Ricordanze della mia vita/Parte terza/XXIV. La finestrella sul mare

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XXIV. La finestrella sul mare

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XXIV

(La finestrella sul mare).

Santo Stefano, 23 gennaio 1855.

Oggi è stato un bellissimo tramonto: l’aere tiepido e sereno, il mare tranquillo. Io ho aperta la finestrella piú vicina al mio posto, la quale, se non foss’io, raramente si aprirebbe da alcuni miei compagni che sempre parlano di non so quali catarri e raffreddori, e mi son messo a riguardare. Gli occhi miei si riposavano sulle acque del canale che è tra Santo Stefano e Ventotene leggermente increspate per la corrente, e vedevo sette battelli pescherecci quale immobile quale guizzante e lasciantesi indietro una lunga striscia su l’acqua. L’isoletta di Ventotene, col suo paesello che scende declinando sino alla marina, e con le biancheggianti mura del suo camposanto, mi si dipingeva tutta quanta innanzi agli occhi come una ninfa marina che solleva dal mare la bella faccia con le chiome verdeggianti di alga. Nelle campagne di questa isoletta sono molte casette sparse qua e lá, da due delle quali le piú lontane, saliva nell’aere una verghetta di fumo che si spandeva e vaniva. Le grotte incavate nel tufo, nelle quali abitano i pescatori, il porto, un ponticello sopra una vallata, alcuni scogli, e piú sopra un cannone con la bocca rivolta a Santo Stefano tutto mi appariva distintamente. Piú in lá di Ventotene il mare, e in fondo all’orizzonte l’isola di Ponza, dietro la quale si nasconde Palmarola, a sinistra si vede Zannone, ed a destra lo scoglio detto la Botte che ad occhio nudo sembra una gran nave lontana. Sono stato lungamente a riguardare questo spazio di mare, quest’isoletta vicina, e quelle lontane, quei battelli dove vedevo muovere uomini, quel camposanto [p. 385 modifica] dove dormono per istanchezza di dolori alcuni disgraziati compagni, e le onde dell’infecondo mare, e il cielo dipinto dalla benedetta luce del sole, e sentiva venirmi sul volto, entrarmi nei polmoni un filo d’aura vitale che mi ha ristorato le forze, mi ha messo nell’anima quella dolce malinconia che spesso ho sentito al suono d’uno strumento musicale, mi ha armonizzata la vita ed il pensiero. Mentre cosí stavo, io sognavo ad occhi aperti, e mi veniva a mente il mio caro figliuolo che ora va scorrendo i mari, e che non so dove ora sia, ché son circa quattro mesi e non ho sue lettere: e mi ricordavo quando lo vidi e lo benedissi l’ultima volta il 18 dicembre 1851 prima che egli partisse per l’Inghilterra. Chi sa che fa ora il povero figliuol mio, che patisce e quanto patisce! Chi sa se potrò piú rivederlo! Egli ha giá diciotto anni! oh quanto vorrei vederlo! Se il legno dove egli è navigasse per queste acque, se da lontano ei vedesse questo scoglio, e il tetro ergastolo sulla cima di questo scoglio, oh che sentirebbe il povero figliuol mio a questa veduta! Che dolore, che strazio avrebbe il povero giovane?

Mentre cosí pensavo e stavo per piú profondarmi in questo doloroso pensiero, mi sono sentito una mano su la spalla, e Gennarino mi ha detto: «Che guardi?» «Il mare ed il cielo», ho risposto. Sono sopravvenuti altri, ed io mi sono allontanato da quel pensiero e da quella finestrella. La quale è giá chiusa, perché è notte, e ciascuno al suo posto o legge, o scrive, o mangia, o fuma, o fa niente: ed io spiegato un rozzo tavolino sul quale la sera Gennarino ed io sogliamo leggere e scrivere, ho presa la penna, e questo quaderno di memorie che da quaranta giorni non vedevo e non toccavo piú, e in esso mi sono messo a scrivere a caso come gitta la penna.

Sono passati quaranta giorni: e che ho fatto? Ho sofferto: non potrei, non saprei dire che ho sofferto: il corpo è stanco e disfatto, l’anima torpida e dormente. Sono quattro anni da che dormo nell’ergastolo: e sono come il ghiro che nel verno dorme e si nutrisce la vita coi succhi e col sangue acquistato mangiando la state: cosí vivo anch’io, e nutrisco la vita della [p. 386 modifica]mia mente con le ricordanze del passato. In questi giorni ho letto due volumi del Cosmos dell’Humboldt, libro stupendo, che vorrei rileggere e studiare, e non so se mi sará possibile. Il disprezzo, la dimenticanza in cui siamo tenuti, e l’ignoranza, o voglio dire anche la bonarietá di chi ci ha in custodia, non fa guardare a’ libri che abbiamo. L’ergastolo senza libri dev’essere (vedo chi non legge) un tormento inesplicabile. La mattina traduco Luciano, l’altre ore del giorno che posso studiare piglio una grammatica inglese, perché m’è venuto in mente d’imparar questa lingua. Io non so se sia l’etá in cui sono, o se sia la mia mente che non è piú capace di ritenere ciò che leggo, io profitto pochissimo. Forse imparerò a capire qualche scrittore inglese, m’inchioderò di forza nella memoria quelle benedette parole che non so, né altri qui sa dirmi, come pronunziarle; ma credo che se un giorno m’incontrerò in qualche inglese, non saprò dirgli altro che good morning. Spesso mi ricorda che molti scrissero opere pregevoli, o acquistarono grande pratica in un’arte stando in carcere, come Antonio Serra che scrisse il suo libro che fu la prima opera di economia, nella prigione di Castel Capuano; Tommaso Campanella che in carcere scrisse quasi tutte le sue opere; il Paganini che in carcere diventò un mirabile sonatore di violino; e tanti altri dei quali ora non mi ricordo i nomi. Sí, ma nell’ergastolo non si pensa: almeno io fra gente come questa non mi sento l’ardire di pensare. In una prigione perpetua, sovra uno scoglio, dove la vista del mare e di un’isoletta è un piacere concesso a pochi, lontano dal mondo, lontano da ogni immagine di bellezza e di virtú, nell’ergastolo il pensiero muore dopo poco tempo, rimane solo il corpo che vegeta come pianta stentata, cresciuta all’ombra, ammalata e fiacca. Non vorrei dirlo, perché mi fa orrore e ribrezzo a me stesso che ormai sono usato a vedere e sentire ogni piú grande nefandezza: ma pure il dirò. Cinque o sei giorni fa un forzato fu messo su lo scanno, e lo scrivano lesse un ordine pel quale quel malvagio aveva avuto legnate per avere stuprato un fanciullo di otto anni, figliuolo di non so quale impiegato dell’ergastolo, [p. 387 modifica] e tentato di gettarlo a mare. Le grida di tutti gli ergastolani che all’udire l’orribilitá del misfatto, incitavano i battitori a menare senza pietá, avrebbero distratto Archimede. E ieri altre grida simili e fischi contro un ergastolano, il quale per aver rubata e stuprata una gallina ebbe cinquanta legnate, mentre gli era tenuta sotto il muso la gallina morta. Or va e studia, or va e pensa nell’ergastolo!