Ricordanze della mia vita/Parte prima/V. Uno sguardo al mondo

Da Wikisource.
V. Uno sguardo al mondo

../IV. Entrata nel mondo ../VI. Uno sguardo intorno a me IncludiIntestazione 22 luglio 2021 100% Da definire

Parte prima - IV. Entrata nel mondo Parte prima - VI. Uno sguardo intorno a me

[p. 29 modifica]

V

Uno sguardo al mondo.

Farei peccato di superbia se vi parlassi di me nel 1831, quando neppure io pensavo a me, e tenevo gli occhi in alto a guardare gli avvenimenti del mondo, come chi siede in teatro e tutto inteso a un grande spettacolo e dimentica sé stesso. Pure se io guardavo in alto dovevo avere i piedi a terra. Un mio cugino mi offerí la sua tavola, e vedendo che io l’avvocato non lo voleva né poteva fare, mi disse: «Per avere un’occupazione mettiti ad insegnare: vedremo di farti avere scolari». E io mi messi ad insegnare quello che sapevo e potevo. Cosí cominciai a rifare i miei studi proprio da capo, e a guadagnare quattrini che erano pochi, e ci vivevo assai sottilmente. Guardiamo ora in alto.

Quando re Ferdinando II nel novembre del 1830 saliva sul trono delle Sicilie cominciò bene, e a molti parve un buon principe. Ogni giovane a venti anni è buono, come ogni fanciulla a quindici anni è bella. In un suo manifesto dichiarò di «volere rammarginare le piaghe che da piú anni affliggevano il regno», ristorare la giustizia, riordinare le finanze, promuovere le industrie ed il commercio, assicurare in ogni modo i beni dei suoi amatissimi popoli. Quando poi diede un’amnistia per la quale tornarono a le loro famiglie molti esuli, molti prigionieri, le speranze crebbero e l’allegrezza fu grande. Gli uomini savi dicevano che egli aveva fatto una brutta orazione funebre a suo padre; ma gli davano lode perché scacciò parecchi ministri e servitori che durante il regno di Francesco avevano fatto mercato d’ogni cosa, perché restrinse le spese della casa sua, tolse via le cacce, e volle vivere con certa semplicitá e parsimonia che il popolo chiamò avarizia. Pareva a tutti cortese perché dava udienza a tutti, [p. 30 modifica] domandava, rispondeva, provvedeva subito, e ricordava i nomi di quanti aveva una volta veduti. Contentò anche la Sicilia, sempre desiderosa di re e d’indipendenza, e vi mandò luogotenente suo fratello Leopoldo conte di Siracusa. Esercito napolitano non si può dire che v’era: dodicimila svizzeri, assoldati dopo che partirono gli austriaci, tenevano il regno: onde egli attese principalmente a formare un esercito, richiamò gli antichi uffiziali giá dimessi per politiche opinioni, creò nuovi reggimenti, riordinò ed accrebbe gli antichi: ai soldati favori, carezze e le sue maggiori cure: stava sempre in mezzo ad essi, se li menava dietro, li esercitava continuamente, li rivestiva di nuove divise, e quando li comandava pigliava l’aria di gran capitano. A quei giorni non ci fu guerra ai peli, nemici perpetui dei Borboni; anzi il re si radeva ogni giorno per farsi crescere subito i baffi che non aveva, e se ne metteva dei finti. Onde fu lecito a tutti e fu segno di libertá poter portare alquanti piú peli in faccia.

Io allora sbarbatello, che non era savio, e avevo la testa piena di storie romane e greche, e di brave poesie che sapevo a mente, trovandomi un giorno con altri giovani miei amici e maggiori di etá che mi facevano i prudenti, io dissi: «Oh, di che vi rallegrate voi? Nerone cominciò col quam mallem nescire scribere. L’è scopa nuova, ma di quella mala erba: fate che s’usi, e vi riuscirá Borbone come il padre, e come l’avolo». Mi diedero del matto e davvero io avevo poco senno: ma siccome le cose di questo mondo vanno raramente secondo ragione, cosí il matto spesso s’appone meglio del savio.

Dissero, ed io lo credo, che Ferdinando essendo ancora nuovo re ebbe due lettere: una da Luigi Filippo suo zio, il quale lo consigliava d’allargare la mano, come volevano i tempi, e lasciare scrivere, parlare, ed ognuno pensare a suo modo; ed un’altra da Francesco imperatore d’Austria, che gli diceva di tenersi saldo all’amicizia dell’impero, come avevano fatto i suoi maggiori, non concedere nulla, non abbassare la dignitá del principato, e se avesse mestieri di soldati austriaci per sua difesa gliene manderebbe. Allo zio rispose che il suo [p. 31 modifica] popolo era d’altra pasta che il francese, e voleva essere trattato in altro modo, non aver bisogno di molto pensare, pensare egli per tutti. Ali’imperatore, che egli manterrebbe l’antica amicizia, ma che essendo re indipendente non voleva soggezione né aiuto di armi, bastandogli le sue, e che saprebbe fare da sè. Questo rispose, ma in quella forma che si usa lassú, non come l’ho detto io cosí alla buona. E questo primo tratto dipinge l’uomo, il quale per ismoderata prosunzione fa una buona e una cattiva risposta, rifiuta l’aiuto straniero, e nega la libertá del pensiero nel suo popolo: e la stessa prosunzione fu la cagione vera del molto male e del poco bene che egli fece in vita sua. Un’altra lettera gli fu scritta, e lo so da buona fonte, perché gliela scrissi io proprio, e la messi alla posta: gliela scrissi in versi, e gli dicevo: «Tu sei giovane, sii ardito: chiama alle armi tutti gl’italiani, scaccia i tedeschi, cedi al papa il tuo regno di Gerusalemme, e tu pigliati e metti sul capo la corona d’Italia. Noi ti adorerem come un Dio, tu avrai un gran potere, e la piú bella fama nella storia». Gli davo spronate da far galoppare una rozza. Non vi messi il mio nome, e però non ebbi una risposta. Mi diceva Pier Silvestro Leopardi che anch’egli scrissegli una lettera, ma in prosa, e lo consigliò a dare una costituzione e farsi capo del movimento italiano. E forse gliene scrisse anche altri, ma io non lo so e parlo soltanto del fatto mio.

Mi ricordo con che ansia allora s’aspettava e si leggeva i giornali, con che caldezza si discuteva, con quali speranze si cospirava, di quali rose era dipinto l’avvenire. E non pure a me giovanetto, ma anche agli uomini di sonnolenta prudenza, e persino ai lumaconi di corte pareva che il mondo avesse mutato faccia. I nuovi ordini politici in Francia, l’agitazione degli spiriti in tutta Italia, la giovanezza del re, le novitá che egli faceva, il buon viso che mostrava agli uomini ed alle idee liberali, tutto induceva a credere che un gran mutamento ci doveva essere. Si diceva che Ferdinando era ambizioso, ma voleva la spinta, e parere di essere sforzato. Né solamente i napolitani ma gli altri italiani miravano in lui, e ne aspettavano [p. 32 modifica] mirabilia, per modo che dalle Marche e dalle Romagne vennero alcuni messi a richiederlo d’aiuto, e che lo griderebbero re d’Italia se egli volesse col suo esercito combattere gli aborriti austriaci. Insomma tutti nel regno e fuori si agitavano, e credevano che se pure scoppiasse la rivoluzione egli se ne farebbe guidatore. Il ministro di polizia Nicola Intonti, vedendo anch’egli ciò che tutti vedevano, prese a carezzare i liberali che pochi mesi innanzi aveva fatti fucilare; e sia per sciocchezza che egli reputò astuzia, sia per paura, o voglia di tenersi in sella, disse al re, che i cervelli erano sossopra, che stava lí lí per scoppiare una rivoluzione come quella di Parigi, che ei non sapeva come scongiurar la tempesta, e bisognava pur concedere qualcosa. Un po’ di costituzione non era poi il diavolo: maneggiata da un re forte e da ministri abili saria piuttosto un giuoco che un pericolo, e intanto cheterebbero quei bollori. E poi concedere una costituzione per acquistare la corona d’Italia è un dare uno per avere mille, come fanno i frati. Il re giá piegava: e immaginate le parole che dicevano le lingue napoletane. «Sí, fará, non fará: oh, avremo la guardia nazionale e sará comandata da Florestano Pepe: il giovanotto ha un’ambizione grande, ed ecco perché ama tanto i soldati». Ma una bella mattina si seppe che la notte l’Intonti era stato arrestato, messo in carrozza, e mandato fuori del regno; e in suo luogo fatto il Delcarretto che lo aveva arrestato. Si disse venuto un avviso da Austria che l’Intonti era un traditore, e un comando di cacciarlo via; non si cedesse, né si mutasse nulla, ché giá scendeva un esercito austriaco nelle Romagne, e entrerebbe anche nel regno se fosse necessario. Infatti gli austriaci entrarono in Romagna; l’Europa protestò contro l’occupazione, la Francia protestò anch’essa ed occupò Ancona: e cosí i popoli erano scannati dagli austriaci, canzonati dai francesi, e ribenedetti dal nuovo papa Gregorio XVI. Si tornò a la servitú che nel linguaggio furbesco della politica si chiama ordine.

Cadute queste speranze gli animi irritati facevano altri disegni, e si persuadevano che libertá si piglia per forza non [p. 33 modifica] si acquista per dono di principe. Non si sperò piú nel Borbone, ma per un’illusione peggiore molti speravano nella Francia. Ricordavano che da Francia ebbe Napoli libertá nel 1799, e poi nuovi principi, e nuove leggi, e tutto quel bene che rimaneva non guasto dai Borboni; credevano che se una rivoluzione si mantenesse per un mese, certamente la Francia verrebbe ad aiutarla. Un mutamento lo volevano tutti, ma il concetto di quello che si voleva non era uno e definito. I vecchi dicevano: piuttosto il turco che i Borboni sempre mancatori di fede: alcuni desideravano un Murat; ma non isperavano nulla; alcuni tristi carezzavano don Carlo principe di Capua, fratello del re e dieci volte peggiore di lui; gli onesti rimasti puri desideravano una costituzione col meno tristo dei Borboni; noi altri giovani repubblica, e in tutta Italia, in tutta Europa, in tutto il mondo. Il bisogno di un mutamento fece nascere le tante cospirazioni nel regno, la mancanza di un concetto comune le fece tutte fallire.

Nel 1832 pochi animosi deliberarono di levarsi e gridare la costituzione di Francia: partirono da Napoli e andarono chi in Terra di Lavoro, chi in Puglia, chi in Calabria per cominciare in un medesimo tempo in diversi punti: il primo grido fu levato in Palma paesello presso Nola, da un frate laico di San Francesco, detto Angelo Peluso, ma non gli fu risposto. Io avevo odorato qualcosa di queste pratiche, ma non v’ero dentro: alcuni miei conoscenti mi gettavano spesso delle parole in aria, che io tenevo spavalderie. Ma quando una mattina io vidi affiso a la cantonata di Santa Maria la Nuova un cartello nel quale si prometteva la taglia di trecento ducati a chi desse frate Angelo alla giustizia, allora io seppi del movimento scoppiato e fallito1. Furono tutti arrestati e condotti nelle prigioni di Santa Maria Apparente, dove patirono

  1. Furono arrestati per questo fatto e condannati: frate Angelo Peluso, Tommaso Gaeta ex procuratore generale, il capitano Morici, Michele Purcaro, Vito Purcaro suo figlio, Girolamo La Terza, Domenico Colelli, Agazio Teti; Filippo Agresti fuggí in Francia. Ci furono ancora altri che non ricordo.
[p. 34 modifica]

crudeli torture. Legati con sottil funicella dalle mani e dai piedi e taluno anche dai genitali, rimanevano per molte ore cosí gettati per terra: ed ogni tanto entrava il commessario duca Luigi Morbillo ed il custode Cardellino, che a gara li battevano con fiere nerbate, e facevano gettar loro addosso secchie d’acqua fredda: sospendevano taluno per una fune da la volta, e sotto vi bruciavano paglia umida. Vito Purcaro, il quale con suo padre era fra gli arrestati, e fino al 1859 fu in carcere, mi diceva che a lui toccarono delle nerbate dal duca, e che fu sospeso; ma il tormento maggiore l’ebbe dal fumo. Questi rigori erano voluti dal ministro Delcarretto perché egli credeva che il principe Carlo avesse intinto nella cospirazione, ma non v’era, né quegli uomini l’avrebbero voluto con loro. Fu fatta la causa: alcuni condannati a morte, e per grazia all’ergastolo, molti alla galera, e i pochi assoluti rimasero lungamente in carcere. Poco prima del giudizio io andai nel carcere per rendere servigio ad un prigioniere, il quale nelle stanze del custode mi additò frate Angelo lí venuto, che volendo prendere dai braciere un carbone per metterlo su la pipa, lo faceva a stenti, perché gli vidi le mani livide, e le dita distorte e rattratte, e un cerchio rosso intorno ai polsi. Questo io vidi, e non ho dimenticato piú le mani storpie del frate. Fu un altro caso piú grave perché avvenne nella milizia. Francesco Angellotti uffiziale, Cesare Rosaroll e Vito Romano sotto-uffiziali di cavalleggieri della Guardia congiurarono di uccidere il re in una rassegna. Furono uditi ragionare tra loro il Rosaroll e il Romano, e furono denunziati dai sergente Paolillo: essi sentendosi scoperti e perduti, per non avere tormenti, deliberarono d’uccidersi l’un l’altro con le pistole: al colpo il Romano morí, il Rosaroll ferito sopravvisse, e fu giudicato e dannato a morte con l’Angelotti. Si richiedeva un grande esempio per la milizia: i due giovani condotti sino al patibolo, e sentita tutta l’amarezza della morte, ebbero grazia del capo e furono mandati in galera. L’Angellotti nel 1839 tentò fuggire dal bagno di Procida e fu ucciso. Cesare Rosaroll nel 1848 moriva colonnello a Venezia [p. 35 modifica] combattendo per la causa d’Italia. Mostrò tanta prodezza che fu chiamato l’Argante della Laguna: innanzi al patibolo, e sul campo di battaglia ebbe cuore di lione: chi lo conobbe non poté non amarlo, né può non ricordarsene con affetto1.

Le carceri, le torture, le tradigioni, e i soldati che percorrevano il regno in colonne mobili, non impaurivano gli arditi, né impedivano si cospirasse. V’erano in Napoli alcuni uomini generosi, colti, ed accorti, che amici tra loro, si strinsero come in un gruppo, e divennero centro di tutte le cospirazioni. Essi erano il barone Carlo Poerio, il marchese Luigi Dragonetti, Matteo d’Augustinis, Pier Silvestro Leopardi, Gaetano Badolisani ed altri ancora, ai quali piú tardi s’aggiunse l’avvocato Francesco Paolo Bozzelli. Questo gruppo piú volte sgominato per arresti, esilii, e morti, sempre si ricompose per la mirabile destrezza del Poerio, e tenne vivo il fuoco nel regno. Essi con l’autoritá del nome, la forza dell’ingegno e della parola guidavano l’opinione liberale, consigliavano ed indirizzavano gli arditi che volevano venire a qualche fatto, governavano la somma delle cose nel regno, e spedivano lettere e corrieri in tutti gli stati d’Italia ed in Francia per pigliare accordi. Non ostante che l’Austria avesse occupato la Romagna, si disse di venire ad una rivoluzione per cacciarnela, ed ogni stato italiano acquistare libertá ed una costituzione propria, unirsi tutti in una lega nazionale. Era designato per lo scoppio il giorno 10 agosto 1833, e il moto doveva cominciare in Abruzzo. Ma le lettere, i corrieri, le parole che tra fuorusciti non si dicono a misura fecero sí che l’Austria da le spie che aveva in Francia seppe quello doveva farsi in Italia; onde stette in guardia per sé, ed avvertí gli altri governi, massime quello di Napoli. Furono arrestati il Dragonetti, e il Leopardi abruzzesi, e parecchi altri: ma fatta la causa, il solo Leopardi con altri sei fu bandito dal regno. Quella gran macchina riuscí a questo fine per un accidente [p. 36 modifica] ignoto a molti, e che io dirò. Il principe di Canosa, che allora era in Modena, fecesi ricordare a re Ferdinando, ed ottenne permesso di ritornare nel regno, e giunse in Aquila dove l’intendente Zurlo lo accolse a grande onore. Come il ministro Delcarretto intese che la vecchia belva tornava ed era giá in Solmona, si fece vivo, e tanto si adoperò, che il re mutava consiglio, e fu ordinato che il Canosa tornasse indietro anche tra i gendarmi se ricusava, e quegli allora andossene a Roma. Ora il Delcarretto per non far sentire la necessitá del Canosa e dei canosini rigori, fece disparire le pruove della vasta cospirazione, disse al re non esservi altro che parole, e che l’intendente Zurlo aveva dato corpo all’ombra e riferito che in Abruzzo stava per divampare un incendio. Cosí l’astuto ministro fece finire la cosa col mandare in esilio sette persone e il Dragonetti al confine, e fu lodato dai liberali: il Zurlo fu traslocato. Il Delcarretto era piú furbo del Canosa.

Questo accidente salvò ancora una mano di giovani che avevano fatto uno strano proposito; avevano pensato di fermare in via di Capodimonte la carrozza del re, pigliar lui, condurlo in una casa vicina, ed ivi con le buone o con le triste costringerlo a ciò che essi volevano. Le armi, la casa, gli animi erano giá preparati, ma essendo per venire al fatto, furono denunziati, carcerati, trattati come matti, e puniti leggermente. Vincenzo Granchi professore nella scuola veterinaria era capo di questi giovani, quasi tutti suoi scolari, Michelangelo Calofiore, Luigi Caruso, Giuseppe Ferrara, Luigi Praino, Francesco de Francesco, e Giuseppe Rizzo prete, tutti calabresi. Propositi di scolari che sarebbero stati orrendamente puniti, se il Delcarretto non avesse dovuto mostrare al Re che tutto era ordine e tranquillitá, e che a la sua vigilanza si doveva un tanto bene.

Sul finire del 1832 Maria Cristina di Savoia venne sposa a re Ferdinando. Questa buona e pia donna fu consigliera di mitezza al marito, lo pregò ed ottenne che nessuna condanna di morte fosse eseguita. «Punite», ella gli diceva, «se per bene dello stato è necessario punire, ma sangue no: con la [p. 37 modifica] morte voi potete perdere un’anima immortale, con la vita può venire il pentimento». E finché ella visse tutti i condannati a morte furono aggraziati: dopo la sua morte cominciò il sangue, e fu molto. Quando il re nel 1848 scelse a suo nuovo confessore monsignore Antonio de Simone, questi gli disse: «Con l’aiuto di Dio, voi, o Sire, vincerete questa rivoluzione: ma ricordatevi le parole della santa regina che prega per voi in paradiso: punite sí, sangue no». E il re con le mani giunte sul petto chinando il capo rispose: «Sangue no, lo prometto». E mantenne la parola: e prova ne sono con altri io stesso che vivo e scrivo. Questo dialogo me lo raccontava nel 1849 don Giovanni Palumbo allora parroco di Capodimonte, il quale lo aveva udito da monsignore che lo raccontava. Maria Cristina soccorritrice dei poveri, cortese ed amorevole con tutti, sollevò un poco l’animo plebeo del re, lo corresse di alcuni bassi vizi, e fu cagione che la reggia, stata sempre un bordello e allora una caserma, divenisse costumata. Avvenente della persona era amata dal popolo, rispettata da tutti: fu molto divota e donò a le chiese: i preti la mettevano in cielo, e poi che fu morta sparsero che fece miracoli, e compilarono un processo, che io posseggo, per dichiararla santa e canonizzarla.

Re Ferdinando, mi diceva don Luigi Caterini suo maestro, per ingegno e per costume era il migliore tra i suoi fratelli: eppure egli era ignorante, non leggeva mai libro, scriveva con molti errori di ortografia. Egli, come il padre e come l’avo, non credeva virtú in altri, ne beffava il sapere, rideva dell’ingegno, non pregiava che la furbizia, chiunque sapesse leggere e scrivere era suo nemico ed ei lo chiamava pennaiuolo; si circondò degli uomini piú ignoranti e bestiali, non capí che ogni principato non si sostiene con le sole armi, e che gli uomini d’ingegno e di virtú se non sono con te, sono contro di te, e ti fanno una guerra lunga, e ti rovesciano. Educato da bassi servitori di corte, che i Borboni sogliono tenere come i fedeli amici e consiglieri, egli ne apprese due vizi propri del piú feccioso popolazzo, la bugia e la beffa. [p. 38 modifica] Le parole cortesi, le promesse, le strette di mano erano per lui arti di bugia, perché voltava le spalle, e ghignando ammiccava ai suoi, e diceva che il mondo vuol essere canzonato, e un re deve sapere meglio degli altri l’arte di canzonarlo. Non gli veniva innanzi un uomo a cui non metteva un soprannome di beffa: a tutti gettava il motto pungente; deliziavasi di frustare le gambe al cavalier Caracciolo della Castelluccia, e di vederlo saltare, gridare, piangere, ed ei rideva degli scontorcimenti del vecchio. Una volta beffò il duca di Bovino, ignorante ma dignitoso, che adoperava il noi in vece dell’io questi osò dirgli: «Noi veniamo in corte per rendere onore a Vostra Maestá: se dobbiamo essere beffati, ci ritiriamo». Egli allora: «O duca, non ti prender collera, ch’io ti voglio bene, e scherzo». Ma il duca non andò piú a corte. Giunse a beffare sinanche il proprio figliuolo ed erede del trono, e lo chiamò sempre Lasagnone2.

Questo vizio in un re è codardia, perché non gli si può rispondere. Una volta che la regina Cristina stava per sedere innanzi al pianoforte, egli tirò indietro la seggiola; ed al suo riso, ella regalmente sdegnosa disse: «Credevo di aver sposato il re di Napoli, non un lazzarone». E veramente colui fu un re lazzaro, nato ed allevato per esser tipo di lazzaro; uomo volgarissimo, avaro, superstizioso: si sentiva dappoco, e credeva tutti gli altri dappochi: per lunga pratica di governo parve accorto, ma era bassamente furbo: fedele solo alla moglie, tenero dei figliuoli, costumato e modesto in casa, pessimo sul trono.

Secondavano il re i suoi principali ministri. Francesco Saverio Delcarretto, ministro della polizia e capo della gendarmeria, aveva in mano un immenso potere e lo esercitava con arbitrio spaventevole. Nei giudizi criminali, nei piati civili, [p. 39 modifica] nelle contese di famiglia, nel commercio, nell’istruzione, nell’amministrazione, metteva le mani in tutto, e tutto rimescolava con insolenza gendarmesca. Operoso e destro, non aveva alcuna fede, fu carbonaro, poi, ribenedetto, carezzava i liberali per corromperli, lisciava le donne per usarne anche come spie. Nicola Santangelo ministro dell’interno era un ometto gonfio di molta vanitá, pratico di faccende, amante di anticaglie delle quali formò un ricco e prezioso museo, era in voce di ladro, ma non lasciò alcuna ricchezza. Il re sapeva questa voce e vi scherzava: un dí salendo una scala, e venendogli dietro il Santangelo con altri ministri, egli ponendosi le mani dietro l’abito disse: «Signori miei, guardiamoci le tasche». Il marchese d’Andrea, ministro delle finanze, per la persona, il parlare, il sentire era un misto tra il pulcinella ed il prete. Ogni mattina per salute dell’anima sua vestivasi di sacri paramenti, e celebrava in casa sua una messa secca, cioè senza consacrazione. Risecava su tutte le spese, non pagava nessuno, o al piú tardi, e se uno andava a chiedergli il suo, ei rispondeva con buffonerie, e poi gli cacciava in bocca un pezzetto di cioccolatte: «Va, non andare in collera, addolcisciti la bocca». Ogni anno portava i risparmi al re, che gli voleva gran bene, e lo chiamava papá, e in buona coscienza si pigliava il sacchetto. Questi tre ministri rappresentavano l’arbitrio, la prosunzione, l’avarizia di Ferdinando: ma un altro ne aveva le chiavi del cuore, e le volgeva e rivolgeva a sua posta, il suo confessore, monsignore Celestino Coele, dell’ordine di Sant’Alfonso, che tutto poté, tutto vendé con furba improntitudine di frate.

Questi era il re, questi i suoi ministri, che io vedevo lontani da me in alto, e ne sentivo parlare da quelli che mi stavano intorno.


Note

  1. Nel 1872 a Venezia presso il ponte di Rialto ho veduto sopra una bottega di caffé questa scritta: «Caffé del colonnello Rosaroll».
  2. Nel testamento di Ferdinando che è riferito nella storia di Giacinto de Sivo, autore non sospetto, sono queste parole: «La villa Caposele a Mola come bene libero lascio al mio primogenito, al mio caro Lasa» (cosí per vezzo l’appellava). V. Storia del de Sivo, lib. 16, § 20. E il Lasa una pudica abbreviatura del brutto Lasagnone.