Ragionamento di Carlo Rosmini cavaliere del S.R.I., accademico fiorentino per servire d'introduzione all'opera da lui meditata degli scrittori trentini e roveretani/Saggio di Rime

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Saggio di Rime di Cristoforo Bucetti

Trentino.

I.


DI tanto duol, e di tant’aspri affanni,
Di tanto assenzio ho il petto, e tanto sdegno.
E di sì rei pensier ricolmo e pregno,
E di tante lusinghe, e tanti inganni,
Che potrei pria languendo agli ultim’anni
Girmen, che il debil mio caduco ingegno
Sfogar potesse quel che a forza segno
E terrò in me cangiando il pelo, e i panni.
Che qual entro un’ampolla acqua rinchiusa
S’ingorga nell’uscir quant’è più piena,
E a goccia a goccia fuor esce a fatica:
Tal son io nel versar l’acerba pena,
Che quanto più desio d’averla esclusa,
Tanto più nel cammin s’arresta, e intrica.

II

Crudele amor, che t’ho fatt’io che mai
Non rallenti i fier dardi, e ’l foco ardente,
E l’arco duro, e la rete possente
In mille luoghi hai teso e tender sai?
Vorrei saper da te s’unqua sarai
Sazio di far questo mio cuor dolente?
Misero me, ch’io fui sì crudelmente
Trafitto che a morir son presso omai.
Non merta la mia fè saetta d’oro
Aver nel petto, e l’impiombata lei,
Cagion di quel ch’io sento aspro martoro:
Però se un Dio da me tenuto sei,
Rendimi del servir degno ristoro,
E i suoi desir conforma ai desir miei.

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III.


Donna se dato a me, l’acuta doglia,
Che notte sento e giorno in mezzo il core,
Scoprirvi fosse, e come il crudo amore
Per troppo amarvi d’ogni ben mi spoglia;
Dubbio non ho che cangereste voglia,
Che pietà vi verria del mio dolore,
Nè più tardo sareste a far minore
Quel rigor che a morir solo m’invoglia.
Però che non pur voi, ma un tigre e un orso
S’accenderìa d’amor sentendo il foco,
Che m’agghiaccia la state e brucia il verno.
Chi può dir com’egli arde, arde assai poco,
Io nol posso già far, dunque soccorso
Chiedo ora a voi, e chiederò in eterno.


IV.


A mal mio grado il mio desir mi mena
A riveder il loco ove fui preso
Da duo begli occhi, e l cor di fiamme acceso
Mi legò amor d’una gentil catena:
Ma quando giunge innanzi alla serena
Fronte di quella a cui già mi son reso,
Che non posso nè voglio esser difeso,
Perdo i sensi, l’ardir, l'arte, e la lena.
Fugge per tema il sangue in mezzo il core,
E scorrer per le membra un gelo sento,
Mentre ivi stò com’uom che parla e sogna:
Il pensiero a mirarla è solo intento,
Ma tal esce da lei divin splendore,
Ch’abbassar gli occhi a forza mi bisogna.

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V.


Tante lagrime sparso e tanti passi,
Tanti lamenti, e tant’ alti sospiri
Per acquetar gli ardenti miei desiri
Che avrei già di pietà spezzato i sassi.
Pur la nemica mia più che mai stassi
Contra me dura, e par da gli occhi spiri
Crudeltà sempre, ove gli volga o giri,
Ond’ io i miei porto a forza umidi e bassi.
Deh perchè (lasso) mi lamento, e doglio,
S’ a mia voglia ardo, e ’l pianger m è diletto,
Perchè incolparne altrui più che me voglio?
S’ a mal mio grado, e con mio gran dispetto,
Non per ciò per dalermi unqua mi scioglio
Da quel nodo crudel che il cor m‘ha stretto.


VI.


Mentre ch’ io miro il loco ov’ è colei,
Che ad un sol guardo mi può far felice,
Dico a ma stesso, ahimè perchè non lice
Coi piedi gir u’ vanno i pensier miei?
Troppo alto poggi, se tu pensi in lei,
Sent’uno allor che mi risponde e dice;
Non vedi che a se trae questa Fenice
I mortali non sol, ma i sommi Dei?
Io che m’avveggo ch’ egli detta il vero,
Tremo tutto d’ affanno, e di dolore,
E di ritrarne il piede entro in pensiero.
Ma quella Dea che mi distrigne il core,
Servi, pian dice a me, fido e sincero,
E non temer del fin del nostro amore.

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VII.


Tante, felice pianta, grazie dei
Dire a Madonna, quante verdi foglie
Copron tuoi folti rami, e in se raccoglie
La terra e la stagion fior vaghi e bei:
Che per la più fedel fusti da lei
Eletta, ove a scoprir le nostre voglie,
Gli amorosi pensieri e l’ aspre doglie,
Insieme fummo, ond’ io ringrazio i Dei.
Tu sol fusti presente a quei lamenti,
A quei caldi sospiri, e a le parole
Che avrìan possanza d’arrestare i venti.
Così benigno il ciel, le stelle e il Sole
Ti sieno sempre, e più mai non paventi
L’ ira di quel Signor che ’l tutto puole.


VIII.


Pensi fia ver, che per un’altra Donna
Lasci la Diva mia, anzi il mio Sole?
Pensi fia ver, che per le altrui parole
Lasci il sostegno mio, la mia colonna?
Mai non fia ver, che in leggiadretta gonna
Altro mi piaccia mai che quel che suole;
Non vuole amor, nè la mia sorte vuole
Ch’altro desiri mai che voi, Madonna.
Se voi potrò lasciar, ben voglio dire
Che potran l’acque ritornarsi indietro,
Star senza pesci il mar, senz’astri il Cielo:
Senza vanni gli augei potran salire
In alto, e d’un diamante farsi un vetro,
E formarsi di fuoco un freddo gelo.

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IX.


Io vo pensando ai miei passati danni
(Sempre d’ amore e di fortuna gioco)
Ai profondi sospiri e al vivo foco,
E solo in vaneggiando ai mal spes’anni.
Io vo pensando agli amorosi affanni,
Miro da lunge il desiato loco,
Ma ’l pesar e ’l mirar mi giovan poco,
Che ne porto squarciato il petto e i panni
Di tal legame e sì forte catena
Cinto, ti seguo amor, e là m’invio,
Ove il destino e tua voglia mi mena:
Ma spero ancora nel superno Iddio
Che per me vedrò un dì l’aria serena,
Sgombrato il tempo tenebroso e rio.


X.


Dal dì che piacque al mio crudel destino
Farm’ir lontan da voi, dolce mia vita,
Per cui gran tempo scorsi il ver cammino
Di gir al Ciel sempre ho la via smarrita:
Velami gli occhi amor, e ’l capo chino
Porto piangendo l’età mia fiorita,
Nè di levarli ardisce al Ciel, supino,
D’onde procede ogni bontà infinita.
Talor fermo le piante, e fiso in terra
Mirando, grido ad alta voce: amore,
Perchè mi fai sì dispietata guerra?
Talora un rio pensier m’entra nel core,
E in guisa il fiede, strigne, chiude e serra,
Che ognun direbbe: ecco il meschin che muore.

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XI.


Sebben con questo vel caduco e frale
Mi ritrovi da voi, Donna, lontano,
E pianga il dì, pianga le notti invano,
E il più infelice io sia d’ogni animale:
Sempre però vi son presso con l’ale
De’ miei pensieri, e dice a me pian piano,
Ahimè dov’è la delicata mano
Che mi percosse il cor d’acuto strale?
Ov’è quel guardo, e quel bel viso adorno,
Gli angelici costumi, e que’ sembianti,
Quell’onesto parlar, e quella grazia?
Così parmi d’avervi ognor avanti,
Ma poi che l’alma scorge il falso intorno,
Riman stanca a pensar, ma non già sazia.


XII.


Piansi, quando per voi non so in qual modo
Mi sentj ’l cor passar la prima volta,
E poi legarlo con sì stretto nodo
Che di più sciorsi ogni virtù gli è tolta:
Piansi, ben vi rammenta, quando il chiodo,
Diceste, ho fitto alla tua mente stolta
Per duro freno, ed a l’usato modo
Da le cure d’amor viver vo’ sciolta.
E piansi (ahi lasso) allor che fui costretto,
Dividermi da voi, dolce mia vita,
Da cui parte ogni bene, ogni diletto:
Or piango e strido, e d’immensa infinita
Doglia sentemi il cor schiantar del petto,
Nè fuor che voi può alcun porgermi aita.

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XIII.


Se ’l dolce suon de’ caldi sospir miei
Giugner potesse in parte ove dimora
Chi co’ bei lumi accende ed innamora
I Mortali non pur, ma i sommi Dei:
E se fussero intesi i dolci omei
E le pietose voci che ad ogni ora
Spargo per lei che tutto il mondo onora
So ben che in tanto duol più non vivrei:
Ma perchè m’allontana il mio destino
Da quel bel viso, e dal soave sguardo,
Da que’ vaghi atti e quei santi costumi:
Vo sempre lagrimando invan meschino
Empiendo il ciel di strida, e poi tutt’ardo,
Nè in campo valmi aver duo larghi fiumi.


XIV.


Dopo quattr’anni nove mesi e un giorno
Ne’ quali il pianger sol mi fu concesso,
Mercè del mio Signor, feci ritorno
Là dove piansi e sospirai sì spesso.
Ahimè che a l’apparir del viso adorno,
Non so come, sentii cangiar me stesso,
I sospiri accendean l’aria d’intorno,
Ardea da lungi, ed agghiacciava appresso.
L’antica fiamma subito risorse
Con impeto maggior che non fe quando
Dal mio dritto sentier amor mi torse:
Poi d’allegrezza quasi lagrimando
L’alma d’uscir allora stette in forse,
Che i begli occhi ver me drizzò tremando.

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XV.


A piè d’un colle ov’è un castello forte
Punto da que pensieri acuti e duri,
Che fanno i giorni miei lunghi ed oscuri,
Amor mi guida, e la mia cruda sorte:
Movo più volte il dì sino alle porte,
Come i lassi occhi miei fusser securi
Di riveder colei, che asciutti e puri
Gli tenne un tempo, or gli conduce a morte:
Ma quando presso al fin conoscon chiaro
Che ’l lor sperar fu debile e fallace,
Perchè troppo è lontan quel ch’io vorrei,
Non trovo a miei martir tregua nè pace,
Ma si risolve il duolo in pianto amaro,
Tal che ognor son duo fonti gli occhi miei.


XVI.


L’antica stanza che amai già cotanto
Or fuggo a più poter e m’allontano,
Che ben vegg’io che m’affatico in vano
Trovar quaggiù quel volto unico e santo.
Morte crudel, or sì puoi darti il vanto
Ch’ai tolto al mondo il più bel viso umano
Che amor formasse di sua propria mano,
E d’aver posto chi la vide in bando.
Ma lasso ahimè che ’l tempo agli altrui guai
Darà fin, come suol, porgendo altri ami,
Ma non già a miei che più d’ognun l’amai:
Non so nè posso o voglio i bei legami
Scioglier, sì destro dentro m’annodai,
Sin ch’oda lei che a se dal Ciel mi chiami.

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XVII.


Asceso in alto poco men d’un miglio
In giuso miro nei luoghi più bassi,
Ove solea colei volgere i passi
Che beato mi fea movendo un ciglio:
Ma del mio error accorto alfin ripiglio
Il mio cammino giù per balze e sassi
Con gli occhi quasi spenti, umili e lassi,
Che a un fonte più che ad uomo i’ rassomiglio.
O felice alma, che di lassù scorgi
Il grave mio dolor, onde la vita
Ho in odio sì, ch’ognor bramo la morte:
Pietosi prieghi al gran Fattor tu porgi,
Ch’a se mi guidi, onde quest’alma unita
Teco non tema più d’avversa sorte.


XVIII.


L’anima bella di virtute amica
Ch’ornò già ’l mondo, or è nel Ciel salita,
Torna sovente, e a lagrimar m’invita
Più che mai bella e più che mai pudica;
Indi il volto m’asciuga, e par che dica:
S’è ver che ti duol sì ch’io sia partita
Da quella morte che si chiama vita,
Ove il dritto sentier tiensi a fatica,
E te stesso in odio abbi, e ’l vulgo ancora,
E sol brami d’uscir di tanti affanni,
E me seguir per così lunga via:
Anzi che giunga lei che ci scolora,
Drizza de’ tuoi desir, già mondo, i vanni
Al sommo Dio da da chi ogni ben sì cria.

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XIX.


Liete felici avventurose squadre
Dal Ciel sortite a gloriose imprese,
Itene pronte a vendicar le offese
Ch’ognor vi fanno queste genti ladre;
Il gran Madruzzo che vi è duce e padre,
E che la spada cinse e l’armi prese
Per Cristo solo, vi terrà difese
Come caro figliuol la cara madre.
Non scaldò il sol più ardito Cavaliero,
Sia pur con vostra pace Ettore e Achille,
Da quel dì che dal nulla il mondo uscìo:
Credo per questo e creder credo il vero,
Che vedremvi tornar carche di mille
Spoglie, ed offrirle al miglior Padre, a Pio.


XX.


Pietoso Dio, che a volontaria morte
Ti desti in preda sol per liberarci
Da i fieri artigli del dominio, e farci
De l’immortal tuo regno aprir le porte:
Perchè farne trovar confuse e smorte
In sì gran pena, e non più tosto darci
Quiete omai, e mercè i prieghi trarci
De’ tuoi fedeli a più tranquilla sorte?
Non vedi come ognun supplici tende
Le mani al Ciel per noi, e quanti voti
Con torchj accesi al tuo bel nome rende?
I pensier nostri a te, Signor, son noti,
Questo è il comun desir, e sol s’attende
Che con l’orribil suono il mondo scuoti.