cardinali e l’altra gerarchia erano senato, e perché il dittatore era papa e i senatori erano preti.