Ricordanze della mia vita/Parte terza/XXXIX. Nuovi progetti di fuga

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XXXIX. Nuovi progetti di fuga

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XXXIX

(Nuovi progetti di fuga).

Santo Stefano, 16 maggio 1856.


Per l’affare di tua sorella troverai qui accluso un cartellino, che darai a tuo zio, il quale potrá mandarglielo. Se si dee fare, non bisogna aspettare l’autunno, ché ti ricordi qual disastro è avvenuto nell’autunno; è meglio farlo subito. Quando tu avrai l’avviso farai ogni sforzo possibile per scrivermi subito e farmi pervenire la lettera. Potresti mandare la lettera ad Ischia, per persona a posta, e da Ischia mandarla a Libetta in Ventotene, o a Pasquale qui per una castaurella. Scriverai giá a modo d’Alberto e non una lettera, ma parecchie, e le darai ai marinai dei quali ti scrissi gl’indirizzi. Spero che Cesare sará tornato allora, ed egli potrá incaricarsi di questo affare, il quale dipende in gran parte dal sapere qualche giorno prima il giorno destinato. Noi siamo sempre pronti. Quando saprai che è deciso il sí, mi manderai un po’ di danaro, io ti rimanderò i panni: e farai ancora di mandarmi la canestra, perché mi serve necessariamente. Dirai a voce a tuo zio perché io voglio sapere il giorno destinato almeno quattro giorni prima, cioè che cosa si deve far prima, e come per quel che si deve fare non può bastare un giorno. Cosí tua sorella si persuaderá della necessitá assoluta di mandar l’avviso un dodici giorni innanzi; e dippiú che qui fuori non c’è piú nessuno che possa avvisarci, onde dobbiamo vedere noi il legno, il quale necessariamente dovrá passare dove noi diciamo per esser veduto. Io credo che a questo partito dovremo essere, giacché le chiacchiere son chiacchiere: io non le ho mai credute, non le credo, e non ci spero; e mi piace che tu col tuo buon senno naturale, e tuo zio non ci crediate affatto. Del resto se c’è altra notizia, [p. 419 modifica] ma ragionevole, e di persone sennate e bene informate, tu me le scriverai. Se bisogna far l’affare, tuo zio dovrá decidere se conviene, se si può sperare altro, o non si può; perché poi è meglio sofferire altri sei, otto, dodici mesi che esporsi ad un pericolo. Insomma dev’egli dire: «Non si può sperare altro, questo è l’unico espediente». Qui seguitano le voci, ma non cosí come prima: si dice ancora che amnistia non se ne fará piú, perché si voleva non solo l’amnistia ma la costituzione: si dicono insomma mille sciocchezze. Io per me credo che la voce dell’amnistia sia uscita proprio dal re, il quale sapendo e temendo che si parlerebbe dei fatti suoi nelle conferenze, spacciò che direbbe e farebbe: veduto che non han parlato di lui (e non potevano) non ha piú detto nulla né fatto nulla, e ride ora di tutti quelli che han creduto alle sue parole, e credono ancora, e non si vogliono discredere. Io credo d’indovinarla. Forse ancora fará grazie particolari ai relegati, ai condannati a ferri, ed a qualche ergastolano ancora, ma dei meno invisi: si fará una nota degli aggraziati, si pubblicherá sul giornale uffiziale, si griderá: «Né volete piú? ecco le grazie». Ma indulto generale non mai finché Ferdinando sará Ferdinando; né io, se fossi suo consigliere, glielo consiglierei. Ti ho scritto anch’io quattro chiacchiere fra tante che se ne dicono per farti conoscere come io penso.

Seguita a mettere le letterine nel lino; ma accomodale bene e fa che sieno di piccolo volume.

Ti raccomando di accomodarle bene. Io seguiterò a mandarti le mie lettere nelle scatolette, come ti mando questa. Bisogna usare accorgimento ed un po’ d’astuzia.

Bada alla tua salute, bada di star sana, e cerca di non turbarti l’anima con quelle pene morali che ti fanno piú male delle fisiche. Io sto bene fisicamente, un po’ meglio moralmente. Tu mi dici che io non sono ammalato con la intelligenza, e che le mie lettere provano il contrario di quel che io dico. Ah mia diletta, pur troppo io sento questo male intellettuale, che altri non crede: e se le mie lettere che io scrivo a caso, e scrivo quando ho la febbre addosso, perché penso [p. 420 modifica] a te ed ai miei figliuoli e parlo con te, e sono in uno stato di grande eccitamento, se le mie lettere mostrano certa caldezza, la è caldezza febbrile: le scrivo col cuore, ed il cuore non ha che fare con la mente: il cuore l’ho ancora gagliardo e giovanile, ancora amo di forza. Ma non voglio parlarti piú di questo, perché è inutile il parlarne, anzi ti affligge.

Mandami un tre once di gomma arabica che mi serve per le scatolette nelle quali ti mando queste lettere: la farai comperare da un droghiere.