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Reso/Introduzione

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Introduzione

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Euripide - Reso (V secolo a.C.)
Traduzione di Ettore Romagnoli (1930)
Introduzione
Reso Personaggi

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I dubbii sull’autenticità del Reso cominciarono assai presto. Li accoglie esplicitamente l’autore di un antico «argomento» al dramma: «Questo dramma alcuni lo reputano spurio, non d’Euripide, perché presenta piuttosto il carattere sofocleo». D’allora in poi, la questione è stata ripresa ed agitata in tutti i sensi, senza giungere, ed era pressoché impossibile, ad una conclusione obiettiva. Lasciamola un po’ da parte, e cerchiamo di cogliere le caratteristiche del dramma.

C’è, intanto, nel Reso, un elemento di prim’ordine, sfuggito, a quanto mi pare, o non abbastanza né giustamente rilevato dai critici; ed è la pittura dell’ambiente in cui si svolge l’azione: la notte.

Era un po’, pei drammaturghi greci, un frutto proibito, perché le rappresentazioni si svolgevano di giorno e all’aria aperta. Poiché in tali condizioni non si poteva dar l’illusione dell’oscurità, erano costretti a concepir sempre nella luce diurna le scene dei loro drammi. [p. 4 modifica]


Ma non si può esser poeti senza sentire l’immenso fascino della notte, né poeta drammatico senza intuire le grandi possibilità d’un’azione notturna. Anche i drammaturghi di Grecia pativano il disagio di quella limitazione; e ne è sicuro indizio il fatto che spesso fanno incominciare le loro tragedie di buon mattino, per aver agio d’evocare ricordi ed immagini della notte appena trascorsa. Cosí nell’Aiace, nell’Antigone e nell’Elettra di Sofocle: cosí nell’Elettra e nello Jone d’Euripide.

Anche piú grande sembra l’aspirazione in Eschilo, cosí tutto orientato verso la poesia cosmica. E con l’arditezza del genio, fa cominciare l’Agamennone addirittura in piena notte. Ond’ecco, nel primo discorso della scolta vigile sul tetto degli Atridi, il concilio degli astri, e dei «signori riscintillanti che nell’etra fulgono», e le rugiade che stillano sul suo giaciglio, e il sonno che gli aggrava le palpebre, e le nenie che mormora per discacciarlo. E poi, la visione dei fuochi accesi da monte a monte, da Troia ad Argo, che, balenata una prima volta nelle sue parole, è poi ripresa e largamente sviluppata da Clitemnestra. E la pittura delle mille are fiammeggianti per tutta Argo; e ancora, nelle parole del coro che preludono all’arrivo dell’araldo, una invocazione alla notte; e, nelle parole di Clitemnestra dopo l’arrivo del messo, un nuovo richiamo ai segnali di fuoco e alle fiamme dell’are. Sicché tutta la prima parte rimane avvolta in una rete di immagini notturne, che sicuramente trasportano ogni spirito sensibile dalla piena luce del giorno alle tenebre azzurre costellate dai fuochi della terra e del cielo.

E la notte stende anche il suo velo sulla parte seconda delle Coèfore. E la prima parte dell’Ifigenia in Aulide si svolge nella piena oscurità, franta appena dalla azzurra irradiazione di Sirio e dal fioco bagliore della lampada d’Agamennone. [p. 5 modifica]


Ma il tentativo del Reso è assai piú ardito. Qui l’azione non solo incomincia, ma si svolge per intero nel cuor della notte, dalle prime alle ultime scene, nelle quali solamente è l’annuncio dell’alba che irromperà fra poco sul mondo.

E se per un momento immaginiamo il dramma in un teatro chiuso moderno, e realizzati tutti gli effetti di luce chiaramente suggeriti dal contesto, risulta evidente la bella concezione del poeta.

Sopra uno sfondo costante d’impenetrabile buio, i varii personaggi avanzano a volta a volta verso un primo piano, dove rimangono illuminati dalle fiaccole, e si compongono in gruppi, e si sciolgono, spariscono, per lasciar tutto nuovamente nel buio.

Visione non realizzabile all’aria aperta, di giorno; ma mette conto di veder con quanta industria e con quanta efficacia il poeta sappia per tutto il dramma, col mezzo di continui opportuni richiami, infondere nello spirito del lettore, e, anche, d’ogni spettatore sensibile, la medesima visione che si librava al suo spirito.

Ecco i molteplici accenni ai fuochi che brillano lontano.

43 - coro.
          Ettore, alto s’espande
          fragor, fra il buio, dell’argivo esercito:
          le stazioni delle navi brillano.

78 - ettore.
          Perché tanti, se no, fuochi arderebbero?

81 - coro.
          Mai, prima d’ora, tanti fuochi accesero.

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95 - ettore.
          Tutta la notte ardono fiamme, e penso
          che il dí novello attendere non vogliano,
          bensí le navi a quel bagliore ascendere.

126 - enea.
                                                       Se proprio
          volgono a fuga, su l’argivo esercito
          noi piomberemo: se un’insidia invece
          questa notturna luminaria asconde,
          dal nostro esplorator la frode appresa,
          terrem consiglio.

135 - coro.
          Per qual ragione sopra il naviglio
          degl’inimici, di tanti lumi scintilla il fuoco?

C’è, per la logica, ripetuto con grande insistenza, l’ovvio suggerimento che, se ardono i fuochi, dunque è notte. Ma, inoltre, in ogni sensibilità s’insinua, sia pure inavvertito, il richiamo complementare, dal giallo delle fiamme al nero dell’ombra.

E questa pittura di buio e di fuochi, quasi presente sulla scena, per virtú delle parole evocatrici, trova il suo parallelo e il suo complemento nella mirabile descrizione che il pastore d’Ettore fa dell’esercito di Reso che irrompe notturno fra le boscaglie:

                                        tra le boscaglie
          giunse di notte, e gran terrore infuse
          in noi bifolchi.

Ed ecco lo stesso Reso: [p. 7 modifica]

          Un giogo d’oro costringeva i colli
          di due puledri piú che neve candidi:
          di fregi d’oro impresso, sovra gli omeri,
          mandava lampi uno scudo di bronzo.


Lo scintillio di quest’armi (ἔλαμπε dice il testo) non poteva esser provocato se non da fiaccole. Onde sorge alla nostra fantasia l’immagine di tutto un esercito che scorre, come dice espressamente il poeta (ῥέων στρατὸς ἔστειχε) per il bosco a guisa di torrente, sprizzando dai metalli innumerabili lampi.

E giunge Reso; e il coro commenta:

          Vedi l’armi, che d’oro fulgenti
          le sue membra riparano.


Anche qui, dunque, baglior di fiaccole. E alla fine della scena si rievoca l’idea delle tenebre.

ettore
          Accampatevi, adesso: è notte: il luogo
          ora ti mostro ove potran le schiere
          tue pernottare, dalle mie divise.


E segue un brano del coro, tessuto, come molti dei canti corali del dramma greco, comico e tragico, sopra un ordito di verità, sui gridi e i richiami delle scolte per un cambio di guardia. E cosí, mosso su questa ondulazione amebèa, riesce di vivacità e di levità incomparabili.

Tutte le stelle del cielo sono visibili ad una ad una: quelle che brillarono su la prima vigilia stanno per discendere sotto il limite dell’orizzonte, e le Pleiadi e l’Aquila veleggiano nel mezzo del cielo. Un tale trionfo siderale ci conduce nella [p. 8 modifica] notte piena; ma no: all’orizzonte è già sorta la luna: una falce, perché anche le scene che seguono si svolgono nel buio; e le scolte, use a guardare il cielo, sanno che in questi giorni quando essa spunta l’alba è vicina1.

Ed ecco altri indizi. Un lamento d’usignolo su le rive del Simoenta: la nenia d’un sufolo: un soave sopore che pesa su le palpebre. Si legga per intero il brano, e si vedrà con che arte sottile è resa la singolar sensazione che invade l’anima quando, nel cielo ancor tutto tenebroso, e fulgendo tutte ancora le stelle, trepida improvviso e quasi senza visibile indizio il primissimo presentimento dell’alba. E come è la cosa piú bella del dramma, cosí va annoverato fra le gemme della poesia greca.

Ed è ancor notte fonda. Giungono Ulisse e Diomede, e muovono a tentoni.

ulisse
Ve’, che tra il buio non t’imbatta in guardie.
diomede
Ci baderò, sebben fra il buio inoltro.


E odono, senza poterne scoprir súbito la provenienza, stridore di ferree catene: particolare che accresce ancora l’orrore del buio. [p. 9 modifica]


E il poeta insiste in particolari. I due vorrebbero trovare Ettore. Ma come?

ulisse
     Cercarlo al buio, fra nemiche schiere,
     e ucciderlo potrem, senza pericolo?

E sopraggiunge Atena; né sembra che i due la scorgano.

ulisse
     O diva Atena, il suon di tue parole
     odo, ben noto a me.

E segue la tumultuosa scena dell’arresto e poi della fuga di Ulisse e Diomede; e insistono i richiami alla oscurità incombente sull’azione.

coro
     Pone il campo qualche ladro
     fra le tenebre a soqquadro.


E quando i due si sono allontanati, e qualcuno consiglia d’inseguirli, un altro osserva:


     Fra le tènebre a scompiglio
     porre il campo, è gran periglio.

Ecco poi giunger ferito l’auriga di Reso. Ma se ne ode soltanto la voce, né si distingue la persona.

coro
     Qual degli amici sei? L’occhio indeciso
     è nella notte, e male io ti ravviso.

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E infine, alta nell’aria, appare la Musa, che stringe fra le braccia il corpo esanime del figlio. Tutti la vedono e la ravvisano per una Dea. Certo, nella fantasia del poeta, se pure non nella realizzazione scenica, essa era circonfusa di luce.

Perché intorno è ancora tenebra. E solo alla fine del dramma si annunzia che il sole sta per sorgere. E con finissimo sentimento il poeta evoca insieme la sua luce, che fra poco irromperà dall’orizzonte, insieme con l’acutissimo squillo della buccina tirrena, che presto anch’essa darà il segnale di piombare sui nemici. Cosí una duplice irradiazione, luminosa e sonora, chiude questo dramma, che si svolge continuamente fasciato dal buio, e che fa correre la nostra fantasia a qualche meraviglioso quadro di Rembrandt.

Ho molto insistito nel rilevare questa atmosfera notturna, che costituisce la vera caratteristica e il vero titolo di nobiltà artistica di Reso. In tutto il resto, il dramma non ha carattere spiccato, e somiglia, cosí in genere, agli altri drammi di Euripide. Questa somiglianza è indiscutibile, e di fronte all’affermazione dell’antico scoliaste, che ci sente piuttosto un’aura sofoclea, piú volte furono dai critici allineate le caratteristiche per le quali sembrerebbe invece euripideo. Si rilevano alla semplice lettura.

E tra queste caratteristiche è certo da annoverare una certa comicità che circonda le figure di Reso e di Ettore. Ma davvero non saprei associarmi ai critici che li giudicano due perfetti prototipi di capitano spacconi: tanto da considerare il Reso piú come una commedia che come un dramma tragico.

Grandi, senza dubbio, sono le vanterie di Reso; ma poi sappiamo da Atena che, se egli non sarà ucciso a tradimento, [p. 11 modifica] realmente porterà a compimento tutto quello che promette ai Troiani:

atena
                              Ov’ei la notte
     trascorra, sino al nuovo dí, la lancia
     far non potrà d’Achille, e non d’Aiace,
     ch’egli il campo naval non ponga a sacco
     degli Achei tutto.


Chi promette quello che effettivamente manterrà, non possiamo battezzarlo fanfarone. E, del resto, l’ultima accorata nenia della Musa sul suo cadavere esclude assolutamente la ipotesi che volontariamente Euripide abbia voluto presentarci un Reso grottesco.

E lo stesso si dica per Ettore, nel quale, anche qualche critico ha voluto riconoscere un predecessore di Pirgopolinice. Certo, anche in lui si può ravvisare qualche stimmate di millanteria. Anche piú strana è una certa sua disposizione ad arrendersi subitamente dopo solenni affermazioni di propositi: dichiara che vuol muovere contro il campo de’ Troiani, ma poche obiezioni d’Enea bastano a dissuaderlo: vuol rifiutare il soccorso di Reso, ma il Coro gli dice che è piú opportuno accettarlo, ed egli l’accetta.

Strana, e, insomma, un po’ comica. Ma che Euripide abbia voluto mettere in rilievo una sua fanfaronaggine o una dabbenaggine, non si può neppur pensare. Il suo contegno finale con l’auriga di Reso è nobile ed umano quanto piú non si saprebbe imaginare. E, senza dubbio, il poeta ha voluto rappresentare, in lui ed in Reso, due purissimi eroi. Il Reso è tragedia di serietà ed elevatezza non inferiore a quella di qualsivoglia altro dramma di Euripide. [p. 12 modifica]

Un carattere che molto colpisce nel Reso è la ricchezza della materia drammatica. Basta a rilevarla la semplice lettura.

E ad essa corrisponde la moltiplicazione dei personaggi. Il Patin osserva (161-162) che si poteva fare a meno di Enea di Paride ed anche di Minerva. Ed è verissimo. Ma quanto non riesce animata la scena dalla loro presenza!

E questa è, evidentemente, una delle cure dell’autore del Reso: che nessuna parte dell’azione rimanga inerte o sconnessa. Il piú visibile indice di tale cura sembra la maniera ond’è trattata la parte del messo. Negli altri drammi tragici, in genere, rimane in certo modo estraneo ai fatti che narra, è, per dirla con Orazio, una pura e semplice facundia praesens. E, finito il suo racconto, sparisce. Nel Reso, invece, egli è gran parte dei luttuosi eventi che narra. Vi ricevé una gran ferita, è quasi moribondo. Sicché, oltre alla commiserazione reca la viva passione. E dopo il racconto, non solo non parte, ma si impegna con Ettore in una scena che è fra le piú vive e piú appassionate del dramma. E cosí l’attenzione degli spettatori, sino all’arrivo della Musa, è incatenata, non già dai soliti canti corali, ma da un episodio altamente drammatico.

A questa ricchezza di materia e di personaggi, si contrappone la brevità del Reso, che tocca appena i 995 versi. Sicché, di fronte agli altri drammi euripidei, anzi di fronte a tutti gli altri drammi greci, presenta assai piú azione, e meno discorsi. Il che significa che è concepito piú teatralmente. Proprio il contrario di ciò che asseriva Godofredo Hermann, il quale, dal fatto che il Reso si svolge di notte, traeva la conclusione che fosse opera da tavolino, e non destinato alla recitazione. Il Reso ha proprio la stringatezza, l’evidenza, la velocità delle opere concepite e scritte col pensiero continua[p. 13 modifica] mente volto alla realizzazione scenica. E per me, nessun dubbio che potrebbe anche oggi affrontarla vittoriosamente.

Non però che il Reso possa essere annoverato fra i capolavori d’Euripide.

Perché, è vero, questo dramma va lodato per ricchezza, varietà, sobrietà, perspicuità, azione sempre mossa, conoscenza di teatro, effetti scenici, contrasti. Non solo; ma se da un lato presenta i caratteri euripideschi, dall’altro non presenta o presenta attenuati molto i suoi difetti. Ma è altrettanto vero che nel complesso lascia in tutti un senso di freddezza: quello che avrà sin da principio generati i dubbî intorno alla paternità euripidea.

E se vogliamo indagarne le ragioni, mi sembra che una, forse la principale, dobbiamo trovarla, tutto sommato, appunto nella mancanza di quei presunti difetti. Mancanza che si rileva specialmente nella loquela dei personaggi.

Di quante lungaggini e disgressioni, a proposito e a sproposito, di quante sofisticherie non si rendono rei i personaggi degli altri drammi di Euripide! Qui no, qui sono quasi sempre sobrii, ragionevoli, schietti. E allora, ci accorgiamo che proprio quei difetti conferivano a quegli altri, non dico un pregio, ma pure un certo fascino, che qualche volta ce li fa prendere in uggia, ma che sempre li rende interessanti. Massime quando sentiamo, sia pure notandolo come un altro difetto, che per bocca loro parla lo stesso poeta, e che le sue osservazioni sono stonate ed anacronistiche. Difetti, sí; ma difetti che contribuiscono a caratterizzare. E nel caratterizzare non sarà tutta l’arte, ma gran parte, sí.

Vecchio e comodo arnese, lo so, il «Demone della ispirazione». Ma intanto, proprio lui, e piú ancora, piú assai che non credesse il divo Platone, conferisce alle opere d’arte l’indefinibile essenza della immortalità.

E certo, egli entrava sempre, identificandosi — o fin[p. 14 modifica] gendo — con lo spirito d’Euripide, nello spirito dei suoi personaggi. Diavoli di personaggi, quanta ne avevano in corpo! E insieme coi discorsi utili e ragionevoli, ne spacciavano anche tanti altri, superflui, inopportuni, incongrui, capziosi, sofistici, irritanti.

E volete che Euripide il razionalista, Euripide, cosí sottile e criticone, non la capisse anche lui? Ma sí, valli a fermare, quando il Demone s’è impadronito delle loro anime!

E i critici, massime i critici razionalisti, spesso e volentieri ci trovano a ridire. Ma gli spettatori, invece, ci si divertono. E il tempo dà, quasi sempre, ragione agli spettatori.

Ora, chiunque sia stato l’autore del Reso, possiamo dire con piena sicurezza che, mentre egli componeva questo dramma, il Dèmone non s’è proprio scomodato per rubargli l’anime dei personaggi.


Note

  1. Mi scosto dalla maniera comune d’intendere. Οὐ λεύσσετε μηνάδος αἴγλαν; dice il testo. E s’intende in genere: non vedete farsi piú languido il raggio della luna? Ma intendere αἴγλα per «pallore» è un po’ sforzato; e poi questa interpretazione lascerebbe supporre che la luna avesse brillato su tutte le scene precedenti: che sembra da escludere. Conseguentemente, intendo che l’ἀστήρ del verso 537 significhi ancora la luna, e non già, come s’intende abitualmente, la stella di Venere.