Ricordi del 1870-71/Certe lettere
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CERTE LETTERE.
Qualche anno fa, un giovanotto di vent’anni che scriveva articoli di letteratura amena e n’aveva lode e incoraggiamenti, ricevette una lettera senza nome (mi pare da Bergamo, dov’egli era vissuto parecchi mesi), nella quale, fra gli altri complimenti dello stesso genere, gli si faceva questo, ch’era la chiusa: «Invece d’imbrattare le colonne del giornale con quelle sciocche tiritère a cui ella ha posto nome di etc., farebbe meglio a pubblicare qualche pagina di storia, che darebbe anche una miglior idea di noi agli stranieri.»
Non è mutata una sillaba. Quel tale serba ancora la lettera, e la serberà sempre, non per il valore ch’ella possa avere in sè stessa, ma perchè gli ricorda una delle più forti impressioni della sua età giovanile. Chi la scrisse — se mai gli cadranno sott’occhio queste pagine — ne riderà; e chi la ricevette — se si dovessero un giorno incontrare — ne riderebbe con lui; l’uno è stato un po’ troppo duro, l’altro un po’ troppo sensitivo, ecco tutto; in fondo fu una scioccheria. Ma l’impressione, ripeto, fu tanto forte, che il povero imbrattatore di colonne non l’ha più dimenticata.
La lettera gli arrivò una mattina nel punto ch’egli si disponeva a scrivere una delle sue solite tiritère. L’aperse, la lesse e la buttò in un canto. A un tratto un suo collega che lavorava allo stesso tavolino gli disse: — Ti senti male? — Egli si provò a sorridere; ma fu un sorriso così sforzato e sfuggevole, che l’amico gli ridomandò con una certa inquietudine: — Hai ricevuto qualche cattiva notizia? — Egli era diventato pallido come un moribondo.
Quante volte abbia riletto poi quella malaugurata lettera, se lo dicesse, non lo crederebbe nessuno. A momenti s’accostava alla stufa per bruciarla, e la rimetteva in tasca; poi voleva riderne, e rideva forte infatti, ma il riso non andava giù, ed egli si rifaceva più serio di prima. Ora diceva: — È uno stupido, un invidioso, un codardo, — e chiamava a raccolta tutte le belle ragioni di Massimo D’Azeglio, per persuadersi che delle lettere anonime non bisogna darsi pensiero. Ora, sconfortato e umiliato, diceva: — Ha ragione, sono un imbrattacarte, non riescirò mai a nulla, non scriverò mai più. — E di fatto, per parecchi mesi, dall’aprile del 1867 fino al gennaio dell’anno seguente, il povero scrittorello, sempre coll’amaro in cuore di quella lettera, non iscrisse una riga; non già per dispetto, timore, o pigrizia; ma veramente perchè s’era convinto che la letteratura non fosse fatto suo. E tanto se n’era convinto, che non di rado, a ricordargli quelle poche coserelle che aveva rabescato altre volte, arrossiva.
Forse non avrebbe scritto mai più (tanto è vero che il più lieve accidente può aver effetto alle volte sull’intera vita) se uno scrittore da lui venerato ed amato fin dall’infanzia, uno di quegli uomini, come diceva il Giusti, che per vederli bisogna guardare in su, e ai quali non pare possibile che si sia mai potuto dire o scrivere, da nessuno e per nessuna cagione, una parola dura e irriverente; se quest’uomo, dico, senza volerlo, senza saperlo, ricordando, come suole, casi e persone di molti anni addietro, non l’avesse fortificato per sempre contro le lettere di quella natura, con un esempio meraviglioso della vanità e della impudenza umana.
Ma ho da scriverlo quest’esempio?
Sono in dubbio, porche da un lato mi trattiene il timore di peccare d’indelicatezza pubblicando cose dette da quell’uomo in un colloquio privato; tanto più che so che gli spiace, e che dall’indiscrezione di altri ebbe già in parecchie occasioni dei sopraccapi. E dall’altro lato, la certezza di giovare con quell’esempio a qualcuno, specialmente ai giovani che scrivono con grande ardore e si scoraggiano con grande facilità, mi stimola a propalarlo.... E farò così: non dirò il nome della persona, per riparare in parte all’indiscrezione.
Il giovane della lettera, dunque, ebbe la fortuna di parlare con quell’uomo uno degli ultimi giorni dell’anno 1867. Non lo vedeva allora per la prima volta; ma entrò nullameno in casa sua con viva trepidazione, come segue a tutti, vecchi o giovani, illustri od oscuri, che si presentino a lui. Nel momento in cui egli entrò, il grande scrittore s’accostava al camminetto con due pezzi di legna in mano; il giovane salutandolo rispettosamente, glieli tolse di mano e si chinò per metterli sul fuoco. Ma siccome il metter bene due pezzi di legna sul fuoco, quando ce n’è già un mucchio che minaccia di scomporsi e di spandersi, non è un’impresa facile, specialmente per chi sia un po’ confuso dalla presenza d’un uomo illustre, e tanto più se debba far quel lavoro sotto i suoi occhi, così il povero giovane gingillò un pezzo colle mani, provò e riprovò, si scottò le dita, s’insudiciò di cenere, e finì col lasciar cadere i due pezzi di legna a caso, in modo che tutti gli altri si ruppero sotto il colpo, ne uscì un nuvolo di scintille, la brace si sparpagliò sul pavimento e il fuoco si spense. Egli si rialzò col viso rosso come una ciliegia, facendo un atto che voleva dire: — Perdoni! — e un altro che significava: — Sono un tanghero! — e Dio sa se in quel punto non si sarebbe andato a rimpiattare per la vergogna! Ma il venerando vecchio fece un sorriso così allegro, così benevolo, in cui si leggeva così chiaramente ch’egli aveva capito la cagione prima di quel sottosopra, — la commozione prodotta dalla sua presenza, — che il giovane si rincorò a un tratto, sorrise alla sua volta, e dato di piglio alle molle riaccomodò ogni cosa in un batter d’occhio. Ma quel sorriso, ripeto, era stato così caro, aveva espresso così ingenuamente l’anima buona e gentile di quell’uomo, aveva rivelato così appieno il suo finissimo acume d’osservatore, che il giovane, d’allora in poi, l’ha sempre avuto dinanzi agli occhi come l’espressione abituale della sua fisonomia; e ogni volta che ci pensa riprova un senso di dolcezza vivissima, e benedice quei due pezzi di legna, quel suo imbarazzo, quel suo rossore, e n’è assai più lieto che se avesse riportato il difficile trionfo d’una grande e repentina fiammata.
O dove divago?
Vengo all’esempio.... Ma prima un’altra cosa. Quante curiosità vi assalgono nella stanza di un grande scrittore, specialmente se sapete ch’egli ha un’opera manoscritta in pronto per la stampa, finita, corretta, e che quest’opera è lì sopra un tavolino accanto a voi, un mucchio di fogli, tutti in un carattere nitido e grande, da poterne leggere qualche parola di sfuggita! E quanto più viva è la vostra curiosità quando sappiate che quest’opera è il frutto degli studi e delle meditazioni di trent’anni, che fu cominciata e proseguita in segreto fino a due o tre anni addietro, che forse non sarà pubblicata che dopo la morte (lontana, Dio voglia) dell’autore, e che tratta una delle più feconde e solenni quistioni della storia moderna! E poi la curiosità di vedere sullo scrittoio di quell’uomo quali sono i libri ch’egli legge usualmente, quali, tra questi, i più logori, e le pagine piegate, e le postille sul margine; e di tutti i libricciatoli della giornata quali sono penetrati sin là; e fra le innumerevoli lettere che gli si scrivono, quali quelle ch’egli ha messo in disparte per la risposta, e di chi! Che folla di curiosità! Ebbene, a un dato momento, lui uscì dalla stanza, e il giovane rimase qualche minuto solo! Sulle prime stette immobile, guardava intorno titubante, tremava. Poi si slanciò al tavolino, e cominciò a leggere in fretta e in furia il manoscritto, ansando e guardando all’uscio a ogni parola; avrebbe voluto divorarlo in un istante, scolpirselo nella memoria, portarselo via tutto; e leggeva sempre più a precipizio, e le parole e le righe, gli tremolavano e gli si confondevano allo sguardo come i tratti d’un volto riflesso dall’acqua agitata; e la mente non afferrava nulla, e cresceva la smania, e incalzava la paura.... Dio eterno! L’illustre ospite apparve sull’uscio prima che quel disgraziato giovane si allontanasse dal tavolino! Questa volta diventò pallido e abbassò il capo senza fiatare. Ma rialzando gli occhi poco dopo con grande ansietà, ebbe un palpito di gioia infantile: l’ospite illustre sorrideva, ed era daccapo quel sorriso allegro, benevolo, fine, che diceva: — Ho capito, ho capito, leggi pure.
Oh benedetta la curiosità!
Ma l’esempio?
Ora ci vengo.... Ancora una parola. Lui — l’innominato — era uscito dalla stanza per andare a prendere un libro, che, appena tornato, posò sul tavolino, sotto gli occhi del giovane, dicendo: — Se lo tenga. — Era un grosso libro, la più celebrata delle sue opere, ornata di molte incisioni che il giovane non aveva mai viste. Questi cominciò a guardare le prime pagine, e l’impressione che gli fecero quei disegni, rappresentanti personaggi, luoghi e fatti famigliari e carissimi a lui fin dalle prime letture della fanciullezza, fu così schietta e viva, che ad ogni voltar di pagina, prorompeva in esclamazioni e voci di sorpresa e di contentezza, come al rivedere amici antichi, ridendo, battendo la mano sulla tavola, sobbalzando sulla seggiola, dimenticando affatto che c’era là presente quell’uomo. — Oh guarda chi vedo! — esclamava — Così proprio me l’immaginavo! — E quest’altro! — Ti riconosco! — Oh! eccolo qui quel tale! — Oh bello! la casa, la chiesa, il sagrato.... — A un tratto si ricordò di lui che era presente, tacque, si vergognò di quella vivacità smodata, e pensando d’aver fatto la figura d’un ragazzaccio senza garbo nè grazia, e che forse il viso del suo ospite glielo avrebbe fatto capire con quell’espressione incerta tra la stizza e la pietà che si assume in simili casi, alzò gli occhi timidamente.... Un altro sorriso! Un sorriso più amorevole e più caro del primo! Un sorriso che rifletteva tutta la compiacenza segreta del giovane lettore, un sorriso che ringraziava e animava, e diceva: — Capisco, capisco, ridi pure.
Ma l’esempio!
Eccomi. Si venne a parlare della smania che hanno certuni di aver lettere dagli uomini di grido, dell’insistenza con cui le domandano, dell’abuso che ne fanno poi quando le ottengono, menandone vanto, non già come di favore ottenuto a furia d’istanze, e accordato per puro debito di cortesia, ma come omaggio particolare e spontaneo reso a loro, senza che essi se l’aspettassero, senza che ci avessero mai neanco pensato. Il giovane diceva appunto d’aver visto una lettera d’un tale al poeta R., colla quale, senza una ragione al mondo, lo pregava per quello che aveva di più caro e di più sacro a scrivergli, a mandargli almeno una carta di visita con qualche riga, una parola, il suo nome, quello che volesse, purchè scritto da lui. Il poeta tocco da così calda preghiera, gli mandò una sua carta di visita con un verso qualunque. Due o tre giorni dopo, codesto tale entrava frettolosamente in un caffè e avvicinandosi a un crocchio di giovanotti dell’età sua, studenti e professori, esclamava con grand’enfasi: — Io cado dalle nuvole! Sapete che cosa ho ricevuto stamani? ecc. — La verità fu scoperta in seguito e se ne fece un gran chiasso: quel tale aveva fatto passare il poeta come un suo ammiratore; il poeta lo seppe, andò in bestia, e non scrisse più un rigo ad anima viva.
Quest’aneddoto fece sorridere il grande scrittore, e gli richiamò alla memoria parecchi casi somiglianti, seguiti a lui, e ch’egli forse aveva dimenticati da un pezzo.
L’esempio?
Ci si verrà a poco a poco. “Una volta,” egli disse “ricevetti una lettera d’un tale che mi pregava di esprimergli il mio parere su certi suoi versi. Io non risposi perchè... se si avesse da rispondere sempre, bisognerebbe non aver da far altro, e se si risponde a uno, bisogna rispondere a tutti. Dopo un certo tempo ricevetti un’altra lettera in cui quello stesso signore diceva che non sapeva capire perchè non rispondessi, e fra le altre frasi scriveva questa: — Disprezzo? non crederei. — E poi: — Mancanza di tempo? nemmeno. E via così una serie di supposizioni, e a ciascuna supposizione la sua buona ragione per provare che non si poteva ammettere. — Dunque perchè? — La lettera era abbastanza strana per dispensare anche la seconda volta dal rispondere, e non risposi. Ricevetti finalmente una terza lettera di poche righe, in cui mi si ricordava che — fra le altre virtù cristiane ve n’è una che si chiama l’Umiltà.” —
Qui il venerando uomo guardò il giovane sorridendo, quasi con aria di dimandargli: — Le pare? — E il giovane, rimasto un istante a bocca aperta, domandò alla sua volta con un movimento d’indignazione: “Ma è possibile?”
“Un’altra lettera,” proseguì il vecchio illustre sorridendo piacevolmente.... “e questa non aveva nome, ed era molto più dura. Mi pare di ricordarmela testualmente.” —”Ho letto,” diceva questo tale, “tutte le vostre opere, e mi sono molto seccato, perchè voi lavorate per la bottega, e tutti coloro che lavorano per la bottega, sono portati da quelli della bottega. Io vi auguro una lunga vita, non per il piacere di vedervi vivo, ma perchè hanno da tornare per voi e pei vostri pari i tempi della ghigliottina, e mi preme che arriviate in tempo a vederli.”
Il giovane diede un balzo sulla seggiola e guardò lui col viso dipinto di stupore, di dolore e di sdegno.
“E un’altra ancora;” riprese a dire lo scrittore col suo consueto sorriso e con una voce che si faceva più benevola e più allegra a misura che s’inaspriva il senso del linguaggio ch’ei riferiva; “una lettera d’un uomo che occupava una carica abbastanza importante (e la disse) mi mandò un suo manoscritto chiedendo consiglio. Era un lungo manoscritto, e non ebbi il tempo di leggerlo subito. Egli me lo ridomandò poco tempo dopo con una lettera asciutta, ed io glielo restituii. Allora mi scrisse una terza lettera in questi termini.” Stette un minuto pensando, e riprese: “Signore! Se voi non volevate leggere il mio lavoro dovevate scrivermi che non potevate; ma non cavarvela col modo villano di non rispondere. Conosco altri letterati in *** i quali, senz’essere poeti e romanzieri, non sono da meno di voi, e m’hanno risposto. Si dice che voi avete l’uso di non rispondere perchè vi spiace che altri possegga i vostri autografi. Ebbene, non abbiate timore per questo: io vi assicuro che se mi scriverete, farò del vostro scritto un siffatto uso che tolga a chiunque lo abbia poi nelle mani, la volontà di conservarlo. Finisco raccomandandovi due autori di cui avete molto bisogno: Monsignor Della Casa e Melchiorre Gioia.”
Parrà incredibile, ma è vero! Queste lettere furono scritte, con queste parole, a quell’uomo, da persone che coltivavano le lettere, e che forse, nei loro libri e nei loro discorsi, allora e poi, si facevano un merito di lodarlo, di onorarlo, di levarlo a cielo, per carpire almeno quel cencino di gloria che si concede facilmente a chi celebra i grandi che ammiriamo ed amiamo, comunque li celebri, almeno in ricompensa del buon volere! Queste lettere furono scritte a lui, grande, semplice, buono; a lui, il nostro amico più intimo, il nostro maestro più caro, la nostra gloria più pura! A lui, che quando siamo tristi e scorati, andremmo a picchiare alla sua porta come poveri, per pregarlo che ci metta la mano sul capo e ci dica: — Figliuoli!
Del resto, per tornare sulla terra, non è a dirsi che effetto abbiano fatto sul nostro giovane quelle lettere; come si sia vergognato della sua vanità, del suo orgoglio, della sua pochezza d’animo, ricordando quella ricevuta da lui, e le conseguenze che gli aveva portate; come abbia pensato e sentito che quando a un uomo pari a quello che gli stava dinanzi, si erano scritte delle lettere di quella fatta, a lui si avrebbe quasi avuto il diritto di scrivergliene delle peggio, e di pretendere che se ne tenesse; come in fine si sia proposto di ricominciare a studiare, a scrivere, a lavorare, a fare quello che poteva, senza badare a lettere con nome o senza nome, da qualunque parte venissero, qualunque cosa dicessero, dal consigliare il Della Casa ad augurare la mannaia, con tutte le sfumature intermedie.
Ah! s’io fossi pittore come vorrei ritrarre il viso di quell’uomo mentre diceva di quelle lettere! Qualche volta corrugava la fronte e socchiudeva gli occhi, come per imitare il cipiglio che dovevano fare gli autori scrivendo; a momenti non si ricordava più della frase, la cercava, e trovatala, sorrideva per la compiacenza di non averla dimenticata dopo tanti anni; di tratto in tratto rinforzava l’accento col gesto, come fanno i ragazzi quando si lamentano, che dicono: — E tu mi hai fatto questo, e questo, e questo! — con una ingenuità, con una serenità, con una bonomia, che se non fosse stata una domanda sciocca e villana gli si sarebbe detto! — Mi faccia la grazia di dirmene dell’altre! —
Il giovane, uscendo da quella casa, come segue a tutti, col cuore un po’ stretto, e in special modo lui, che sapeva di non poterci ritornar prima d’un’altr’anno, ripeteva tra sè: — E tu avevi avuto una stoccata al cuore da quella lettera! T’avevano ferito nell’amor proprio! Non credevi possibile che ci fosse un uomo al mondo a cui dovessi parere uno sciocco! Eri deluso, sfiduciato, prostrato! Specchiati lì, e vergognati, pusillo!
Fu una lezione salutare.
E come dicevo, mi pare che non sia inutile neanche per gli altri. Ma per carità, chi ha indovinato il nome, zitto! È il babbo di tutti, ma anche col babbo ci vuol discrezione.