Ricordanze della mia vita/Parte prima/XXII. Dopo il 15 maggio

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XXII. Dopo il 15 maggio

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Parte prima - XXI. Segue la rivoluzione sino al 15 maggio Parte prima - XXIII. La reazione

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XXII

Dopo il 15 maggio.

Il dimani passai in casa di un vicino nostro amico, perché disse mia moglie: «Se verranno ad assalirci e non troveranno te, non vorranno fare male a me e ai due fanciulli». Verso la sera venne mio fratello Alessandro, e volle condurmi seco a Scafati, e il giorno appresso il 17 ci condusse anche mia moglie e i miei figliuoli. Mia moglie mi disse come per la via di Portici aveva incontrato alcune compagnie di guardie reali, che portavano su le punte delle baionette parecchi berretti di guardie nazionali, e gridavano «Viva il re, mora la nazione», e pochi fanciulli cenciosi seguivano quei soldati; e come ella passò quasi per miracolo in mezzo a loro senza essere costretta a ripetere quel grido selvaggio. E Alessandro mi diceva che quando venne da me vide innanzi la reggia una gran moltitudine di femmine con tamburi e nacchere sonare, ballare, cantare, e ogni tanto gridare «Viva il re, mora la nazione», ed erano di Santa Lucia, e di altri quartieri bassi della cittá, e molte erano male femmine, e facevano baldoria coi soldati.

In Scafati avevo le triste novelle. Molte centinaia di prigionieri tratti in Castelnuovo, e quivi parecchi fucilati nel fossato del castello: i soldati entravano per le case e per le camere tirando fucilate, e uccisero donne e vecchi e fanciulli: due case bruciate in via Santa Brigida: palazzo Lieto bruciato e saccheggiato, e mentre le fiamme uscivano dei balconi, nel cortile soldati e lazzari arraffando si spartivano biancherie finissime: il caffé sotto il palazzo Buono bruciato e distrutto palazzo Gravina, dove era il Circolo nazionale, bruciato, uccisovi anche una donna; per le vie della cittá vari cadaveri; [p. 205 modifica] dai balconi e dalle finestre pendere panni bianchi in segno di pace. E i deputati? stettero sino all’ultimo, cedettero a la forza, si sciolsero ad un’intimazione del generale Nunziante, e al chiarore che dirimpetto mandava il palazzo Gravina in fiamme uscirono fra i soldati, e ciascuno prese la sua via. Quando cominciò il conflitto che fu dopo le undici del mattino, tutti i ministri corsero dal re a pregarlo ordinasse cessare il fuoco. «E voi ordinate disfare le barricate». «Non abbiamo questo potere, nessuno piú ci ascolta». «E nemmeno io posso far cessare il fuoco. Andate: io non ho piú bisogno di voi: ma preparatevi al redde rationem». Lo Scialoia si slanciava per rispondere, il Conforti lo ritenne per un braccio, dicendo: «Che fai? perdi te e noi». E tra i ghigni minacciosi dei cortegiani uscirono. Dimandai ad un mercante venuto da Napoli: «E la costituzione?» «Non ci pensate piú. Hanno messo lo stato d’assedio: Napoli è tutta occupata da soldati che comandano e si fanno ubbidire. Mi hanno detto che si è pubblicato un proclama del re, ma non l’ho letto, né ci credo. Le ferrovie sono chiuse, e non ci si transita piú: e a la stazione di Napoli ci sono soldati a cavallo che fanno la guardia con le pistole impugnate». Intanto correvano molte voci: che alcuni paesi vicini si erano levati in armi; che la cittá di Salerno, il Cilento e tutta la provincia avevano preso le armi, e le genti venivano sopra Napoli, e le guidava Costabile Carducci che aveva fatta la rivoluzione in gennaio, e i ragazzi gridavano per le vie: «Mo’ vene don Costabile»; e le donne dicevano: «Mo’ arriva don Costabile, e povere noi!» E tutto il giorno e gran parte della notte io non udivo altro che «don Costabile», il gracidare dei ranocchi, e il rumore dei telai che in ogni casa tessevano tele di cotone delle quali c’è gran fabbrica in Scafati.

Dopo qualche giorno ebbi il proclama del 16 maggio. «Che i buoni cittadini si rassicurino. La piú grande vigilanza sará esercitata dal governo, affinché per l’avvenire alcun disordine non si riproduca, né nuovi ostacoli vengano ad opporsi al mantenimento ed al completo esercizio delle libertá [p. 206 modifica] solennemente accordate dalla costituzione che Sua Maestá ha la ferma volontá di proteggere in tutta la loro inviolabile integritá». Era sottoscritto dai nuovi ministri: il principe di Cariati, presidente, e ministro degli affari esteri, che aveva fama di galantuomo: il principe d’Ischitella della guerra, il generale Raffaele Carrascosa dei lavori pubblici, i quali tutti e due e il Nunziante avevano vinte le barricate; il príncipe di Torella, all’agricoltura e commercio, liberale moderato; il Bozzelli all’interno, irritato che gli avevano guasto lo statuto quasi gli avessero ucciso un figliuolo; Francesco Paolo Ruggiero, a le finanze, ministro in aprile, poi ritiratosi, fu veduto in abito di guardia nazionale presso le barricate, si presentò in abito nero a la reggia e fu ministro il 16 maggio. A questi, pochi giorni dopo furono aggiunti Nicola Gigli, per grazia e giustizia, buon professore privato di diritto, magistrato di nessun colore politico, uno di quelli che dicono: «servo chi mi paga»; e il duca di Serracapriola vicepresidente del consiglio di stato, di cui non si diceva male.

Mentre si scriveva questo proclama, anzi prima di scriverlo, il nuovo ministero nello stesso giorno 16 maggio richiamava la spedizione capitanata da Guglielmo Pepe, scioglieva la Camera, disarmava la guardia nazionale. Queste erano le condizioni che il re imponeva ai nuovi ministri, ed essi le accettavano. Disarmar quella guardia nazionale si doveva; sciogliere la Camera non ancora costituita legalmente, era forse una necessitá; ma richiamare le truppe dalla guerra fu un tradimento ribaldo, stolto, infame, vigliacco, e produsse disastri grandi all’Italia, ed altri dieci anni di servitú e di dolori. Il re volle quel richiamo: sí, ma voi altri príncipi, duchi ed avvocati ministri non dovevate volerlo voi, dovevate capire che quell’atto ruinava l’Italia, e non salvava Napoli. Re Ferdinando tradiva l’Italia credendo di salvare il suo regno: dodici anni dopo tutta Italia veniva sul regno e ne scacciava i Borboni. Tutte le colpe e le stoltezze umane hanno in se stesse la cagione del castigo, che tosto o tardi viene immancabile. [p. 207 modifica]

Con un editto del 24 maggio il re diceva ai suoi amatissimi popoli: «La nostra fermissima ed immutabile volontá è di mantenere la costituzione del 10 febbraio, preservandola da ogni eccesso. Sola compatibile con i veri bisogni di questa parte d’Italia, essa sará l’arca santa che conserverá i diritti dei nostri amatissimi popoli e la nostra corona... Riprendete adunque le vostre abituali occupazioni, ed abbiate fede con tutta l’effusione del vostro cuore nella nostra lealtá, nella nostra religione, nel giuramento sacro spontaneo che noi abbiamo prestato». Con decreti dello stesso giorno fu abrogata la legge elettorale del 3 aprile, richiamata in vigore la legge elettorale provvisoria del 29 febbraio, convocati i collegi pel 15 giugno, stabilito il luglio per l’apertura del parlamento.

Dunque la costituzione non era abolita; ma l’editto affermava troppo come fanno i bugiardi. Io ritornai in Napoli con la mia famiglia, mandai subito la mia rinunzia al Bozzelli, e ripresi ad insegnare privatamente. Mi rallegrai a riveder vivi e sani parecchi che si dicevano morti, ma ebbi gran dolore per tre giovani perduti. Angelo Santilli di venti anni, con capei biondi e lunghi, grandi occhi cilestri, e una grande mestizia sparsa sul volto, era un entusiasta che parlava al popolo e diceva cose che il popolo udiva ma poco intendeva: si trovò in una casa presso al palazzo Gravina che fu assalito dalle guardie reali, ed egli si pose a letto fingendosi ammalato; ma una scellerata vecchia disse ai soldati: «Questi è il predicatore», e fu ucciso. Un prete rettore del camposanto mi disse di aver veduto il cadavere ivi portato, che aveva la faccia contratta, contratte le mani, contratte le gambe, e tre grandi ferite di baionetta sul petto ed altre nel ventre. Povero Santilli! Vincenzo Melga, bello, ingegnoso, colto, tornato da un lungo viaggio, fu visto combattere da una casa in via Santa Brigida, e poi non se ne seppe piú nuova né vivo né morto. Invano ne cercò amorosamente il fratello Michele Melga: scomparve. Luigi La Vista giovine di alto ingegno e di alte speranze era col padre nell’Albergo dell’Allegria al largo della Caritá, e fu ucciso dagli svizzeri innanzi agli occhi [p. 208 modifica] del povero padre. Ebbe un amico che ne scrisse la vita e ne pubblicò gli scritti, che fu il mio caro Pasquale Villari che fece questa buona e bella azione. Su lo stesso albergo fu preso Gabriele Pepe, il quale perché generale della guardia nazionale, fu insultato e percosso dagli svizzeri, che l’ammazzavano se un uffiziale non lo salvava e lo faceva menar prigione in Castel dell’Ovo.

Chi tirò il primo colpo? non si sa, né importa saperlo: fu reo non chi tirò il primo colpo ma chi fece le barricate. Armati di qua, armati di lá partí un colpo anche per caso, e cominciò la zuffa. Il 15 maggio fu l’ultima e necessaria conseguenza di tutte le dimostrazioni che si fecero il 27 gennaio, di tutte le grida di «morte» e di «abbasso» che si fecero nelle piazze, e che il governo non seppe né impedire né frenare, e governo furono tutti i ministri per quei quattro mesi. Uomini rispettabili per molti versi ebbero paura di offendere la libertá con uno squadrone di cavalleria, e la fecero andare a rovina. Ad un popolo come il napolitano che usciva da lunga servitú la libertá fu come un’imbriacatura, e ci voleva la forza per impedirlo di sfuriare in eccessi e per fargli tornare il senno. Per governare i popoli, per educare i fanciulli, e per curare i pazzi non basta la ragione e la parola, perché l’uomo ha pure quel della bestia, che vuol essere corretto con la forza. Questo non lo capirono quei governanti, ebbero paura di poche grida ed ingiurie, non seppero spiegare popolaritá, ed essi ebbero colpa di ciò che avvenne il 15 maggio come ha colpa l’educatore del male che fanno i fanciulli da lui non saputi correggere a tempo. Questa è l’opinione mia, e la dico schietta. Ferdinando aveva ragione a ridere di quei ministri, e a chiamarli responsabili di avere sfrenata la moltitudine. Il 15 maggio lo fecero i pazzi, non seppero impedirlo i savi, un furbo ne profittò. Mettiamoci una mano sul petto, e diciamo il vero: la colpa l’ebbero tutti, ciascuno per la sua parte: il popolo fu pazzo, i governanti inesperti e fiacchi, il re malvagio e bugiardo.

Venivano le novelle. In tutte le province grande [p. 209 modifica] commozione e sdegno per i casi di Napoli, che la fama narrava piú atroci ma senza accordi, senza capi, senza un’idea quei moti furono facilmente repressi in varie cittá, anche perché molti dicevano che il re non aveva abolita la costituzione, anzi aveva convocato il parlamento pel 1° luglio, e spargevano i decreti reali. In Calabria gli sdegni scoppiarono piú gagliardi, come piú gagliarda e la natura di quelle genti che avevan fresca la memoria delle stragi del ’44 e del ’47, e vivo il sentimento della vendetta, e nessuna fede in Ferdinando. E però in Cosenza il 18 maggio fu creato un governo provvisorio, di cui fecero parte il colonnello Spina comandante le armi della provincia, e il maggiore Pianell che comandava un battaglione di cacciatori; e disarmarono i gendarmi; in Catanzaro il 19 fu stabilito un comitato di sicurezza preseduto dal barone G. Marsico intendente della provincia. E questo fecero per difendere la costituzione che credevano manomessa. Giuseppe Ricciardi rifuggito il 15 maggio con molti altri su le navi francesi che erano nella rada di Napoli, e andato a Malta, fece un ardito disegno: venne a Messina e prese accordi, sbarcò in Calabria, e passando per Nicastro e Catanzaro si fermò a Cosenza, dove in nome suo e di altri tre deputati Domenico Mauro, Eugenio de Riso, e Benedetto Musolino pubblicò un manifesto nel quale diceva: «I fatti di Napoli hanno distrutta la costituzione, hanno rotto ogni patto tra principe e popolo». Prima che il parlamento fosse sciolto dalla forza fu scritta una solenne protesta da molti deputati, con la quale promettevano di riunirsi dove e come avrebbero potuto. Essi dunque invitavano i loro colleghi a riunirsi in Cosenza il 15 giugno; e come mandatari della nazione chiamavano il popolo a prendere le armi. La rivoluzione che scoppiò in tutta la Calabria fu una conseguenza legittima della protesta del 15 maggio.

Altre novelle dall’Italia superiore. Il 22 maggio in Bologna il generale Guglielmo Pepe ebbe l’ordine, scritto il 16 dall’Ischitella ministro della guerra, che richiamava senza alcun ritardo le truppe napolitane ed i volontari, e se egli [p. 210 modifica] non voleva ritenere il comando della ritirata, questo doveva essere affidato al generale Statella, che gli presentava quel dispaccio. Il Pepe addolorato e costernato di quella vergogna, e sapendo che i soldati non lo conoscevano né lo avrebbero ubbidito, rimise il comando allo Statella; ma i Bolognesi si levarono a rumore, lo Statella impaurito fuggí a Firenze, e il Pepe ripigliò il comando. Cercò spingere innanzi i soldati e farli passare il Po, ma essi tumultuarono non vollero ubbidire, e presero la via del ritorno. Il Pepe passava il Po con mille uomini tra soldati di linea e cacciatori, oltre trecento artiglieri, e con questa mano di generosi andò a Venezia. Il nostro 10° reggimento di linea che aveva combattuto a Montanara e Curtatone e con tanto valore a Goito il 29 maggio fu richiamato anch’esso e dovette tornare. I soldati ubbidiscono al re. Tutti i soldati piemontesi seguivano Carlo Alberto che coi suoi figliuoli combatteva contro gli austriaci per l’indipendenza d’Italia: i soldati napoletani ubbidirono al re quando li mandava con quella bandiera tricolore che essi avevano combattuta in Sicilia e in Calabria come ribelle, ubbidirono quando il re li richiamava. Pochi sentirono che il disubbidire era caritá di patria, era dovere piú alto ed onorato. Oggi dopo tanti anni io mi sento ancora commosso alla memoria di quel fatto, e mando una benedizione alla memoria di Guglielmo Pepe, un saluto a quegli uffiziali e soldati che magnanimi seguirono quel magnanimo, e salvarono almeno l’onore del nome napoletano. Nel ritorno il colonnello Lahalle si uccise con un colpo di pistola, il colonnello Testa morí di dolore: pochi ufficiali e sottoufficiali tornarono al Pepe in Bologna: tutti gli altri maledetti dalle popolazioni tra cui passavano, si ridussero nel regno, e sentendosi vituperati e spregiati perché avevano ubbidito al re, s’inviperarono fieramente e divennero nemici del popolo. Re Ferdinando riusciva cosí a separare l’esercito dal popolo, e farlo tutto suo.

Scrivevano dalle Calabrie, che verrebbero essi sopra Napoli a cacciare il Borbone; e forse il Ricciardi, come il Cardinal Ruffo nel 1799, voleva sollevare le moltitudini calabresi [p. 211 modifica] e ingrossando per via come una fiumana rovesciarsi sopra Napoli, e andare anche oltre: ma altri uomini, altri tempi, altra causa, ed egli non cardinale. La rivoluzione di Calabria era cosa molto grave, se fosse cresciuta: e però il governo pensò di opprimerla subito e con vigore. Ferdinando trovò subito soldati, armi, munizioni, vesti, scarpe, ogni cosa necessaria: e ai primi giorni di giugno partí per mare il generale Ferdinando Nunziante con quattromila uomini, sbarcò al Pizzo, si fermò in Monteleone: con duemila partí il generale Busacca, e sbarcato a Sapri prese la via delle Calabrie, e cosí le separò dalla Basilicata e dal Cilento che cominciavano a rumoreggiare: il generale Lanza con altri duemila uomini per terra prese la via consolare minacciando le popolazioni dintorno, e piú tardi si univa al Busacca. Cosí dunque i regi strinsero le Calabrie da ogni parte: i calabresi si apparecchiarono a resistere, e chiesero ai siciliani i promessi aiuti, e il giorno 15 giugno il piemontese Ribotti con seicento siciliani sbarcò a Paola, e il giorno seguente fu a Cosenza. E pure il Ribotti fece un grande errore a mettersi cosí tra il Nunziante, il Busacca e i due mari, senza pensare ad un modo di ritirata, ed essendo a capo di gente che non era soldati né decisa a vincere o morire. Se i siciliani avessero avuto senno e preveggenza dovevano mandare subito e prima dell’arrivo del Nunziante, una forte mano di uomini a Reggio dove era un debole presidio, e vinto questo facilmente venire su ingrossando ed occupare essi Monteleone; ma indugiarono, ed in ultimo presero il partito peggiore di cacciarsi proprio in mezzo ai nemici. La rivoluzione di Calabria non aveva un’idea potente su le moltitudini, dicevano di farla per mantenere la costituzione, e scacciare Ferdinando che l’aveva violata; non aveva capi e guidatori, ché il Ricciardi compito gentiluomo e liberale entusiasta faceva bei discorsi e larghi disegni, Domenico Mauro, scrittore di rabbuffate poesie e di versi ventosi, era tutto orgoglio e vanti e minacce: Pietro Mileti, antico uffiziale e maestro di scherma buono a combattere, ma di corto vedere, e facile ad accendersi: gli altri buone persone, colti, [p. 212 modifica] generosi, stimabili per molti versi, ma non sapevano che fare. Lí si trattava di combattere soldati, e i soldati non li vincono poche centinaia, ma ci vuole tutto un popolo che tolga loro il vitto, che li molesti sempre e in ogni parte con imboscate e insidie, che faccia la guerra senza farsi vedere, e fuggendo e apparendo da ogni lato, e stancando il nemico non dandogli posa mai.

Intanto i giornali diffondevano le notizie, che il general Nunziante sul fiume Angitola era stato disfatto, i suoi tutti dispersi, egli morto: che il Nunziante era vivo, che i suoi soldati erano entrati in Filadelfia, e l’avevano saccheggiata, poi avevano saccheggiato il Pizzo, e uccise molte persone, fra le quali il padre di Benedetto Musolino che era un vecchio settuagenario, e il fratello Saverio, e avevano devastata interamente la casa: che calabresi e siciliani presso Spezzano avevano vinto il Busacca e costrettolo a ritirarsi in Castrovillari; poi che i regi si avanzavano vincitori, le bande si scioglievano, i siciliani s’imbarcavano, i comitati fuggivano, pochi si ritiravano su la Sila per resistere su quei monti ed aspettare occasioni migliori; che il Nunziante andava sopra Catanzaro con soldati feroci e ladri e sanguinari.

Mentre in Calabria si combatteva, in Napoli si apriva la Camera il primo giorno di luglio. Erano stati eletti gli stessi deputati che furono cacciati il 15 maggio, e alcune cittá non vollero rifare le elezioni perché non riconobbero l’atto che le annullava. E questo fu pruova di coraggio civile. Il 1° luglio adunque si apriva il parlamento, e non nella universitá che è in una stretta e remota via della cittá, ma nella sala della biblioteca che è nel palazzo del museo dove si va per via ampia e diritta facile ad esser tenuta da soldati e spazzata da cannoni.

Non ci veniva il re, ma suo delegato il presidente de’ ministri duca di Serracapriola, un bell’uomo ed alto, ma con un brutto naso: egli lesse il discorso della corona, nel quale il re lamentava il disastro del 15 maggio, si rallegrava di veder riuniti i deputati, raccomandava di occuparsi delle leggi amministrative, dichiarava le sue immutabili intenzioni di mantenere ai popoli una libertá saggiamente limitata, e [p. 213 modifica] invocava a testimone Dio e la storia. A questo discorso nessuno si commosse, salvo il duca che era sudato per aver letto; nessuno disse una parola. Dei centosessantaquattro deputati furono presenti solo settanta: dopo qualche giorno furono ottanta, ed elessero presidente l’avvocato Domenico Capitelli, vice-presidente Roberto Savarese. Fecero la risposta al discorso, e con temperate parole chiesero cambiamento di ministero, guerra per l’indipendenza italiana, leale esecuzione dello statuto. Furono tutti unanimi i centocinque deputati presenti ad approvare questa risposta, e dodici la portarono al re, che non volle riceverli, e li fece andar via, e vietò ai ministri di intervenire nelle tornate della Camera.

La Camera dei pari si riuní piú tardi, ai 19 di luglio, e fece anch’essa la sua risposta nella quale ringraziava il re per l’ordine che aveva ristabilito, e prometteva il suo aiuto per l’avvenire. Il solo principe di Strongoli, generoso vecchio, osò levare la voce e dire che la nazione nominando gli stessi deputati aveva giá condannato il governo, che il non aver mantenuto le promesse fatte nel programma del 3 aprile aveva prodotto il 15 maggio e la rivoluzione di Calabria; che era stato un errore grave richiamare le soldatesche dalla Lombardia; che pensassero i ministri, essendo repubblica in Francia, ad unire e salvare la monarchia in Italia. Il buon vecchio fu lodato da una parte, vituperato dall’altra, e poi costretto ad andare in esilio: quelle sue parole furono le sole che fanno ricordare la Camera dei pari.

Il Bozzelli soleva dire ai suoi amici che egli si trovava stretto in mezzo tra la Camera e la camerilla, l’una voleva troppo, l’altra negava tutto; e che egli, che voleva salvare qualche cosa, spiaceva agli uni ed agli altri. Cosí avviene senmpre agli uomini che nelle rivoluzioni, mentre tutti corrono o in un verso o in un altro, vanno adagio; ei sono travolti e calpestati. Non s’accorse che egli fu un istrumento maneggiato dal re, il quale dopo un poco lo gettò via come ottuso, e prese i taglienti.

Che cosa era la camerilla? I borbonici che cospiravano contro la libertá avevano un gruppo di uomini che stavano [p. 214 modifica] attorno al re. Era composto principalmente di uffiziali della guardia reale, che dimoravano sempre in Napoli, e facevano la guardia al palazzo; e ne era capo il principe di Turchiarolo, che desiderava il bastone di capitano delle guardie del corpo, uffizio tra i maggiori di corte, e che era vuoto, ed egli teneva quell’uffizio ma non il grado né gli onori. Costui abitava proprio in palazzo, e nelle regie stalle tra staffieri e servitori ragunava i piú devoti. Ai militari si aggiungevano vecchie birbe di polizia, e spie, e ribaldi di ogni specie purché provati fedeli. Erano potenti perché avevano le armi, ed avevano vinto il 15 maggio, e si erano uniti ed ordinati, e difendevano la causa del re; ma la maggior parte erano sciocchi ed ignoranti, e dicevano le grosse corbellerie, e un colonnello proponeva si facesse venire anche la flotta svizzera. Quegli uffiziali appartenenti a nobili o ricche famiglie erano stati educati dal prete, dai cocchieri e dalle ballerine, e si credevano onoratissimi a fare i regi servitori, e i regi sgherri. Fra essi ce n’eran dei furbi, che li guidavano un po’, e saliti piú in alto, uscivano di quella fangaia. Il re lasciava fare, ma badava che non facessero troppo, non gli guastassero i suoi disegni, e talvolta li frenava, tanto per mostrar loro che il padrone era egli, comandava egli, e non si lasciava vincere la mano da nessuno.

La camerilla avrebbe voluto togliere subito lo statuto, accoppare tutti i liberali o almeno i capi, e governar con la sciabola, e odiava fieramente i deputati, e li chiamava i chiacchieroni, e piú volte proposero di uccidere quelli che parlavano piú arditi. Nella Camera il deputato Giuseppe Massari disse memorevoli parole ai ministri: «Noi dimentichiamo tutti i vostri errori e le vostre colpe, ad un solo patto, che mandiate subito il nostro esercito e le nostre navi a combattere per la causa italiana: aiutate la causa d’Italia, e noi vi perdoneremo, anzi vi benediremo». Il Bozzelli disse che egli per ragioni di civile prudenza non poteva rispondere. E che poteva dire egli ministro di Ferdinando II, che era il piú fiero nemico della causa italiana, e che avrebbe mandati i suoi soldati, sí, ma per aiuto all’Austria? E quando su fine di agosto si seppe la ritirata, [p. 215 modifica] la sconfitta, la sventura di re Carlo Alberto, nella Camera si levò la voce: «Vadano i nostri soldati a rimettere la fortuna, ché c’è ancora Venezia che combatte». I ministri non risposero. Il deputato marchese Luigi Dragonetti interpellava il ministro su le inique e feroci opere del governo nelle Calabrie: e il Bozzelli difendeva quelle opere come giuste ed inevitabili, e diceva che era liberale anch’egli, e sollevando i polsi: «Ho ancora qui i segni delle manette che piú volte mi hanno stretto i polsi». E in questo dire e dimenarsi cade su gli scalini della tribuna. «Bene, bene, meritamente», fu gridato dalle tribune: questo fu il solo applauso che egli ebbe. Si levò inviperato, ed andò via. Surse il deputato Carlo Poerio, e narrò tutte le scelleratezze commesse nelle Calabrie, e l’eccidio di Filadelfia e del Pizzo, la ferocia de’ soldati, i crudeli comandi del Nunziante. Dopo pochi giorni fu pubblicata nel giornale uffiziale una lettera dal Nunziante al ministro della guerra; nella quale erano molte ingiurie al Poerio ed alla Camera. Allora il magnanimo Poerio con suo grave discorso confermò i fatti che aveva prima narrati, e propose che la Camera dichiarasse come quelle ingiurie non giungevano a lei; e la proposta fu votata con appello nominale e fu vinta.

Era il giorno 13 luglio ed io vidi molte carrozze chiuse, che circondate da soldati a cavallo con le pistole in pugno presero la via di castel Sant’Elmo. Erano i capi delle milizie siciliane state in Calabria, e fatti prigionieri, che andavano ad essere sepolti in quel castello. Caduta la rivoluzione di Calabria, i siciliani fuggirono sopra alcuni piccoli legni, e dopo lunghi travagli mentre erano a poca distanza da Corfú e si tenevano salvi, furono sopraggiunti dal vapore napoletano lo Stromboli, comandato dal Salazar, e furono fatti prigionieri, ed erano circa seicento, tra i quali il Ribotti. Menati a Reggio, poi a Napoli, i capi furono gettati nei sotterranei di Sant’Elmo, gli altri mandati in galera: Giacomo Longo e Filippo delli Franci, perché antichi uffiziali dell’esercito napoletano, furono sottoposti al giudizio d’un consiglio di guerra. Carlo Poerio, come avvocato, si presentò a difenderli, e [p. 216 modifica] sebbene si vedesse intorno militari che lo minacciavano e lo schernivano, egli fece il suo dovere. Furono condannati a morte: per grazia all’ergastolo; stettero sepolti in un sotterraneo di torre d’Orlando in Gaeta sino al 1860. Giacomo Longo come ne uscí corse a Capua dove si combatteva, fu ferito nella fronte, e cadde; si levò, fasciò la ferita, grido, «viva l’Italia», e seguitò a combattere, finché fu ritratto dagli amici. Il Ribotti penò molti anni in castel Sant’Elmo: gli altri nelle galere prima, poi sulle isole. I deputati Scialoia e Conforti dicevano ai ministri: «Se i siciliani sono ribelli, giudicateli: se sono prigionieri di guerra trattateli come prigionieri». E i ministri rispondevano con ingiurie ai siciliani, ai calabresi, ai deputati chiamandoli stolti e faziosi. Fra i prigionieri era Francesco Angherá, giudicato col Longo e il Delli Franci, ma assoluto perché aveva giá preso il suo congedo dalla milizia quando si messe a combattere per la rivoluzione. Assoluto sí, ma era tenuto nel carcere di San Francesco senza speranza di uscirne: onde egli, che piacevole uomo era, si travestí e sfigurò in modo che uscí dal carcere con molta franchezza e senza essere riconosciuto. Lo sdegno della polizia fu grande, e grandissime le risa dei liberali.

In quei giorni si vide passeggiare innanzi la reggia tra i militari un prete grosso della persona e vecchio e brutto; ed io lo vidi in mezzo a due uffiziali della guardia che cianciavano con lui e ridevano. Quel prete Vincenzo Peluso di Sapri aveva ucciso di sua mano il deputato Costabile Carducci, che sbarcava ad Acquafredda tra Sapri e Maratea, e gli aveva reciso il capo, e fattolo asciugare in un forno, lo aveva presentato in un paniere al re, e non pure non fu punito dell’assassinio, ma ebbe una pensione e carezze molte; e fu punito il procuratore generale Pasquale Scura che aveva dato ordine di fargli un processo, e se non fuggiva il povero Scura lo avrebbero arrestato. La moglie del Carducci, che era sorella di Giuseppe del Re, non seppe mai della morte del marito, ed era una pietá a vederla, a udirla che aspettava lettere dall’America dove le avevano detto che si era fuggito il Carducci.