Ricordi del 1870-71/Alla Francia

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Alla Francia

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L'inaugurazione degli Ossari di San Martino e Solferino Ricordi di Roma

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ALLA FRANCIA.


Agosto, 1871.

Rileggendo le pagine che seguono, un anno dopo d’averle scritte, provai un senso d’amarezza e sorrisi quasi di pietà. Ma poichè non volevo buttare in un canto uno scritto che mi ricorda una delle più profonde commozioni della vita, e d’altra parte temevo che a rileggerlo tal quale altri ci avrebbe sorriso su, come io stesso, e per la stessa cagione; così avevo già preso la penna per mitigare la vivezza di certe espressioni, smorzare l’ardore di certi sentimenti, mutare e togliere qua e là immagini e giudizi a cui gli avvenimenti han tolto colore e valore. Ma subito mi vergognai del mio proposito, perchè m’accorsi che derivava da un sentimento poco degno: io volevo velare, nascondere in parte l’affetto che m’avevano ispirato quelle pagine, solo perchè le previsioni, le speranze, i voti significati in esse, erano falliti; io cedevo a un moto di falso amor proprio. E dissi: — no; quali mi uscirono dal cuore queste parole, tali rimangano, poichè dell’affetto che esprimono non ho nè a dolermi nè a vergognare. — Pensai dunque di ripubblicare le pagine seguenti senza alterarle in nulla da quello che erano uscendo alla luce la prima volta; pensai di lasciar loro quell’impronta di passione, smodata forse, ma generosa e libera, che le fece riuscir accette e credere sen[p. 73 modifica]tite ai pochi che le lessero. D’altra parte, in quel ribollimento generale degli animi, non era facile, in ispecie a un giovane, di serbare la giusta misura; onde sarò scusato.

Mi prese poi un dubbio: che potesse venir giorno in cui queste pagine discordassero dolorosamente da un sentimento vivo, giusto e comune degl’Italiani, e mio. E di nuovo deliberai di correggere; ma mi vergognai di me stesso anche questa volta, pensando che l’aver espresso un sentimento di gratitudine e desiderato propizia la fortuna a un amico che ci abbia fatto un benefizio, è e rimane un atto nobilissimo sempre, anche quando codest’amico si volga contro di voi; e che, quanto più la sua nemicizia è ingiusta, tanto più il ricordo d’aver compiuto quell’atto ci è grato, perchè possiamo dire al nostro nemico: Tu ci offendi ed hai torto; noi ti abbiamo amato e onorato.

Infine, secondo il mio modo di sentire, con queste pagine ho pagato un debito.

Chi non crede che questo debito s’abbia mai avuto, le ometta; chi crede il contrario, non proverà, leggendole, altro rincrescimento che quello d’aver avuto un interprete forse troppo ardente e certo non abbastanza felice. [p. 74 modifica]

Firenze, 13 agosto 1870.

La rotta d’un esercito è una delle forme più desolanti in che si possa presentare la sventura agli occhi umani. Un governo cade, uno stato si spezza, una società si dissolve, interessi fortissimi s’urtano, precipitano grandi fortune, migliaia di famiglie sono gettate nella miseria e nel lutto; ma di tutto questo nulla si vede, tuttociò che ne circonda conserva il suo aspetto consueto, il pensiero indovina i dolori dietro le pareti domestiche e le lacrime sparse in segreto; ma l’immagine viva di tutto codesto sconcerto non s’ha; non s’ha uno di quegli spettacoli, che presentando in un punto tutte le forme e tutti gli effetti della sventura, soverchiano l’anima e amareggiano per molti anni la vita.

Un esercito rotto presenta codesto spettacolo. Si sono spezzati cento mila cuori, e voi vi vedete passare dinanzi cento mila visi pallidi che vi dicono l’un dopo l’altro: — Ho il cuore spezzato. — Il dolore di ciascuno s’accresce del dolore di tutti, e tutt’insieme è un dolore che schiaccia. In tutte quelle anime è caduto, col cadere delle sorti, un edifizio splendido di speranze e di sogni di vita gloriosa e lieta, donde ciascuno traeva lena e coraggio. Le gioie del ritorno, cento volte al giorno volte e rivolte e pregioite nel pensiero, son diventate ora un pensiero insopportabile; mille arditi disegni, fantasticati nei giorni della baldanza, falliti; legami d’affetto, forse, che si dovranno spezzare; promesse che non si potranno più mantenere. In ognuno di quei cuori v’è la tristezza presentita delle infinite occasioni, in cui, stando in mezzo alla gente e sen[p. 75 modifica]tendo dire di quel rovescio, si dovrà chinare la testa, invece di levarla altiera, come quando s’era partiti. Molte parole ed atti di onesta alterezza, che c’erano da molto tempo famigliari, e che la gente ci consentiva nella fiducia della vittoria, ora non saranno più consentiti. La stessa considerazione pubblica in quante delle sue frequenti e sfuggevoli espressioni si farà sentire scemata! Tutto in noi, insensibilmente, si muterà, fino all’atteggiamento e allo sguardo.

Ed anco la coscienza ne punge. Cessato il pericolo, ne pare che si avrebbe dovuto morire prima che cedere. Ritorna alla memoria il proponimento che s’era fatto quando il pericolo era ancora lontano, che piuttosto di piegare ci saremmo fatti uccidere; l’avevamo risoluto, lo avevamo detto cento volte a noi stessi, eravamo sicuri che quel proponimento lo avremmo mantenuto, ed era appunto questa risoluzione e questa sicurezza che ci rendeva orgogliosi e ci innalzava agli occhi nostri. Ora qualche cosa da rimproverarci l’avremo sempre; dal fondo della nostra coscienza si eleverà sempre una voce sommessa per dirci che potevamo far qualcosa di più, e sarà una trafittura perpetua. Ed anche guardandoci intorno, il cuore ci si stringe. Su nessun volto dei nostri compagni avevamo mai visto la paura, nè immaginavamo che vi potesse apparire; ora la vedemmo. A ciascuno di noi, per l’addietro, pareva che da lui solo la vittoria pendesse; aver la forza di fare il proprio dovere era la cosa sola a cui ciascuno pensasse; di sè stessi si dubitava, non d’altri; ora anche d’altri. Tutto è mutato: mille argomenti di forza svanirono, mille argomenti di timore sorvennero. E sono passate poche ore! Pure fra la prima e l’ultima si è fatto un vuoto di dieci anni; ci sentiamo invecchiati; ci domandiamo se è stato un cattivo sogno; tra i nostri occhi e tutto quel che ne circonda si stende ancora un velo; in mezzo al silenzio mortale dei soldati che camminano con noi, tra quell’unico e sordo rumore di passi che rende [p. 76 modifica]quel silenzio più tristo, un’eco confusa del fragore della battaglia ci rumoreggia ancora all’orecchio come voce lontana e sommessa, che ci rimbrotti e ci accusi. Passano e s’avvicendano nella fantasia stanca, facce orrende di nemici intravvisti dappresso tra il fumo, e visi di compagni trasfigurati dalla morte, e chiaro e distinto il punto dove giacevano, e tutto quello che avevano intorno: quel sasso, quella traccia di sangue, quella pianta, quell’arma abbandonata...... Poi l’occhio ed il pensiero cadono sul soldato che ci viene accanto, su quello che lo precede, su quello che lo segue, più in là, intorno, vicino, lontano, su tutta la colonna che s’avanza silenziosa e quasi furtiva, come fiume raccolto e rapido; tutti stanchi, discinti, senza armi, a capo scoperto; a tutti manca qualcosa, e nessuno ci bada, ed il giorno prima era un delitto. La campagna è seminata di armi, di cappelli, di tracolle, di pennacchi; si passa e si calpesta; è desolante; tutte quelle robe sparse sono i rottami della disciplina, dell’ordine, della forza. Quanto tempo e quanta fatica prima che ogni cosa sia ricomposta!

Un giorno, un’ora infortunata sperperò il frutto del lavoro di tanti anni, di tante cure, di tanti sacrifici; l’esercito, l’orgoglio e l’amore della patria, su cui si accumulavano tante speranze e tante trepidazioni, è rotto e umiliato; i nostri amici e i nostri figli, che ieri ci sfilavano dinanzi splendidi e superbi, guardateli, li hanno vinti, non cantano più, non parlano, chinano a terra quelle care e altiere fronti giovanili che noi baciammo quando partirono, pensano e soffrono, e non vorrebbero più tornare fra noi; oh no! tornate; siete sempre nostri; noi vi stringeremo al cuore collo stesso affetto di prima; sollevate la fronte, la vittoria non è sempre dei valorosi, coraggio, guardateci no, non vogliono, fanno cenno di no, continuano a camminare in silenzio, piangono. Oh è duro, è desolante, è uno spettacolo che strazia l’anima. [p. 77 modifica]

Per me è un tristo argomento di pensiero il maresciallo Mac-Mahon. La Fortuna ha veramente infami giuochi, come dice il Prati. Io m’immagino il ritorno del duca di Magenta a Parigi dopo la guerra del 1870, e lo confronto in cuor mio col ritorno ch’egli vi fece undici anni or sono dopo la guerra d’Italia. Tutto il corpo di spedizione sfilò sotto gli occhi dell’Imperatore; tutta Parigi era affollata, per la lunghezza di tre o quattro miglia, dalle due parti della strada dove i soldati dovevano passare; i corpi d’armata entrarono nella città ordinati e disposti, reggimento per reggimento, battaglione per battaglione, nello stesso modo che in guerra; ogni maresciallo precedeva il suo corpo. L’entusiasmo toccava il delirio; non si applaudiva, si mandavano grida di gioia inarticolate, come i ragazzi; si piangeva. Passò il Baraguay-d’Hilliers, col suo braccio monco, canuto e venerabile, e fu salutato con uno scoppio di evviva fragorosi. Passò il Canrobert, giovane, bello, colla sua lunga chioma ondeggiante, con quella sua aria di generale della repubblica, popolare e simpatico, e fu accolto anch’egli con vivissima espansione di entusiasmo. Passò il Niel, passarono parecchi altri generali di divisione e di brigata illustri e valorosi, e su questi, come sugli altri, fu versata una pioggia di fiori e di saluti. Ma quando comparve il maresciallo Mac-Mahon, l’antico soldato di Crimea, il valoroso espugnatore di Monte Fontana, l’ardito vincitore di Magenta, il caro e terribile Mac-Mahon, lodato e benedetto per tanto tempo da lontano, da tanto tempo aspettato e invocato, il più glorioso figliuolo della Francia, come lo chiamavano, il braccio destro dell’Imperatore, l’idolo dei soldati, il primo campione dell’esercito d’Italia, allora da quell’immensa folla agitata proruppe un grido di gioia sovrumana; gli si strinsero intorno al cavallo, lo fer[p. 78 modifica]marono, lo afferrarono pei grandi stivali, pel fodero della sciabola, per la tunica, e lo tennero lì fermo per guardarlo negli occhi, per gridargli ch’era un valoroso, per dirgli che lo amavano, per fargli intendere coi gesti ch’egli era l’orgoglio della Francia; e intanto venivan giù dalle finestre mazzetti di fiori, ghirlande, corone d’alloro, tanto che n’era coperto lui e il cavallo e la strada; le signore sventolavano i fazzoletti dalle finestre; la folla, ondeggiando e spingendosi innanzi, raddoppiava le grida e gli applausi. — Largo! gridavano i lontani, vogliamo vederlo anche noi! tutti abbiamo diritto di vederlo! — Ma i vicini non volevano cedere; sbalzati indietro, si attaccavano al cavallo. — È il cavallo di Magenta! — dicevano, e lo accarezzavano, e lo baciavano, e gli accomodavano i fiori nella criniera..... Mac-Mahon pianse.

Ed ora? Ora lacereranno il suo nome, diranno che ha tradito la Francia, che ha condotto i suoi soldati al macello, che è un dissennato o un inetto, che lo si doveva prevedere, che si fece male a dargli il comando d’un corpo d’armata, che bisognava aver capito da un pezzo che egli non era altro che un caporale ardimentoso, ma che cervello e dottrina di generale non l’aveva avuta mai; che altre teste vogliono essere i capitani d’eserciti in questi tempi, e che è un’indegnità che gli si lasci ancora la spada, e che lo si dovrebbe porre sotto consiglio di guerra per dare una giusta soddisfazione alla Francia; e fors’anco.... fin dove possa giungere ne abbiamo avuto un esempio in Italia.

Codesti sono veramente grandi e terribili dolori che soverchiano l’anima e spezzano i cuori di tempra più dura. E sarà poi tutto suo l’errore? chi lo può sapere? chi lo saprà? Una svista d’un istante, una notizia falsa, un assegnamento fallito, uno slancio sconsiderato di coraggio, un’illusione sfuggevole, un punto, un nulla può essere stato la cagione per cui s’attaccò la battaglia, e ne seguì il rovescio. E questo basta [p. 79 modifica]per precipitare la fortuna d’un uomo; basta per strappargli dal capo incanutito nelle armi la corona di alloro e buttargliela ai piedi; basta per togliergli la fiducia dell’esercito, a cui consacrò il suo sangue, i più begli anni della sua giovinezza, ogni sua più bella speranza; basta a contristargli per sempre la vita, che egli sperava di chiudere in una quiete serena, bella di mille splendidi ricordi, cinto d’affetti, coronato di gloria.

È una sentenza che spaventa.

Noi siamo più calmi e più giusti; in noi l’ira cittadina tace, e il dolore, a cui l’ingiustizia delle precipitate condanne si perdona, è men vivo; sia però generosa e prudente la nostra parola. Per noi Italiani, il nome del Mac-Mahon è nome d’amico: nome di antico fratello d’armi, nome che ci ricorda i più bei giorni e i più cari entusiasmi della nostra rivoluzione; nome che ispira affetto e chiede gratitudine; non lo dimentichiamo. Si può, in Italia, portar diverso giudizio del governo napoleonico, e nutrir quindi per esso un sentimento diverso; ma pei generali, pei soldati, per tutti coloro che hanno combattuto per noi, accanto a noi, sulla nostra terra, non è possibile che un sentimento solo; e l’averlo è dovere, e l’esprimerlo è atto gentile. Per noi il Mac-Mahon era venerabile e caro quanto il più vecchio e il più prode dei nostri soldati; paghiamogli dunque oggi il debito di gratitudine che a lui ci lega, paghiamoglielo rispettandolo e difendendolo dalle ire ignobili e dalle persecuzioni crudeli. Chi ha mente e cuore per comprendere le grandi sventure e per misurare i grandi dolori manderà da lungi un saluto riverente e affettuoso al vinto di Wörth, dicendogli dal più profondo dell’anima: — Maresciallo! gl’Italiani non sono ingrati; per noi, voi siete sempre il vincitore di Magenta. Noi non dimenticheremo mai che la corona del Re d’Italia brilla del riverbero della vostra spada. [p. 80 modifica]

14 agosto.

Il dire ora che l’esercito francese ha tutto cattivo: generali, stato maggiore, armi, tattica, disciplina, non basta, perchè codeste son cose che si possono mutare, e le muterà l’esperienza; bisogna dare un giudizio di natura irrevocabile, che costituisca durevolmente nell’opinione volgare l’inferiorità della Francia.

E questo giudizio v’è chi l’ha trovato e lo esprime: — «Il coraggio del soldato francese non basta più oramai a vincere le battaglie; è una natura di coraggio che poteva far buona prova ai tempi dei fucili a pietra focaia, non più ora coll’armi a tiro rapido, per le quali ci vuol calma, più che altro, ed occhio. Il coraggio francese, impetuoso e tumultuario, nelle battaglie d’oggi non è altro che una cagione di disordine; riduce il combattere ad una continua rincorsa, che indugia il successo, prostra le forze, duplica le perdite, e dà poca noia al nemico, o meglio non gli dà altro che noia. I Prussiani hanno il vero coraggio saldo e longanime che ora ci vuole; il coraggio pensato, avveduto, immobile, che veglia ed aspetta e si scatena a tempo opportuno.»

Molti la pensano in buona fede così; una corsa precipitosa, un urlo e un colpo di baionetta, ecco la vantata furia francese. Qualcuno arriva persino a soggiungere: — Non è serio.

Oh vedete! Bisogna convenire che c’è della grande serietà in Europa, perchè a porre il dito a occhi chiusi sulla carta geografica, nove volte su dieci si va a toccare un popolo che è in fama d’aver un coraggio poco su poco giù della maniera di quel dei Prussiani; e una o due volte appena, ci avviene di trovare un popolo famoso per quella specie di coraggio di corsa onde va lodata la Francia. Il soldato inglese è un soldato tenace, il russo tenace, l’austriaco tenace, il prussiano tenace, lo sviz[p. 81 modifica]zero tenace, il danese tenace, cento altri tenaci; e di corridori, d’incauti, di pazzi si conta appena il francese, l’americano, e forse qualche altro di cui ci sarebbe a discutere. C’è quasi da sospettare che quel coraggio là sia più comodo, a vedere ch’è tanto più comune.

Ma si pigli pure l’argomento da un altro lato. Si scomponga nei suoi elementi codesto coraggio dell’avvenire: si troverà ch’essi sono, per esempio, la costanza, la fermezza, la fiducia profonda e salda nella forza propria, quella virtù indomata e selvaggia che vuole, e s’ostina, e s’infiamma nell’avversità, e si ritempra in sè stessa e risorge dalle cadute più fiera.

Ebbene, se la costanza si rivela in trent’anni di guerre gigantesche vinte a furia di lunghe marce forzate e a prezzo di fatiche e di stenti inauditi e incredibili; se la fermezza c’è campo di mostrarla sulle balze nevose e dirupate dei più alti monti della terra, e a traverso i deserti, le lande, le paludi, a lontananze sterminate dalla patria, circondati di nemici, senza rifugio, senza soccorso, senza pane; se la fiducia nella forza propria ci è modo di spiegarla provocando l’Europa, gettandosi in mezzo a cinque eserciti nemici, riannodandosi, sgominati e dispersi, al suono d’un grande nome e all’annunzio d’un grande disegno; se la virtù selvaggia che vuole e s’ostina c’è maniera di provarla rinnuovando dieci volte gli assalti disperati, morendo a mille a mille nelle marce disastrose senza alzare una protesta e senza proferire un lamento, e raggruppandosi e serrandosi in una piccola schiera, nei momenti supremi della sconfitta, per atterrire il nemico della sua vittoria e mostrare al mondo come si muore; se a tutte queste cose si può dare il nome di costanza, di fermezza, di fiducia, di virtù, più che d’impeto cieco e di foga istantanea, si giudichi se al soldato francese manca il coraggio dell’avvenire.

E poi, impeto! corsa! Ma, Dio mio! mentre si fa [p. 82 modifica]impeto e si corre, i nemici fanno i fuochi di fila e scaricano i cannoni; la mitraglia squarcia le colonne assalitrici e sparge il terreno di membra spezzate e di sangue; e bisogna non badarci, bisogna serrar le file e procedere, bisogna passar sui cadaveri e fissar gli occhi sui crani spaccati senza lasciarsi prendere dal terrore e dalla disperazione; bisogna aver la forza di sentire col cuor fermo le grida orrende degli amici e dei compagni che giacciono mutilati e sformati, e guardare in viso la morte e saper morire; e che a dar questa virtù sovrumana bastino l’immagine della patria, i colori della bandiera e il grido del colonnello. Questa è la furia dell’assalto francese, la furia che prese il Monte dei Cipressi, la chiesa di San Nicola, la torre di Solferino, le alture scoscese e formidabili di Pellegrino e di Folco; impeto! corsa! è un impeto che copre le chine di cadaveri, è una corsa di sangue che rimanda a casa i reggimenti decimati, e popola gli ospedali di braccia tronche e di gambe recise.

Il soldato francese ha anch’egli la sua ostinazione, l’ostinazione bella e spaventevole dell’ira; domandate agli Austriaci s’egli sa farsi trafiggere sui cannoni e intorno alle bandiere.

Era da prevedersi: la fama dei generali non basta più oramai a saziare la malignità di chi sospirava l’umiliazione della Francia; si dubita dei soldati. Oh! è un dubbio infame. I campi di Wörth e le alture di Wissemburgo sono seminate di cadaveri prussiani. Le colonne del principe reale e del principe Federico s’avanzano per una campagna allagata di sangue. I dispacci che annunziano la vittoria a Berlino hanno tutti una parola di dolore sulla tremenda grandezza dell’eccidio ch’esse costarono ad ambe le parti. E non si potrebbe, senza infinita viltà, dubitare del valore francese da noi, che li vedemmo morire al nostro fianco [p. 83 modifica]a migliaia, col nome d’Italia sulle labbra, noi che ieri soltanto impallidimmo di meraviglia e di terrore dinanzi a un monte di teschi francesi sull’altura della chiesa di Solferino.

Non volete che lo si ricordi? Vi pesa la gratitudine?

Noi dobbiamo amare e venerare l’esercito francese fuori d’ogni ragione politica, d’ogni interesse nazionale, d’ogni legame di gratitudine. L’esercito francese ha una gloria sua e una vita sua, che passò incontaminata e splendida a traverso i regni, le rivoluzioni e le repubbliche, in nome di cui combattè da ottant’anni. Il soldato francese fu prima di tutto e sopra tutto il soldato della rivoluzione e della libertà. Mutata la bandiera, non gli si è mutato il sangue; e il suo coraggio s’accende ancora alla fiamma antica. Sotto il bigio cappotto batte tuttavia il cuore che batteva sotto la giacchetta del giovinetto dalle lunghe chiome, che volava ai confini della Francia scalzo, lacero e superbo. Nel nuovo soldato arde ancora lo spirito che reggeva la lena di quel giovanetto quando trascinava i cannoni su pei dirupi delle Alpi. Le file dei nuovi soldati tien salda ancora quella forza che stringeva i quadrati insuperabili sulle sabbie d’Egitto. Nel petto del nuovo coscritto è viva ancora quella virtù tenace e magnanima che l’animava, estenuato e scarno, nella solitudine dei deserti di neve, in quella follia sublime della campagna di Russia. Noi amiamo codeste memorie, che l’esercito francese ci rappresenta, per il fecondo tumulto di affetti e di pensieri che ci suscitarono nell’anima; le amiamo come tutto quello che è grande e solenne per isventura e per gloria; amiamo codesto soldato perchè fu valoroso, indomabile, sventurato, devoto; lo amiamo in sè, per sè, fuori del suo popolo e del suo sovrano; amiamo quel grande berretto velloso, quell’antica tunica a coda, quelle grandi ghette, quelle due tracolle incrociate delle guar[p. 84 modifica]die imperiali, quei colori, quei segni, quei ricordi, quelle bandiere coi nomi di Friedland e d’Austerlitz, l’aura venerabile che muove da quelle file; amiamo quest’esercito, in fine perchè anche noi, come quel giovanetto dei Miserabili, leggendo a sera tarda le pagine immortali della sua grande epopea, abbiamo sentito nella solitudine della nostra cameretta il passo misurato e pesante dei battaglioni della guardia, il grido lontano dei reggimenti, l’eco dei cento cannoni radunati e schierati sotto l’occhio fulmineo del grande capitano, e a poco a poco il cuore ci si gonfiò, l’occhio ci si empì di lacrime, il sangue ci arse, e spalancate con furia convulsa le finestre abbiam lanciato un grido d’entusiasmo nel silenzio della notte: — Viva l’Imperatore!

— Da che parte tieni tu?

— Dalla Prussia.

— Perchè?

— Perchè mi urta i nervi la blague dei Francesi.

Sì, ritorniamo su quest’argomento; così è: tutto si perdona, anche a un nemico, fuorchè il menomo segno ch’egli ci dia di credersi qualcosa da più di noi. Ne siamo magari convinti, ce lo diciamo cento volte al giorno a noi stessi, daremmo gli occhi della fronte per poterci credere in diritto di alzar la testa e di camminare impettiti come lui; forse, in luogo suo, faremmo peggio, e lo diciamo noi stessi; ma non tolleriamo ch’egli mostri d’accorgersene e ci faccia capire che lo sa. In fondo, è un sentimento comune, ma meschino; basso poi e spregevole, quando si faccia cagione e alimento unico di avversione e d’inimicizia, reprimendo in noi tutti quei moti e combattendo tutte quelle tendenze che ci porterebbero più ragionevolmente alla simpatia e all’affetto.

E poi, si noti, i Francesi hanno della blague non perchè sono uomini come tutti gli altri che fecero [p. 85 modifica]qualcosa da cui sia lecito trarre in qualche modo codesto diritto; ma perchè sono Francesi. Che la blague sia fondata o no su qualche cosa di vero e di sodo non si cerca; quel che preme si è che la modestia sia rispettata; noi siamo i paladini della modestia. Ma badiamo di non ingannarci. Badino i più furenti a non iscambiare il legittimo e fiero orgoglio nazionale a cui la blague d’ogni straniero riesce molesta ingiuriosa, col dispettìno e la stizzuccia che desta nelle anime piccole una superiorità incontrastata. Sentimenti molto diversi che vestono non di rado una forma.

La blague è il belletto della forza e della gloria, sempre e per tutto.

Io vorrei mettere l’Italia in luogo della Francia e che ogni Francese pigliasse un Italiano e gli dicesse, come a loro si dice, se non colle parole, col fatto: «Tu sei un uomo di spirito: io faccio tesoro di tutti i tuoi bons mots, e quando voglio dire un’arguzia la rubo a te o calco la mia sul disegno della tua. Le più belle commedie sono le tue, i più bei romanzi sono i tuoi, le vetrine dei miei librai sono tutte piene dei tuoi libri; io sono vestito da capo a piedi dei panni che mi fai tu, e mia moglie e mia figlia si vestono come piace a te; tu se’ il legislatore del buon gusto, della moda, d’ogni cosa; quando la tua città capitale starnuta, come dice Vittor Hugo, la mia le fa eco; quando dà in una risata, la mia, per entrarle in grazia, fa le viste di crepar dalle risa; i miei ministri fanno tutto quel che ti frulla pel capo; i tuoi soldati sono i primi soldati del mondo; tutte le tue cose sono belle e grandi: noi ti rubiamo tutto: lo stile, le insegne delle botteghe, i giornali, l’accento, la lingua, i balli, i proverbi, i giuochi e le lorettes

Vorrei vedere la faccia di un Italiano a cui si tenesse questo discorso.

Ma noi Italiani, prima del 1866, non credevamo [p. 86 modifica]forse l’Italia il prototipo della civiltà, l’avanguardia d’un’età nuova, il faro del mondo civilito ed incivilito? Non si usciva forse dai ginnasi e dai licei col profondo convincimento che in fatto di lettere, di scienza, d’arti, di armi, di coraggio, di ogni cosa ci lasciassimo addietro l’Europa? Ognuno di noi non era sinceramente persuaso e sicuro che ogni singolo Italiano dovesse infilzare con ogni colpo di baionetta una mezza dozzina di Croati? Gli Austriaci? Li abbiamo sconfitti a Goito. I Francesi? Li abbiamo battuti a Roma. I Russi? Li abbiamo vinti in Crimea. Gli Svizzeri? Li abbiamo sgominati a Castelfidardo. Il mondo intero? L’abbiamo dominato da Roma; Cesare e Bruto sono i nostri padri; in noi scorre il sangue dei vincitori del mondo; il nostro keppì è l’elmo di Scipio, e chi sa che un giorno non si ritorni a dettar legge da un capo all’altro del mondo!

E adesso non abbiamo ancora una folla di professorucoli di letteratura italiana che non sanno fare un discorso per distribuzione di premi senza levar l’Italia ai sette cieli e dir corna della Francia e del mondo?

Il soldato francese sente e comprende le cause nobili e giuste. Chi non ricorda il linguaggio ardito, affettuoso e gentile che ci parlavano nel cinquantanove, tutti, dal vecchio sergente della guardia all’imberbe coscritto del reggimento di fanteria? L’Italia! la libertà! Oh non c’era mica bisogno di spiegarglielo il perchè li avevano mandati a combattere con noi, non c’era nemmeno bisogno ch’essi ci dicessero che lo sapevano: bastava guardarli negli occhi. Venivano come ad un convegno di antichi amici, e ci ringraziavano d’averli chiamati. Entrando in Torino sotto una pioggia di fiori, fra due ali di popolo che stendeva le braccia per strapparli dalle file e serrarseli nel petto, in mezzo a due schiere di carrozze piene di signori che li [p. 87 modifica]chiamavano colle grida e coi cenni per portarseli a casa a desinare: — On ne commence pas bien, dicevano con accento tra tenero ed allegro, on nous fait pleurer. — Appena usciti dalle loro caserme, domandavano ai popolani dove fossero le nostre: — I bersaglieri! Vogliamo vedere i bersaglieri! — E corsero incontro ai nostri soldati che già volavano verso di loro, e si abbracciarono. Essi sapevano poche parole d’italiano, ma si facevano intendere. Italie, Italie era il loro intercalare, il riempitivo dei loro discorsi, la loro parola d’ordine, e la dicevano colla voce commossa posandosi una mano sul petto, come si pronuncia il nome di una madre cara e sventurata. La sera essi passeggiavano a braccetto cogli operai, vecchi, donne e figliuoli insieme. Gli zuavi portavano i bambini; le manine bianche de ces petits Piémontais si appoggiavano sulle spalle atletiche di quei superbi soldati; e quando gli uni e gli altri si accomiatavano, vedevansi quelle tenere braccia infantili strette intorno a quei colli robusti e bruni, come ghirlande di fiori intorno a colonne di granito.

Noi gli abbiamo visti partire, gli abbiamo accompagnati alla stazione, abbiamo sentito battere il loro cuore sul nostro prima che andassero a presentarlo alle palle tedesche, abbiamo udito il loro ultimo grido affettuoso di «Viva l’Italia,» prima che andassero a gridare al nemico quello formidabile di «Viva la Francia;» e quando la loro voce non giungeva più fino a noi, vedevamo ancora agitarsi fuori delle finestre del convoglio le loro calotte rosse, le loro azzurre sciarpe, quei poveri fazzoletti turchini, che tanti di loro adoperarono poi invano per arrestare il sangue impetuoso nelle orrende ferite della mitraglia. Belli, prodi e generosi soldati!

.... E oggi, come allora, noi v’auguriamo la vittoria. La lotta sarà terribile. Vi sorrida o no la fortuna, [p. 88 modifica]essa costerà molto sangue e molte lacrime alla Francia; di molte madri strazierà il cuore e accorcierà la vita; il lutto sarà lungo ed amaro, e la traccia delle sventure e dei dolori incancellabile. Ma, nè questo pensiero scemerà l’animo vostro, nè la immane forza nemica. Voi non difendete nè la dinastia, nè l’impero: difendete la Francia, la vostra bella ed amata Francia, le sue memorie, il suo genio, il suo nome, il suo onore, e in nome di questi affetti voi sapete morire.

Or bene; quando vi slancerete per l’ultima volta, decimati e scomposti, contro il nemico, passando sui cannoni e sui carri atterrati, per una via coperta di cadaveri e di sangue; già abbandonati da molti dei vostri generali, morti o mal vivi, al riflesso dei villaggi incendiati, in mezzo agli ultimi e più miserabili orrori della battaglia; se in quel momento supremo non bastasse più a spingervi innanzi il nome della patria, il canto della Marsigliese, la vostra lacera bandiera, i grandiosi fantasimi delle Piramidi, delle Alpi, della Vistola, di Marengo, della Beresina; se in quel momento, sentendovi mancare la lena, bastasse a farvi fare l’ultimo sforzo un lieve impulso di più, e se questo impulso ve lo sentiste nell’anima pensando che v’è un popolo che in quel punto vi manda un saluto d’affetto e di gratitudine dal più profondo dell’anima, e vi grida: — vincete! — e palpita per voi come se pugnassero al vostro fianco i suoi figli, ebbene, Francesi, la vostra terra è grande e generosa, voi avete sparso molto sangue per noi, voi siete nostri fratelli, voi avrete quel saluto e quel grido.

15 agosto.

Molti dicono: — Che i Francesi abbiano avuto la peggio da principio non mi dispiace; io gliel’avevo augurato; era bene che quello smodato orgoglio fosse [p. 89 modifica]un pochino fiaccato; ora basta così, sono soddisfatto, vincano pure, grido anch’io: Viva la Francia. —

Si lasci correre quel che c’è di stravagante e di pericoloso in codesto far le parti della vittoria come d’una torta sfogliata. Non è possibile gridar veramente col cuore: Viva la Francia! adesso, dopo aver desiderato ch’ella fosse condotta a questi estremi e corresse pericolo di una disfatta intera e irreparabile. Ma sia pur benedetto l’augurio, benchè tardo, e s’avveri.

Ora io domando a coloro che persistono nel primo desiderio, non per altra ragione che di quell’orgoglio odiatissimo, se non credono proprio che possa bastare a contentarli quello che accadde finora. La Francia provocò e fu vinta; volle invadere e fu invasa; gridava: A Berlino, e ora si stringe intorno alle fortificazioni di Parigi; confidava nell’onnipotenza del suo esercito, e ora chiama alle armi tutti i cittadini; credeva che i suoi nemici si dissipassero al suo soffio, e già parlava il linguaggio della vittoria, e ora dice ai suoi figli: Bisogna prepararsi a morire per salvare l’onore. E questo mutamento seguì in pochi giorni, in poche ore, può dirsi, e duramente, amaramente, a traverso d’una splendida illusione che le fece sentire intorno alla fronte l’alloro e le strappò un grido di trionfo, per ricacciarla subito nell’abbattimento e nel dolore, coronata di spine, muta ed intenta al crescente fragore dei nemici che credeva già sgominati e lontani.

Quando un popolo ha provato di questi disinganni e di queste angoscie, se proprio non gli si augurava altro che una lezione di modestia, se non lo si odia di odio cieco e selvaggio, si deve dire: Basta!

Temono forse costoro che una grande vittoria a Metz risusciti l’orgoglio mal domato dalle piccole sconfitte di Wissemburgo e di Wörth?

Ah! quando dalla parte che vince vi era il terribile dilemma: — essere o non essere; — quando dietro [p. 90 modifica]a quella parte v’era la grande città, il centro della vita d’un popolo, l’ultimo baluardo della sua libertà, l’ultimo ricetto della sua bandiera; quando tra le file della parte che vince, frammisti ai giovani soldati che amano la guerra e la gloria, vi sono i cittadini coi capelli grigi, gli operai, i genitori, che amano la vita pei figliuoli e la pace per il lavoro; quando si pensa alle ineffabili angosce che desterà l’incertezza, alla sterminata ecatombe che costerà la vittoria, al vuoto spaventevole che farà trista la pace, allo strascico interminabile che codesta guerra gigantesca lascierà di miserie, di malattie lunghe e penose, di legami d’affetto spezzati, di sogni di felicità svaniti, di orfani, di vedove, di vecchi parenti rimasti soli, di famiglie perpetuamente contristate dalla vista d’una cara persona mutilata e deforme; quando si pensa a questo non si teme che quell’orgoglio provocatore risorga, o se pur si teme, egli ci appare così povera cosa, in confronto del flagello con che fu punito, che in verità non ci si può fermare il pensiero.

.... Come quei quadri svariati, ove si vedono alla rinfusa paesaggi allegri e rupi nevose illuminate dalla luna, salotti signorili e campi di battaglia, donne, fanciulli e fiori, e in un cantuccio un uomo che dorme e sogna; così io veggo ora Parigi a traverso le novelle, i romanzi, le commedie, i quadri, le poesie, i giornali, che ce ne resero famigliari gli aspetti, i costumi, i tipi, le consuetudini più minute della vita di strada e di casa. Mi veggo vivo dinanzi agli occhi quello spettacolo grandioso; sento il rimescolamento suscitato in quell’aura tepida e molle di una vita di sfarzo e di piaceri, dall’improvvisa corrente infocata che porta dal campo di battaglia l’odore della polvere e lo strepito delle armi. A tratti a tratti l’elegante aspetto della splendida città imperiale si altera e si perde, e [p. 91 modifica]lascia apparire di sotto il profilo risentito e fiero della repubblica antica. Veggo un tratto di teatro tutto fitto di lumi; tendo l’orecchio se mi arrivasse un verso gentile del Musset o un motto arguto dell’autore di Dalila, e scoppiano le note terribili della Marsigliese. M’affaccio alla finestra per godere il brulichìo denso ed allegro di una grande strada di Parigi, e veggo una moltitudine compatta ed impetuosa che si allontana levando fiere grida di guerra e di morte. Sento una voce infantile e sonora, mi volto, mi veggo scintillare dinanzi due grandi occhi neri, mi ricordo del ritratto di Hugo, riconosco il caro e terribile gamin delle barricate, gli vado incontro; egli mi grida: — Armi! — e scompare. Guardo in un salottino lucente di seta e di specchi, una bella figura alta e flessibile, coi capelli sciolti, in atteggiamento stanco e voluttuoso; riconosco l’eroina dei romanzi, la protagonista dei proverbi, il primo fantasma acceso nei miei sogni giovanili dal Dumas e dal Sue; la chiamo, si volta, è mutata, è pallida, piange; il suo amante è alla guerra. Mi sento urtato per la via, mi volto, è l’impresario, il negoziante, il fattore, l’uomo panciuto del Kock, che schiaccia la gente nelle diligenze e arriva sempre a casa quando sua moglie ha finito; è lui, e me lo vedo vestito da guardia mobile, fiero e impettito, e mi grida colla sua grossa voce nasale: — Alla guerra! — Corro di caffè in caffè, cerco il mio tipo di giovanotto da romanzo, bello, elegante, ricco, generoso, innamorato, benedetto di tutti i doni di Dio, e lo incontro vestito da tiratore algerino, colla testa rasa, con due grosse scarpe, col viso già abbrunato dai primi soli del campo di Marte colle mani incallite dal fucile.... Parigi! bella e cara Parigi! ha pur detto bene quel grande che a viver lontani da te si sente sempre un po’ di vuoto nel cuore, ci pare sempre che qualche cosa ci manchi, si prova sempre qualche cosa che rassomiglia da lontano alla tristezza dell’esilio. [p. 92 modifica]

16 agosto.

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Se le guerre non fossero per molti altri effetti deplorevoli, questo per sè solo basterebbe a farle ritenere una sventura: la sconfinata presunzione che si rivela nei giudizi e nella forma del linguaggio di tutti coloro che ne discorrono. È una cosa che non ha riscontro in nessun’altra occasione di avvenimento pubblico che sollevi delle discussioni; è la postergazione generale della modestia e del pudore; è un acciecamento completo. Si direbbe che l’aura della guerra entrandoci dentro ci tolga la facoltà di sentire rettamente di noi, e ingigantisca nella mente di ciascuno il concetto di tutte le doti e le facoltà naturali e acquisibili dell’anima sua. Improvvisamente, per virtù della guerra, si desta e si sviluppa nell’anima del bottegaio, dello scolare, del fattorino, dell’impiegato, di tutte le persone più aliene per istudi e per istituto di vita dalle cose militari, un amor proprio strategico, un amor proprio tattico, un amor proprio geografico, un amor proprio politico, un amor proprio storico, diecimila non mai provati amor propri, ombrosi, infiammabili, intolleranti, quali appena potrebbero essere scusati dalla coscienza d’un genio trascendentale e d’una dottrina meravigliosa.

La discussione non soffre confini; la parola è concitata e franca; il giudizio pronto, reciso e sicuro; tutte le parole, tutte le forme dubitative sbandite. Provatevi a dire: — Adagio, riflettiamo, aspettiamo, potremmo non avere inteso bene, ci potrebbe mancare ancora qualche elemento di giudizio, si potrebbe dare ancora qualche accidente che ci costringesse a modificare il nostro parere; si tratta di giudicare degli uomini che invecchiarono in codesti studi: quanto più si va innanzi negli anni e nell’esperienza vedete che [p. 93 modifica]più si indugiano i giudizi e se ne tempera la forma; tanto più dobbiamo indugiare e temperar noi; in queste cose l’inesattezza è ingiustizia, la precipitazione è colpa, la passione volgarità..... Vi ridono sul viso, si meravigliano di voi, vi dicono che gli fate pietà, che la cosa è evidente, che loro l’avevano preveduta, che non poteva seguire altrimenti, che basta un poco di buon senso ad intenderlo.

— Ma dite almeno che vi pare, che credete che sia così, che potreste ingannarvi.... — No, no, no, impossibile; l’ultimo monello di borgo San Frediano è fermamente e sinceramente convinto che s’egli fosse stato il Mac-Mahon avrebbe trovato modo di evitar la battaglia; che se avesse comandato la divisione del Douay non l’avrebbe sacrificata a quel modo; che se si trovasse lui sul campo di battaglia condurrebbe meglio il servizio degli avamposti francesi; che il Bazaine fa una bestialità ritirandosi; che Napoleone è una testa di legno; che la Francia è degenerata; che la razza latina ha bisogno del lume della sua mente e dello impulso della sua mano per rifarsi a nuovi destini....

.... La maggior parte di coloro che parteggiano per la Prussia, interrogateli della cagione; vi diranno che è l’antipatia per la Francia. Ebbene; non invidiamo loro il sentimento di soddisfazione che dai trionfi prussiani ricavarono e forse ricaveranno; non sarà mai un sentimento che li appaghi, un sentimento di contentezza vera e nobile, in cui il loro cuore si quieti. La soddisfazione d’un trionfo che non deriva dall’affetto che si nutra per la parte che l’ottiene, non è più la soddisfazione del trionfo, ma quella della sconfitta, ed ha però sempre qualcosa di torbido e di amaro, perchè non è tutta generosa, nè tutta legittima. È una reazione, di cui l’anima non si compiace quanto d’un sentimento spontaneo e schietto, a suscitare il quale la [p. 94 modifica]vittoria per sè sola ed in sè sola basta, e la sconfitta non entra se non come fatto indispensabile o conseguenza necessaria. Quindi è che chi prova quella soddisfazione, non può far sì nell’esprimerla che l’espressione non ne tradisca l’origine e non abbia qualche volta delle forme dure. Siccome quel piacere non gli basta, fruga nella sconfitta a cercarvi nuovo alimento; le vuole assegnare delle cagioni che tornino a disdoro della parte che la toccò; vuol distruggere o attenuare quelle che la spiegherebbero nel modo meno umiliante; della superiorità del numero del vincitore tocca di volo; del valore dei soldati vinti tace; teme che alla parte avversa sia rimasto anche un po’ di baldanza e di fiducia, e gliene vuol negare il diritto; deve infine esercitare ed esprimere un sentimento non degno, nè a lui medesimo grato; un sentimento che non esprimeremmo mai noi, quando la fortuna sorridesse alla Francia, perchè il nostro desiderio non mira all’umiliazione d’un nemico odiato, ma alla gloria d’un amico antico ed amato, e in questa si circoscrive e si appaga....

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.... Per noi la Francia è un affetto di fonte antica, per molte e nuove cagioni cresciuto, radicato, gagliardo; e però ci sarà sempre un conforto, nè lo muterà la fortuna. Quest’affetto, dove la Francia soggiaccia, ci costerà assai più amarezza che non ne costerebbe la sua vittoria a chi oggi la vorrebbe veder nella polvere; ma perciò ci sarà più caro, come tutti gli affetti che il sacrifizio accompagna e a cui la costanza è natura. Eravamo gelosi dell’integrità della Francia come di terra nostra, e ci abbiamo veduto entrar lo straniero. Ci sentivamo compresi della gloria delle sue armi, e l’abbiamo vista oscurarsi. Amavamo i suoi valorosi soldati, e li abbiamo visti disperdere. Veneravamo i suoi [p. 95 modifica]vecchi generali, e li abbiamo sentiti vilipendere. Ci toccherà forse assistere all’ecatombe di codesto immortale esercito, forse veder Parigi stretta dai nemici ad una difesa disperata, forse rinnovare tra le sue mura le prepotenze e gli oltraggi dell’invasione straniera. Per noi che amiamo la Francia saranno dolori veri e profondi; e li dovremo divorare in silenzio, tra i sorrisi di coloro che affrettano oggi col desiderio tutte codeste sciagure.

Ma l’affetto che nutrivamo per la Francia gloriosa, possente e temuta, per il suo esercito prediletto dalla vittoria, per il suo popolo ardente d’entusiasmo e di fede, quell’affetto lo conserveremo vivo sempre ed immutabile per la Francia caduta, per la Francia sventurata, ferita nel cuore e coll’alloro di regina dei popoli inaridito sulla fronte sanguinosa; lo conserveremo per i suoi soldati sparsi nelle città e nelle campagne, intorno ai focolari domestici, a destare col racconto dei dolori patiti le lacrime materne e la pietà dei congiunti; lo conserveremo per il popolo francese scorato, oppresso, diradato dalle prime battaglie e dalle ultime resistenze della disperazione. Allora sì che il sentimento della gratitudine ci si farà profondo nel cuore, e diventerà un culto. Allora ci stringeremo con più caldo entusiasmo a quella Francia che non cade mai, alla Francia che palpita nelle pagine dei suoi grandi scrittori e dei suoi grandi poeti, ed in loro onoreremo il suo nome e risaluteremo la sua gloria. E basterà a confortarci la coscienza di avere amato e onorato quel grande popolo, amatolo vincitore, onoratolo vinto, senza ipocrisia, senza interesse, col cuore di fratelli, sempre.