Rime dell'avvocato Gio. Batt. Felice Zappi e di Faustina Maratti sua consorte/Sonetti della signora Faustina Maratti
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SONETTI
della signora
FAUSTINA MARATTI ZAPPI
SONETTO I
Dolce sollievo dell’umane cure,
Amor, nel tuo bel regno io posi il piede,
E qual per calle incerto uom, che non vede,
Temei l’incontro delle mie sventure.
5Ma tu l’oggetto di mie voglie pure
Hai collocato in così nobil sede,
E tal prometti al cor bella mercede,
Ch’io v’imprimo contenta orme sicure.
Soave cortesia, vezzosi accenti,
10Virtù, senno, valor d’alma gentile
Spogliato hanno il mio cor d’ogni timore.
Or tu gli affetti miei puri innocenti
Pasci cortese, e non cangiar tuo stile,
Dolce sollievo de’ miei mali, Amore.
II
Che? non credevi forse, anima schiva,
Cader sotto il mio giogo alto e possente?
Credevi tu quell’orgogliosa mente
Mantener sempre d’ogni affetto priva?
5Sotto qual clima, in qual’estrania riva
Alma si trova, ch’il mio ardor non sente?
Arser gli Dei, non che la mortal gente,
Alla mia face eternamente viva.
E tu sola pensasti andar disciolta?
10Or mira: preparata è la catena,
Il giogo, e i lacci, onde fia l’alma involta.
Così parlommi Amore, e la serena
Tranquilla pace fu dal mio cor tolta:
Ahi lacci, ahi giogo, ahi servitude, ahi pena!
III
Io porto, ahimè, trafitto il manco lato
D’un dardo il più crudel ch’avesse Amore
Poichè nulla scoprìa d’aspro rigore,
Ma di cara dolcezza era temprato.
5Dolce mi giunse, e dolce ha il sen piagato,
Ma quanto dolce più, più crudo al core:
Mentre fra duolo e speme, i giorni e l’ore
Traggo, or misera, or lieta in dubbio stato.
Fora meglio, per me, se con fierezza
10Tutt’impiombava Amor gli strali, ond’io
Per aspra ardessi e rigida bellezza:
Chè così col destino acerbo e rio
Or non avrei più guerra, e sua durezza
Avrei vinta col fin viver mio.
IV
Pensier, che vuoi, che in così torvo aspetto
All’agitata mente t’appresenti?
Perchè le pene all’alma accrescer tenti,
E pormi in seno, ahimè! nuovo sospetto?
5Già sento il gelo che mi scorre in petto,
E in parte i rai di mia ragione ha spenti:
Già sento intorno al cor roder serpenti,
Svelti dal crine orribile d’Aletto.
Dimmi, e qual fallo in me trovasti, Amore,
10Che a un così rio martire or me condanni,
Me, cui sì fida il tuo bel foco accese?
Contro un ingrato cor mostra rigore:
E dell’alta ira tua sol provi i danni
Quel che tue giuste e dolci leggi offese.
V
Qualora il tempo alla mia mente riede,
In cui la cara libertà perdei,
E volse i lieti giorni in tristi e rei
Amor, che nel mio sen tiranno siede;
5Tento disciorre allor da i lacci il piede,
E trar d’affanni l’alma mia vorrei,
Ripensando all’orror de’ pianti miei,
E quale ho del servir cruda mercede.
Così, quando Ragion l’armi riprende,
10Meco risolvo, e di giust’ira accesa
Sveller tento lo stral, che il sen m’offende.
Ma il tento invan, poichè quel Ben ch’ha resa
Serva l’anima mia, se un guardo tende,
Vinta rimango, e non ho più difesa.
VI
Non so per qual ria sorte, o qual mio danno
Cangiasse Amor lo stato, in ch’io vivea,
Allor che in pace i giorni miei traea,
Scarca dal peso d’ogni grave affanno.
5Pria mi sembrò cortese, ed or tiranno
Fa crudo strazio di mia vita rea:
Ei mostrar volle in me quanto potea
L’arte crudel d’un lusinghiero inganno.
Ond’io son giunta a tal, che al mio peggiore
10Lassa acconsento, e in mezzo a’ miei tormenti
Chieder non so ragion del suo rigore.
Anzi vuol quel crudel, ch’io mi contenti
Del proprio male, e al misero mio core
Nè pur l’antica libertà rammenti.
VII
Questo è il faggio, o Amarilli, e questo è il rio
Ove Tirsi, il mio Ben lieto solea
Venir alle fresch’ombre, allor che ardea
Con maggior fiamma il luminoso Dio.
5Quì di quest’onde al dolce mormorio,
Mentre l’armento suo l’erbe pascea,
Steso sul molle praticel tessea
Belle ghirlande al suon del canto mio.
Quì vinse Alessi al dardo: ivi per giuoco
10Sciogliea le danze: e quì dove pur ora,
Nascer si vede la viola e il croco,
Quì disse io t’amo: e il volto che innamora,
Uomini e Dei, tinse d’un sì bel foco,
Che dir no ’l so qual mi restassi allora.
VIII
Da poi che il mio bel Sol s’è fatto duce
D’ogni mia voglia, e di ogni mio pensiero,
Ed ha sovra il mio cor libero impero
Con quel raggio immortal, che in lui riluce:
5Ei l’alma regge, ei le dà moto e luce,
Per calcar di virtude il cammin vero:
Nè vuol che tema il piè l’erto sentiero
Che a gloriosa eternità conduce.
E bench’io ’l segua a passi lenti e tardi,
10Pur mi rinforza, e dà spirto e vigore
Co’ saggi detti, e co’ soavi sguardi.
Così vò dietro al chiaro suo splendore;
Nè cale a me, se giungo stanca o tardi,
Purch’io sia seco al Tempio alto d’Onore.
IX
Allor che oppressa dal gravoso incarco
Sarà degli anni questa fragil salma,
E più da rimembranza afflitta l’alma,
E il cor che visse al ben oprar sì parco:
5E me vedrò presso l’orribil varco,
Che, non molti in tempesta, e pochi in calma:
E lei vedrò che miete lauro e palma,
Pormisi a fronte con lo strale e l’arco:
Ahi qual sarà il mio duolo allor che l’ombra
10D’ogni mia colpa in volto orrido e fosco
Minaccerammi ciò che il mio cor teme.
Deh tu, Signor, questa mia mente sgombra:
Fa che il pianger sul fallo, or che ’l conosco,
Serva di scampo alle ruine estreme.
X
Ahi che si turba, ahi che s’innalza e cresce
Il mar che irato la mia nave porta:
E un vento rio l’incalza e la trasporta
Fra scoglio, ove a se stesso il flutto incresce.
5E più la pena all’alma e il duol s’accresce,
Ch’io perder temo l’astro che mi è scorta:
Che ben splende da lungi, e mi conforta:
Ma il Ciel s’oscura, e in un confonde e mesce
Lampi, e saette: ahi quanto, ahi quanto è grave
10L’aspro periglio, e non ho chi m’invola
Al fier naufragio, alla spietata sorte!
E meco il mio nemico ho su la nave:
Egli col ferro, io disarmata e sola:
Or come potrò mai scampar da morte?
XI
Bacio l’arco e lo stral, e bacio il nodo:
In cui sì dolcemete Amor mi strinse:
E bacio le catene in cui m’avvinse:
Auree catene, onde vie più m’annodo.
5E il suo bel foco, e la sua face io lodo,
Che a un così puro ardor l’alma costrinse:
Soave ardor, ch’ogni mia pena estinse,
Talchè vivendo io ardo, e ardendo io godo.
Tempo già fu che in lagrimosi accenti
10D’Amor mi dolsi, e non sapea, che sono
Nunzj del suo piacer pochi tormenti.
Or’al Nume immortal chieggo perdono:
E voi tutti obbliate i miei lamenti
Voi che ne udiste in rime sparse il suono.
XII
Dov’è, dolce mio caro, amato Figlio,
Il lieto sguardo e la fronte serena?
Ove la bocca di bei vezzi piena,
E l’inarcar del grazioso ciglio?
5Ahimè! tu manchi sotto il fier periglio
Di crudel morbo che di vena in vena
Ti scorre, e il puro sangue n’avvelena
E già minaccia all’Alma il lungo esiglio.
A ch’io ben veggio, io veggio il tuo vicino
10Ultimo danno e contro il Ciel mi lagno,
Figlio, del mio, del tuo crudel destino!
E il duol tal del mio pianto al cor fa stagno,
Che spesso al tuo bel volto io m’avvicino,
E nè pur d’una lagrima lo bagno.
XIII
Cadder preda di morte e in pena ria
M’abbandonaro e ’l Genitore, e il Figlio,
Questi sul cominciar del nostro esiglio,
Quegli già corso un gran tratto di via.
5Obbliarli io credea: com’altri obblìa
La memoria del mal dopo il periglio:
Ma sempre, o vegli o sia sopito il ciglio,
Me gli offre la turbata fantasia.
Sol con queste due pene, iniqua sorte,
10Sempre m’affliggi: or mancan altri affanni?
Ah se ti mancan, chè non chiami morte?
Venga pur morte e rompa il corso agli anni:
Amara è sì, ma sempre fia men forte
Che la memoria de’ sofferti danni.
XIV
Bosco caliginoso orrido e cieco,
Valli prive di Sole e balze alpine,
Sentieri ingombri di pungenti spine,
Scoscesi sassi umido e freddo speco;
5Rupi voi, che giammai non udiste eco
Rendere umana voce: e voi vicine
Deserte piagge sparse di pruine
Udrete il duol che quì mi tragge seco.
L’udrete, e forse al suon de’ miei lamenti
10D’intorno a me verran mossi e condutti
Da insolita pietà tigri e serpenti:
Che udendo poscia i miei dogliosi lutti
E il rigor degli acerbi miei tormenti,
Non partiran da me cogli occhi asciutti.
XV
S’è ver ch’a un cenno del crudel Caronte
In un con noi su la funesta barca
La rimembranza degli affanni varca
Di là dall’altra sponda di Acheronte:
5Credo, che allor il ferro e le man pronte
Avrà contro il mio fil la terza Parca,
E vedrà l’alma di sue spoglie scarca
Starle de’ mali la memoria a fronte:
Passerà forse il nudo spirto mio
10Là negli Elisi ov’Innocenza è duce,
Lieto a goder tranquilla aura serena.
Ma a por su tanti e tanti affanni obblìo:
Temo che quante pigre acque conduce
Il negro Lete basteranno appena.
XVI
Invido Sol, che riconduci a noi
Pria dell’usato il luminoso giorno:
Odo il nitrito de’ corsieri tuoi,
Già miro l’alba frettolosa intorno.
5Deh non partire, o Sol, da’ flutti Eoi:
Lascia che l’ombre ancor faccian soggiorno:
Col puro scintillar degli astri suoi
Non è il Cielo men bello o meno adorno.
Se pietoso trattieni un qualche istante
10I raggi, e il corso, io sull’altar di Delo
Voglio svenarti un’agna ancor lattante.
Ah sordo Nume io t’ho pregato invano!
Tu sorgi, e al sorger del tuo raggio in Cielo
Gir dee l’altro mio Sol da me lontano.
XVII1
Per non veder del vincitor la sorte
Caton squarciossi il già trafitto lato:
Gli piacque di morir libero e forte
Della romana libertà col fato.
5E Porzia allor che Bruto il fier Consorte
Il fio pagò del suo misfatto ingrato,
Inghiottì ’l fuoco, e riunissi in morte
Col cener freddo del Consorte amato.
Or chi dovrà destar più maraviglia
10Col suo crudel, ma glorioso scempio,
L’atroce Padre o l’amorosa Figlia?
La Figlia più. Prese Catone allora
Da molti, e a molti diede il forte esempio:
Ma la morte di Porzia è sola ancora.
XVIII
Se mai degli anni in un col corso andranno
Al guardo de’ Nipoti i versi miei,
Maravigliando essi diran: costei
Come sciogliea tai carmi in tanto affanno?
5Ben rammentando ogni crudel mio danno
Tesserne istoria alle altr’età potrei:
Ma piacer nuovo del mio mal darei
Al cor degli empi che gran parte v’hanno.
Talchè racchiudo, per miglior consiglio,
10Mio duol nel seno, e vò contro la sorte
Con alta fronte e con asciutto ciglio.
E s’armi pur fortuna invidia e morte,
Che mi vedran su l’ultimo periglio
Morir bensì, ma generosa e forte.
XIX
Quando l’almo mio Sol fra gli altri appare
A far di sua virtù ben chiara mostra:
Pria d’un vago rossor le guance inostra,
Segno di alma gentil che fuor traspare.
5Indi scioglie i bei carmi, e l’alte e rare
Idee sì ben co’ dolci atti dimostra,
Che fa bell’onta all’età priscia e nostra:
Onde quella ne invidi, e questa impare.
Bello il veder quando fra gli altri ei sorse,
10Pender mill’alme incatenate e liete
Dalla sua voce d’ogni cor tiranno!
Nol crederà l’età ventura, e forse
Dirà, ch’io cresco il Vero, o Amor m’inganna:
Ma il Tebro il dica e voi, voi che ’l vedete.
XX
Poichè il volo dell’Aquila latina
Fece al corso del Sol contraria via,
Posando in Oriente: Italia mia,
Fosti ai barbari Re scherno e rapina.
5Ma non è ver che nella tua ruina
Tutto perdesti lo splendor di pria:
Veggio che dell’antica Signoria
Serbi gran parte ancora, o sei Reina.
Veggio l’Eroe dell’Alpi, il tuo gran Figlio
10Stender lo scettro sovra il mar Sicano,
Acquisto di valore, e di consiglio.
E veggio poi, che l’Occidente onora
Altra tua Figlia nel gran Soglio Ispano.
Italia Italia, sei Reina ancora.
XXI2
Or qual mai darem lode al pregio vostro
Noi dell’Arcadia poveri Pastori?
Serto noi ti farem di Rose e fiori?
Nò, che cinto vai tu di lauri e d’ostro.
5Forse a suon di zampogna, o con inchiostro,
Diremo al tuo gran Nome Inni canori?
Nò, ch’hai tu d’Elicon i primi onori,
E perde appo al tuo canto il canto nostro.
Tu, che di Costantino i pregi, e il vanto
10Fai risorger sul Tebro, e gli dai palma
Sotto il vessillo glorioso e santo:
Tu, ch’hai maggiore il cor d’ogni pensiero,
Tu solo puoi cantar di tua grand’alma,
Alma immortal degnissima d’impero.
XXII
Io non so come a questa età condotte
Reggan quest’ossa ancor carne e figura,
Che a così acerba estremità ridotte
Furon dall’ostinata mia sventura.
5Qual’empio Pellegrin, che in buia notte
Tolto a’ perigli della strada oscura,
Le sante leggi d’amicizia rotte,
Oro ed argento al buon Ospite fura:
Tal l’altrui rea nequizia e il fier livore
10Mi si fe’ incontro d’amistà col manto,
Che la maschera poi tolse al furor.
Sicchè talor su la mia sorte ho pianto,
Ma pur sovente empiendol di rossore
Passai superba al mio nemico accanto.
XXIII
Io mi credea la debil navicella
Rotta dall’onde e stanca di cammino
Ritrar nel porto che scorgea vicino,
Che troppo corse in questa parte e in quella:
5E credea già calmata ogni procella,
E sazio in parte il mio crudel destino,
E che il Ciel più sereno a me il divino
Raggio mostrasse di propizia stella.
Ma da barbaro clima un vento è sorto,
10Che mi sospinge a forza in uno scoglio,
Talchè il naviglio ahi fia dall’onde assorto!
E sì del vento rio cresce l’orgoglio,
Che la tema di morte in fronte io porto,
Ma pur convien ch’io vada ov’io non voglio.
XXIV3
Prese per vendicar l’onta e l’esiglio,
Marzio de’ vinti Volsci il sommo impero,
E impaziente inesorabil fero
Cinse la patria di fatal periglio.
5E ben potea sotto l’irato ciglio
Servo mirar lo stuol de’ Padri intero:
Ma si oppose Vetturia al rio pensiero,
E andò sola ed inerme incontro al figlio.
Quando a baciarla ei corse: allor costei:
10Ferma, che figlio tu di rupi alpine,
E non di Roma o di Vetturia, sei.
Egli allor rese pace al campidoglio,
E quel che non potean l’armi latine,
Fè d’una donna il glorioso orgoglio.
XXV
Chi veder vuol come ferisca Amore,
E come tratti l’arco, e le quadrella,
Come incateni, e come di più bella
Fiamma accresca alla face eterno ardore:
5Venga: e miri l’altero almo splendore
Del mio bel Sole, e l’una, e l’altra stella,
La lieta guancia, e i bei crin d’oro, e quella
Fronte chiaro e gentil specchio del core.
Chi poi desìa veder qual nasca affanno
10Da così vaghe forme e sì laggiadre,
E come strazi Amore un cor già vinto:
Venga e miri il mio mal, vegga il mio danno,
Come da rei martìri è il mio cor cinto:
Amari figli d’un sì dolce padre.
XXVI4
Questa che in bianco ammanto, e in bianco velo
Pinse il mio Genitor modesta e bella,
È la casta Romana Verginella,
Che il gran prodigio meritò dal Cielo.
5Vibrò contr’essa aspra calunnia un telo,
Per trarla a morte inonorata: ond’ella
L’acqua nel cribro a prova tolse, e quella
Vi s’arrestò come conversa in gelo.
Di fuor traluce il bel candido cuore:
10E dir sembra l’immago in questi accenti
A chi la mira, e il parlar muto intende:
Gli Eroi latini a forza di valore
Difenda pur, che a forza di portenti
Le Vergini Romane il Ciel difende.
XXVII
Ahi ben me ’l disse in sua favella il core,
E l’aer grave, ch’io sentìa d’intorno,
Senz’acque il rivo ove sovente io torno,
E la depressa erbetta e il mesto fiore.
5Me ’l disse l’Augellin che le canore
Voci men lieto disciogliea sull’orno:
Me ’l disse il Sole, il di cui raggio adorno
Parea cangiato in pallido colore.
Nè lieto il pesce al fiumicello il fondo,
10Nè zeffiro scherzava in su la riva:
Ma il tutto era in silenzio alto e profondo.
Ciascun dir mi volea che l’alma è viva
Luce del mio bel Sol, sì chiara al mondo,
Dagli occhi miei lontana, egra languiva.
XXVIII
Muse, poichè il mio Sol gode e desìa
Legger miei carmi, ed ascoltar mie rime,
Fate voi che di Pindo alle alte cime
Felice io giunga per l’alpestra via:
5Fate che dolce io canti, e l’aspra e ria
Sorte, e mia fiera doglia il cor non lime,
Ma ch’io colga per voi le glorie prime,
E l’alma torni al bel piacer di pria.
Me fortunata se con nobil canto
10Cinger potrò di rai, sparger d’onore,
E render degno il nome suo d’istoria!
Vegga egli poi qual puro raggio e santo
Sfavilla in me di non mortale ardore,
E legga colla mia l’alta sua gloria.
XXIX
Donna che tanto al mio bel Sol piacesti,
Che ancor de’ pregi tuoi parla sovente,
Lodando ora il bel crine ora il ridente
Tuo labbro, ed ora i saggi detti onesti:
5Dimmi, quando le voci a lui volgesti,
Tacque egli mai qual’uom che nulla sente,
O le turbate luci alteramente
(Come a me volge) a te volger vedesti?
De’ tuoi bei lumi alle due chiare faci
10Io so, ch’egli arse un tempo, e so che allora...
Ma tu declini al suol gli occhi vivaci.
Veggo il rossor che le tue guance infiora.
Parla, rispondi... Ah non risponder: taci,
Taci se mi vuoi dir ch’ei t’ama ancora.
XXX
Ombrose valli, e solitari orrori,
Vaghe pianure, e rilevati monti,
Voi da ninfe abitati e fiumi e fonti,
Che pur sentite gli amori ardori:
5Verdi arboscelli, e variati fiori,
Che al Ciel volgete l’odorate fronti,
Vi sieno i zeffiretti e lieti e pronti,
Cortese l’Alba, e April v’imperli e infiori:
Felici voi, che dal bel piè sovente
10Calcati siete o dalla bella mano
Tocchi, o dal guardo del mio Sol lucente!
Voi che già spirto un tempo aveste umano,
Voi dite a lui qual pena il mio cor sente,
Il cor che vive, ahimè, da lui lontano.
XXXI
Ovunque il passo volgo, o il guardo io giro,
Parmi pur sempre riveder l’amato
Dolce mio figlio, non col guardo usato,
Ma con quel, per cui sol piango e sospiro.
5E tuttavia mi sembra assisa in giro
Del picciol letticciuolo al destro lato,
Udir le voci, e scorger l’affannato
Fianco ond’a forza egli traea respiro.
Poc’aspro è forse il duol che diemmi morte,
10Togliendo al caro figlio i bei prim’anni
Chè vieni, o rimembranza, e ’l fai più forte?
Ma tutti almen non rinnovarmi i danni:
Ti basti rammentar l’ore sue corte,
E ad uno ad un non mi contar gli affanni.
XXXII
Amato figlio, or che la dolce vista
Sicuro affiggi nel gran Sole eterno,
Nè tema hai più di cruda state o verno,
Nè gioia provi di dolor commista:
5Vorrei che a quel pensier che sì m’attrista
Della perdita tua dessi governo:
Che quantunque dal falso il ver discerno,
Tropp’ei l’anima mia turba, e contrista.
E non vorrei pel duol, ch’ogn’alto avanza
10Essere a te men cara appresso Dio,
Poichè già non piang’io tua lieta sorte.
Piango solo la morta mia speranza
Di quà vederti e tanto è il desir mio
Che dolce e bella mi parebbe morte.
15
XXXIII5
Poichè narrò la mal sofferta offesa
Lucrezia al fido stuol ch’avea d’intorno,
E col suo sangue di bell’ira accesa
Lavò la non sua colpa e il proprio scorno:
5Sorse vendetta, e nella gran contesa
Fugò i Superbi dal regal soggiorno
E il giorno, o Roma, di sì bell’impresa
Fu di tua servitù l’ultimo giorno.
Bruto ebbe allora eccelse lodi e grate:
10Ma più si denno alla feminea gonna,
Per grand’opra inusitata e nuova:
Che il ferro acquistator di libertate
Fu la prima a snudar l’inclita donna,
Col farne in se la memorabil prova.
XXXIV
Fra cento d’alto sangue illustri e conte,
Questa onor di Liguria alma Eroina
Altera innanzi va come Reina,
Tanti rai di virtù l’ornan la fronte.
5Se poi tra ninfe non isdegna al fonte
Condur la gregia, e al prato e a la collina:
Arcadia bella come Dea l’inchina,
Ed empie del suo nome e ’l bosco e ’l monte
Or come posso, pastorella umìle,
10Cantar dell’alta donna anzi pur Diva,
Cui non ritrovo in terra altra simile?
Ah s’ella vuol che eternamente viva
Suo nome, e Battro ne risuoni e Tile,
Ella sol di se stessa e canti, e scriva.
XXXV
Ah rio velen delle create cose,
Nimica di virtute e di fortuna,
T’è forza uscir dalla spelonca bruna,
Ove il terror del sacro Eroe t’ascose.
5Mira in qual’alto penitenza ei pose
Carro di gloria: e qual grave importuna
Serie di ceppi qui per te si aduna;
Mira, e le man ti mordi abbominose.
Cinta già il collo da servil catena,
10Fra i peggior mostri per tuo rio tormento,
Avvinta al cocchio trionfal ti mena.
E dei seguirlo a passo tardo e lento,
E fissar sempre in così orribil pena
Tutt’i tuoi cento livid’occhi, e cento.
XXXVI6
Nuovo al bel Tempio suo crescendo onore,
Cresce l’antico onor della divina
Immago, cui del Ciel l’alto favore
A noi mandò nella fatal ruina.
5Ma chi ritolse il Tempio a un fosco orrore?
Chi gli diè nuova fronte e a lui vicina
Fè sorger fonte onde viè più s’onore
L’alta Città delle città Reina?
E chi richiama da un oscuro fondo
10Le sepolte memorie? E chi ’l primiero
Splendor rende al bel Tero, e ’l fa giocondo?
Chi domò il Trace? chi porrà l’Ibero
E l’Istro in calma, e darà pace al mondo?
L’alta pietà del successor di Piero.
XXVII7
Donna real che d’Imeneo la legge
Soave senti e suo poter sovrano,
Vien meco, e ascolta ciò che non in vano
Dentro i fati mia mente or vede e legge.
5Un de’ tuoi figli il Popolo corregge
Nuovo Catone e Dittator romano:
Guida l’altro nel mar con pronta mano
Di Pier la nave, e la governa e regge.
Altri premendo a tergo le nemiche
10Schiere, fa che ne morda in vano il freno
Il duro Scita, e il fero Trace indegno.
E a tal virtute le romane antiche
Opre già rese son famose meno:
Cesari e Fabi non l’abbiate a sdegno.
XXXVIII
Scrivi, mi dice un valoroso sdegno,
Che in mio cor siede armato di ragione:
Scrivi l’iniqua del tuo mal cagione,
E scuopri pur l’altrui livore indegno.
5Mi scuoto allor, qual della tromba al segno
Nobil destrier che non attenda sprone:
Ma sorge un pensier nuovo, e al cor s’oppone,
Ond’io fò di me stessa a me ritegno.
Nò, che a vil nome: e ad opre rie non voglio
10Dar vita e lascio pur che il tempo in pace
Cangi l’asprezza d’ogni mio cordoglio,
Così del vulgo rea vendetta face
Chi piena l’alma d’onorato orgoglio,
Sen passa altier sopra l’offesa, e tace.
fine del sonetti della signora faustina maratti zappi