Rivista di Scienza - Vol. II/Le misurazioni fisiche e la teoria degli errori d'osservazione

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Paolo Pizzetti

Le misurazioni fisiche e la teoria degli errori d’osservazione ../Le due leggi fondamentali della Sociologia ../Che cos’è la coscienza? IncludiIntestazione 10 febbraio 2014 100% Scienze

Le misurazioni fisiche e la teoria degli errori d’osservazione
Le due leggi fondamentali della Sociologia Che cos’è la coscienza?
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LE MISURAZIONI FISICHE

E LA TEORIA DEGLI ERRORI D’OSSERVAZIONE.




Le idee delle quali diamo qui un breve riassunto sono, almeno nella loro parte essenziale, acquisite da un pezzo al patrimonio scientifico. Nata nel secolo XVII, o forse prima, la teorica degli errori d’osservazione ebbe il suo completo sviluppo tra il finire del secolo XVIII e il principiare del successivo. Al pari di molte delle teorie di vario genere che si svilupparono in quella era famosa, essa ha, almeno nei suoi principii informativi, stretta parentela colla filosofia generale; è un ramo di logica nel quale le deduzioni hanno forma matematica, e il valore o il grado di sicurezza delle conclusioni si esprimono in forma numerica.

Per questa sua parentela cogli studi filosofici, quella teoria, se pure non le si voglia concedere un’azione diretta sul progredire delle indagini fisiche e naturali (poichè le regole scritte del ben ragionare sono generalmente superflue per gli ingegni ben adatti alla ricerca induttiva, e riescono vane per tutti gli altri) può tuttavia contribuire, come ogni sana filosofia, alla formazione della coscienza scientifica, di quell’insieme di doti intellettuali e morali, per le quali gli uomini sono animati e guidati nell’estendere il campo delle conoscenze naturali.

Ma di più, veramente, può dirsi che, in alcuni rami almeno delle scienze di osservazione, questa teoria, per concorde testimonianza dei fatti, ha contribuito a raffinare ed assicurare i risultati delle ricerche, formando quasi un sussidio ideale ai sensi dell’osservatore e agli stromenti da lui impiegati.

Non si può negare che, subendo la stessa sorte di altre dottrine sue contemporanee, la teoria degli errori di osservazioni [p. 2 modifica]ha ora perduto alquanto della integrità di contorni e della semplicità schematica primitive, sotto l’azione dello spirito critico dei nostri tempi. Ma ciò non ostante essa è così intimamente legata coi principii delle ricerche d’osservazione e sperimentali, che non può essere trascurata, nè come elemento di coltura generale, nè come metodo di sintesi speciale.

Vale la pena di occuparsene, anche quando fosse soltanto per farne la critica e per ridurne il campo d’applicazione.


I.


Le scienze d’osservazione e di esperimento giunte a un certo grado di sviluppo hanno il loro essenziale fondamento nella ricerca di valori numerici delle grandezze naturali. Ma quei numeri non hanno, com’è ovvio, un valore assoluto. Non solo in causa della imperfezione degli stromenti che servono alle misure, della debolezza dei sensi dell’osservatore e delle tante cause esterne di errore, ma anche per la difficolta di una esatta definizione della grandezza da misurare, i numeri osservati hanno un valore soltanto relativo. Prendiamo gli esempii più semplici. Qual’è la definizione della vera lunghezza di un’asta metallica parallepipeda (metro a testate) quando si pensi alla inevitabile irregolarità delle faccie e degli spigoli terminali che non realizzano mai le forme geometriche astratte? Qual’è l’istante del passaggio di una stella attraverso un filo del reticolo di un canocchiale astronomico, se si tien conto della compagine irregolare del filo e dei piccoli spostamenti che il reticolo stesso può subire? Qual’è il vero rapporto fra due masse, quando si pensi alle alterazioni chimiche che, teoricamente, i corpi possono di continuo subire per effetto degli agenti atmosferici? Ancor più vaga diventa la definizione del vero valore di una quantità fisica, quando questa definizione involge l’ammissione di una legge fisica, quando si tratti p. es. di un coefficiente di dilatazione, di una resistenza elettrica, di un indice di refrazione e simili.

Ma la impossibilità di una definizione a priori del vero valore non ha mai distolto il fisico dal comparare fra loro due prototipi lineari, l’astronomo dal regolare l’orologio o dal determinare le longitudini, il chimico dal fare determinazioni quantitative; e la ragione è ovviamente questa: che alla definizione teorica o aprioristica di una grandezza fisica vien [p. 3 modifica]sostituita una definizione sperimentale: la media dei risultati di un certo numero di misure. Quando il fisico misurando oggi e poi domani e poi un altro giorno, e così via, la differenza di lunghezza di due prototipi lineari, e ogni volta non contentandosi di una sola osservazione ma di parecchie, per guarentirsi dalle cause momentanee ed accidentali di errore trova nei varii giorni delle medie costanti (o differenti per quantità trascurabili), egli assume quella media come misura della vera differenza dei due prototipi. Quando due astronomi in due luoghi differenti paragonando fra loro, in tante serate successive, i passaggi di stelle pei rispettivi meridiani, trovano per le varie notti una differenza media sensibilmente costante fra le indicazioni dei loro orologi, questa differenza, corretta, s’intende, dall’effetto di cause note di errore, si assume come misura della differenza di longitudine.

Una tale definizione empirica delle grandezze fisiche è senza dubbio convenzionale. Il ripetere le misurazioni in circostanze identiche porta in generale a valore medii fissi, in quanto che le piccole e variabili cause di variazione tendono, nelle medie, ad elidersi mutuamente; ma niuno ci assicura che il nostro metodo d’osservazione non porti in sè qualche difetto ignorato e introduca costantemente nei numeri osservati qualche cosa che non appartiene all’oggetto misurato, e che in avvenire nuovi metodi, nuovi istrumenti, nuove nozioni teoriche non ci possano condurre, in modo concorde e costante, a valori fissi differenti da quelli che oggi ci sembrano tali, e che, in mancanza di meglio, riguardiamo come valori veri.


II.


Gli studï statistici sono stati più volte oggetto di acerbe censure; talune vaghe e generali mosse da spiriti impazienti di ogni ricerca numerica, altre più precise rivolte contro le conclusioni affrettate di osservatori superficiali. Ma, se l’abuso e l’imprudenza vanno giustamente criticate, le accuse generali contro la statistica non hanno senso: tanto varrebbe negare il valore delle scienze di osservazione in generale. Possiamo dire anzi che i procedimenti logici che elaborano i dati delle osservazioni e degli esperimenti fisici non sono che ricerche statistiche, in un senso estremamente generalizzato della parola, se riflettiamo che la definizione sperimentale, di cui testè si [p. 4 modifica]è detto, richiede per la effettiva determinazione di ogni grandezza fisica, un certo numero di osservazioni ripetute. La discussione di un materiale più o meno abbondante di osservazioni, lo studio di trarne dei valori medii, di indagare se questi valori medii si mantengano o no costanti nello spazio e nel tempo, e di dedurre, per quant’è possibile, delle leggi, tutto ciò è proprio, vuoi delle ordinarie scienze d’osservazione, vuoi della statistica p. d. In quelle il problema sembra più ben determinato che in questa, in quanto che gli enti o i rapporti da misurare hanno una rappresentazione astratta relativamente semplice, e, sovratutto, in quanto il numero delle osservazioni occorrenti per avvicinarsi ad una media fissa è relativamente piccolo.

In realtà, studiosi in campi differenti hanno idee diversissime intorno a questo numero. Per lo statistico l’esame di un migliaio di casi sarà, il più delle volte, insufficiente; pel fisico dieci misurazioni ripetute di una stessa grandezza saranno generalmente sovrabbondanti di numero. In certi generi di studï sperimentali l’osservatore non ha neppure l'idea che occorra o giovi ripetere l’osservazione per calcolare una media che si avvicini al vero più che ogni singolo risultato. Ha egli forse fiducia nella infallibilità delle proprie misurazioni? No davvero: ma si tratta allora di ricerche sperimentali, in cui quel che si chiama errore sistematico, che è inerente al metodo, agli strumenti impiegati e che non tende a scomparire con una conveniente ripetizione delle misure, ha tanta importanza di fronte all’errore accidentale, che sembra assolutamente inutile il cercare di eliminare questo col ripetere le misure in condizioni identiche, e piuttosto si cerca di liberarsi dai difetti sistematici col cambiare addirittura istrumenti, metodi e, se occorre, principii teorici nella ricerca.

Passando adunque dalle ricerche statistiche alle osservazioni astronomiche, alle fisiche in generale, noi abbiamo, in grado molto differente, il bisogno di iterare, in circostanze identiche, le osservazioni. Ma è questione, ormai può dirsi, soltanto di gradazione, giacchè anche in scienze di solidissima reputazione, quale è l’astronomia, taluni fatti hanno una definizione materiale così poco semplice, che soltanto l’esame di un grandissimo numero di casi può condurre a qualche conclusione. Tali sono p. es. la ricerca dell’apice solare (direzione verso la quale avviene il moto del sistema solare nello [p. 5 modifica]spazio), le indagini sul modo di distribuzione delle stelle nello spazio, e simili.


III.


Noi chiamiamo, per semplicità, (come si suole nella teoria matematica degli errori) osservazione un numero dedotto dall’osservazione o dall’esperimento, portati, quella o questo, sopra un ente naturale: esempï: la lunghezza d’una linea materiale data da un comparatore, l’altezza di un astro sull’orizzonte letta sul cerchio di un circolo zenitale, la differenza piccolissima di due pesi indicata dallo stilo di una bilancia, la deviazione di un amperometro, un tempo di reazione nervosa, la statura di un uomo, il numero percentuale di analfabeti di una regione.

Per conquistare una posizione solida o relativamente stabile nel campo delle conoscenze naturali, vogliam dire per fissare dei valori e per mezzo di questi delle probabili leggi fisiche, noi abbiamo a nostra disposizione l’esercito delle osservazioni. Esercito di ben differente costituzione nei varii casi, a partire dall’orda rozza, incosciente, indisciplinata alla quale solo il numero strabocchevole, può dar la vittoria, fino al piccolo nucleo di valorosi, concordi nell’azione, rotti a tutte le arti della guerra, forti nell’anima e nel corpo. Noi supponiamo, per ora, che l’esercito sia omogeneo; questo non vuol dire che i varii soldati siano stati, uno ad uno, esaminati e riconosciuti di eguale attitudine e valore, cosa impossibile; ma semplicemente che la coscrizione sia fatta in uno stesso paese e in una stessa epoca, che non vi sia, insomma, commistione di due o più classi di valore presumibilmente diverso.

Per uscire di metafora, noi supporremo di avere a nostra disposizione una classe di osservazioni che, a priori, possano ritenersi di egual precisione, e per questo basta che siano eseguite dalla stessa persona o da persone di eguale perizia, collo stesso istrumento o con istrumenti di egual pregio, in circostanze non sistematicamente diverse; in modo che non vi sia una ragione preventiva per prestar maggior fede all’uno che all’altro dei risultati delle singole osservazioni.


IV.


In una classe di osservazioni così fatte noi, innanzi tutto, necessariamente ammettiamo escluse le ragioni o cause [p. 6 modifica]sistematiche o regolari di errore, delle quali le più ovvie (ma non le sole) sono i difetti sensibili degli strumenti impiegati, come p. es. lo spostamento dello zero di un termometro, l’eccentricità di un cerchio graduato, l’ineguaglianza dei bracci di una bilancia, e simili; imperfezioni le quali debbono supporsi o senz’altro corrette, ovvero paralizzate negli effetti loro con opportuni artifizii. Questa ipotesi che siano eliminate le cause sistematiche d’errore è evidentemente implicita nella definizione sperimentale delle grandezze fisiche di cui si è detto innanzi.

Eliminate queste cause isolate e regolari, resta tuttavia una selva di piccole cause d’errore delle quali, pel loro numero, pel loro agire saltuario, per la loro stessa tenuità, ci sfugge assolutamente la valutazione teorica. Sono queste che generano, tutte insieme, il così detto errore accidentale, e che potrebbe anche chiamarsi inevitabile, delle osservazioni.

Appunto perchè accidentali, tali errori, non valutabili ognuno per sè, sono soggetti, quando se ne consideri un gran numero, alle leggi della probabilità. Minute ricerche matematiche, delle quali non occorre dare neppure i principii, conducono a valutare la probabilità che l’errore di una osservazione cada entro determinati limiti di grandezza, quando si ammettano questi due postulati: 1° che l’errore sia il prodotto di un grandissimo numero (infinito per comodità di calcolo) di cause indipendenti; 2° che nella media di un gran numero di osservazioni gli errori tendano a compensarsi.

L’esperienza soccorre qui confermando le previsioni teoriche. Quando abbiamo un gran numero di osservazioni (della stessa classe) ossia risultati delle misurazioni ripetute di una stessa quantità, naturalmente fra loro discordanti per effetto degli errori accidentali, le differenze fra tali risultati e la loro media aritmetica possono sensibilmente ritenersi eguali agli errori commessi nelle varie misure. Or bene, tali errori presi nel loro complesso, obbediscono a leggi ben evidenti; prima di tutto gli errori positivi sono in numero pressochè eguale a quello dei negativi (e ciò è ben naturale trattandosi di differenze dalla media); di più gli errori grossi si presentano più raramente che i piccoli, o, per essere più precisi, se si fa una classificazione statistica degli errori per categorie di grandezze equidifferenti, si trova nelle varie categorie, andando da quella di più basso a quella di più alto valore, [p. 7 modifica]numeri sempre più piccoli di errori. E questo ineguale addensamento degli errori secondo le varie loro grandezze corrisponde generalmente bene alla previsione teorica di cui si è detto in base al calcolo delle probabilità. La formola teorica di probabilità che regola la distribuzione del numero degli errori per categorie di grandezze si chiama: legge di frequenza degli errori. Gli esempii di verificazione empirica di questa legge sono comuni e ben noti da gran tempo sia nel campo delle scienze fisiche ed astronomiche, sia in quello delle ricerche statistiche.


V.


Ma i calcoli teorici e le verificazioni sperimentali sul modo di distribuzione degli errori non soddisfarebbero ad altro che ad una curiosità, se non fornissero insieme un elemento prezioso. La legge di frequenza testè definita contiene in sè un numero (o, come si dice dai matematici, un parametro) il quale può essere dedotto a posteriori dall’esame di un buon numero di osservazioni della stessa classe, e che è tanto più grande quanto più strettamente sono addensati i singoli risultati intorno alla media. Questo numero è la mensura praecisionis di Gauss. È, possiamo dire tornando per un momento alla immagine testè usata, una specie di attestazione del grado di valore della compagnia di soldati alla quale abbiamo paragonata la classe di osservazioni. Una quantità inversamente proporzionale al numero ora detto, e che è tanto più grande quanto più largamente oscillano i risultati singoli al di qua e al di là della media, si chiama l’errore medio temibile, oppure dagli statistici, indice di dispersione. Noi useremo promiscuamente l’una o l’altra delle due espressioni; più frequentemente la seconda, perchè la prima rende meno chiaro il discorso ai lettori non pratici di questi argomenti.

Dato che sia questo indice per una classe di osservazioni, il calcolo delle probabilità ci insegna a risolvere interessanti problemi, come p. es. a valutare: 1° la probabilità che la differenza fra i risultati di due osservazioni della stessa classe sia superiore a un certo limite; 2° la probabilità che la media aritmetica di un certo numero di osservazioni differisca dal vero valore non più di una certa quantità; e simili. Così, p. es. vi ha la probabilità di 84 % che la differenza fra due [p. 8 modifica]osservazioni non superi il doppio dell’indice; vi ha 995‰ di probabilità che essa non superi il quadruplo; vi ha il 97% di probabilità che la media di 20 osservazioni non differisca dal vero valore di più che metà dell’indice, ecc.

La conoscenza dell’error medio, o indice di dispersione ci dà dunque una misura del grado di fiducia che noi possiamo riporre nei risultati delle osservazioni. E in molti casi questa misura ha una importanza essenziale per la natura delle conclusioni cui un dato studio può condurre. Citiamo un paio d’esempï:

1° Una ventina d’anni fa si tendeva ad ammettere, in base ai risultati delle livellazioni Italiane e Francesi, che fra il Mediterraneo e il Mar del Nord vi fosse una differenza di livello. Questo fatto turbava l’ipotesi tanto naturale che i mari appartengano ad una unica superficie di livello. La trattazione complessiva (o, come si dice in termine tecnico, la compensazione) delle livellazioni principali dell’Europa Centrale, ha posto i geodeti in grado di computare gli indici di dispersione delle differenze di livello ottenute fra i vari mareografi. E si è visto che questi indici sono abbastanza grandi perchè quelle differenze possano, senza alcuna difficoltà, attribuirsi ad errori d’osservazione. La ipotesi del livello unico non è dunque, per ora, contraddetta dai dati delle livellazioni.
2° Due astronomi osservando, dieci volte ciascuno, passaggi di stelle al meridiano trovano fra i tempi da loro osservati una differenza media di 0s,17; l’error medio di ciascuno degli osservatori è d’altra parte 0s,085. La probabilità di quella discordanza risulta minore di un centomillesimo; una tale discordanza non può dunque ritenersi come un fatto accidentale: essa rappresenta quel fenomeno regolare che va sotto il nome di equazione personale dei due osservatori.

Più generalmente: il valore di una grandezza fisica determinato oggi dalla media di 10 osservazioni differisce dalla media di 10 osservazioni eseguite ieri, e la differenza supera, poniamo, il doppio dell’indice di ciascuna serie. La probabilità a priori di questo fatto è minore di un centomillesimo; esso può praticamente riguardarsi come impossibile. Che cosa concludiamo da ciò? Che le misurazioni fatte oggi e quelle fatte ieri non si riferiscono ad una stessa grandezza fisica; che questa che noi ritenevamo suscettibile di definizione sperimentale è invece continuamente variabile, ovvero che una [p. 9 modifica]causa sconosciuta ha da ieri ad oggi alterato l’oggetto dello nostre misure, o finalmente che una ragione sistematica di errore si è, a nostra insaputa, insinuata nel nostro metodo di misura.

Questi che possiam dire risultati negativi dalla teoria che ci occupa hanno non piccola importanza: su di essi torneremo più innanzi. Qui intanto notiamo come dalla conoscenza dell’errore medio di un dato genere di misure fisiche posse dipendere il valore di taluni concetti teorici: quello fra gli altri, delle unità di misura di cui si fa uso.

È notissimo come la Commissione Francese nominata in base al voto dell’Assemblea Nazionale nel 1790 proponesse, e il Corpo Legislativo, in base ai risultati delle operazioni geodetiche Franco-Ispane, adottasse nel 1799 l’unità di misura lineare come quarantamilionesima parte del meridiano terrestre. Questa definizione supponeva che la superficie di livello terrestre potesse sensibilmente identificarsi con una superficie di rotazione, in modo che tutti i meridiani fossero di eguale lunghezza. Ora le determinazioni geodetiche e astronomiche eseguite nelle varie parti del globo hanno posto in evidenza come quella superficie si scosti in modo non trascurabile da una di rotazione, e la conoscenza degli errori medii delle misure ha dato la possibilità di affermare che quegli scostamenti sono reali, ossia non spiegabili cogli errori proprï delle misure medesime. La definizione naturale del metro data dalla Commissione Francese non è dunque più possibile al dì d’oggi.

Vale la pena di ricordare qui di passata come la ricordata definizione differisca da quella che era stata suggerita dal Ministro Talleyrand (che fu in realtà il promotore ufficiale della grande riforma metrica). Questi ispirandosi all’idea di Picard (1670), Lacondamine (1743) e d’altri, proponeva all’Assemblea Francese (marzo 1790) che l’unità di misura lineare dovesse essere la lunghezza del pendolo che batte il secondo di tempio medio in un dato luogo della Terra. La Commissione Francese giustamente temette le difficoltà che presenta la misura assoluta della durata di oscillazione di un pendolo; ma bisogna dire che la definizione proposta da Talleyrand gode forse di maggior solidità dell’altra che fu in suo luogo adottata, giacchè quella sussiste invariata finchè non varia la unità di misura del tempo (il secondo di tempo medio). È ben vero che la probabile variazione secolare della [p. 10 modifica]rotazione diurna della Terra, e la non uniformità della precessione generale degli equinozii alterano anche l’unità di tempo, ma per un grandissimo numero d’anni queste alterazioni possono considerarsi come trascurabili, mentre non lo sono le differenze di lunghezza dei varii meridiani. Ma ritorniamo al nostro argomento.


VI.


Una serie abbastanza numerosa di osservazioni ci può fornire, lo abbiamo già detto, l’indice di dispersione o l’error medio che compete ad uno strumento o ad un metodo non prima usato. E questo indice, una volta determinato, può considerarsi poi come fisso, o sensibilmente fisso, per tutto il successivo uso che si farà dello istrumento o del metodo, semprechè, s’intende, nelle mani di un abile osservatore. La espressione è meno vaga di quello che può parere. Vi hanno persone (la cosa è notissima) le quali, per quanto dotate di intelligenza e buona volontà, non diventano mai buoni osservatori. Qualche volta i sensi, in ispecie la vista, son difettosi; più spesso le mani sono male adatte al maneggio di delicati apparecchi; vi hanno mani sgraziate che urtano, storcono, imbrattano tutto ciò che toccano. Anche talvolta fanno difetto certe qualità psichiche, come quella memoria delle cose che ci fa ricordare le minute cautele difficilmente traducibili in regole scritte, ma essenziali per la buona riuscita degli esperimenti. Più spesso mancano altre qualità morali, la pazienza, la calma, la indipendenza di spirito e vi sono invece l’entusiasmo frettoloso e il preconcetto. Ravvolti nella nube dei loro grandi o piccoli pensieri, taluni studiosi si creano un mondo convenzionale che impedisce loro di vedere il reale mondo esteriore. A questi seguaci, o mal destri, o impazienti o non abbastanza devoti, la natura orgogliosa non isvela i suoi segreti.

Quando si eccettuino, da una parte, queste persone che non hanno alcuna attitudine alle ricerche materiali, e d’altra parte poche persone dotate di una eccezionale finezza di sensi, si può dire che tutti i non principianti sono egualmente abili osservatori.

Quando uno strumento o un metodo di misura fondato sopra un principio nuovo viene introdotto nella pratica, la [p. 11 modifica]ricerca sul grado di precisione esige speciale attenzione. Parliamo, a cagion d’esempio della novissima applicazione della telegrafia senza fili alla misura delle differenze di longitudine. È ben noto come, al dì d’oggi, si misuri la differenza di longitudine fra due luoghi A e B, la quale non è altro che la differenza dei tempi segnati, in uno stesso istante fisico, da due orologi regolati l’uno sul meridiano di A, l’altro su quello di B. Per mezzo dell’ordinaria telegrafia, una serie di segnali è inviata sia ad un apparecchio registratore del tempo (cronografo) collegato elettricamente coll’orologio di A, sia all’analogo apparecchio in B. Il paragone delle indicazioni dei due cronografi dà senz’altro la cercata differenza, quando, ben inteso, i due orologi siano esattamente regolati, quando si siano usati gli artifizii atti a garantire che i due istrumenti rispondano con eguale prontezza, quando finalmente, collo scambiare gli operatori nei due luoghi, si sia eliminato l’effetto di quella equazione personale cui abbiamo accennato poco innanzi.

Si è ora a cercato di fare l’analoga operazione per mezzo della radiotelegrafia1. In ciascuno dei due luoghi A e B si supponga collocata un’antenna atta ad influenzare nel modo ben conosciuto, un radioconduttore (coherer) incluso in un circuito elettrico. Un soccorritore (relais) posto su questo circuito chiude, ogni qualvolta l’antenna sia colpita da onde elettriche, un secondo circuito che va ad un cronografo e produce su questo il tracciamento di un segnale.

Ora si presentava la domanda. Questo nuovo organo, il coherer, è egli atto a funzionare come apparecchio di precisione? I fisici hanno tutte le ragioni di ritenere che attraverso al coherer l’effetto delle onde si trasmetta colla velocità della luce. Ma d’altra parte è da osservare che la inerzia degli apparecchi di questo genere ha sempre una influenza non trascurabile nella durata delle trasmissioni elettriche; ne sia prova il fatto che nelle determinazioni di longitudine già tante volte eseguite colla ordinaria telegrafia, il tempo occorrente per la trasmissione dei segnali è, per quanto piccolo, generalmente molto superiore a quello che competerebbe alla velocità di trasmissione della corrente; e la differenza è appunto dovuta alla inerzia degli apparecchi.

[p. 12 modifica]Si poteva dunque pensare che una tal sorta d’inerzia presentassero i circuiti col coherer, e che il ritardo risultasse notevolmente variabile da una volta all’altra in guisa da togliere alla trasmissione dei segnali quel grado di precisione che è proprio della ordinaria telegrafia. Ed anche si poteva dubitare che la prontezza dell’apparato dipendesse dalla maggiore o minore energia delle onde elettriche inviate dal sistema eccitatore. Per risolvere tali dubbï l’Istituto Geodetico Prussiano ha fatto uno studio preliminare in questa guisa. Collocata nella stazione astronomica di Potsdam una antenna, a questa furono subordinati due circuiti, ciascuno munito di coherer e di relais, ed atto ad inviare al cronografo un segnale, ogni qualvolta l’antenna fosse colpita da onde elettriche. Così ad ogni segnale inviato dall’apparecchio eccitatore2 corrispondevano sul cronografo di Potsdam due indicazioni dovute ai due circuiti ora detti. La differenza di tempo fra queste due indicazioni doveva o rimanere costante o variare entro limiti piccolissimi, affinchè il sistema di trasmissione potesse considerarsi come dotato di alta precisione. Ora ripetute esperienze eseguite con cinque differenti coppie di coherer e variando per tre gradi differenti l’energia delle onde elettriche, han dato un error medio di quattro millesimi di secondo, in media. E poichè questo è notevolmente inferiore all’error medio accidentale delle differenze di longitudine fin qui eseguite, si potè così ritenere che il sistema radio-conduttore presenta, per lo scopo di cui si tratta, una sufficiente precisione. Le operazioni successivamente eseguite per misurare la differenza di longitudine fra Potsdam e il Brocken (i due punti distano rispettivamente di 32 e di 183 km. dalla sede dell’apparecchio eccitatore), operazioni nelle quali si usò alternamente l’ordinaria telegrafia e quella senza fili, confermarono questa conclusione; sicchè ora si può ritenere che la radiotelegrafia può, all’occorrenza, sostituire, senza scapito di precisione, quella ordinaria nella misura delle longitudini, o generalmente nelle segnalazioni cronometriche. Quanto questo risultato sia importante, anche per la possibilità di inviare da un osservatorio astronomico l’ora esatta alle navi in alto mare, ognuno comprende.

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VII.


Non soltanto i numeri ottenuti misurando direttamente una quantità fisica (o come brevemente si dice: le osservazione dirette) sono soggetti ad inevitabili errori: ma quelli ancora che con determinate regole si valutano col sussidio di numeri osservati. Così p. es., quando sia nota la lunghezza alla temperatura 0° e il coefficiente di dilatazione lineare di una asta metallica, la valutazione della lunghezza di essa ad un certo istante è di tanto più incerta quanto meno esatta è la misura della temperatura; la latitudine astronomica di un luogo determinata misurando altezze di astri sull’orizzonte riesce influenzata dagli errori che affettano la misura delle altezze medesime e da quello dell’orologio che segna gli istanti delle osservazioni; nella riduzione al vuoto del peso di una sostanza influiscono gli errori commessi nel valutare la pressione e le temperatura dell’aria; e così via.

L’opportuna analisi matematica dimostra come, sotto certe riserve, dati che siano gli indici di dispersione dei numeri osservati, si possa calcolare l’indice di un altro numero il quale dipende in un modo determinato dai primi, o, come si dice, di una funzione assegnata delle osservazioni. Citiamo esempï fra i più semplici: la lunghezza di una linea ottenuta (come di solito si fa) riportando tante volte un’asta di lunghezza nota, ha un error medio o indice che cresce proporzionalmente alla radice quadrata della lunghezza totale; se il volume di un gas a temperatura costante è valutato misurando la pressione cui esso è soggetto, l’error medio del risultato è inversamente proporzionale al quadrato della stessa pressione.

Come si comprende, calcoli cosifatti hanno un’infinità di applicazioni interessanti. Ma vogliamo qui solo accennare a quella generale applicazione che va sotto il nome di combinazione più vantaggiosa delle osservazioni. Della quale il caso più semplice è il seguente. Una grandezza fisica è stata direttamente e ripetutamente misurata, ottenendosi, nella varie misure, dei numeri fra loro discordanti per effetto degli errori accidentali; qual’è il valore che più conviene di attribuire alla grandezza osservata? Questo valore è ragionevole ammettere che si abbia a calcolare facendovi contribuire tutti i numeri osservati; differenti modi di calcolo ci condurranno a [p. 14 modifica] risultati che avranno indici di dispersione differenti. Più conveniente di tutti sarà quel modo di calcolo che conduce al minimo indice, ossia alla massima precisione. Si ottiene così, ammessi due postulati3 che non c’è alcuna difficoltà a concedere, che il valore più conveniente è la media aritmetica dei singoli valori osservati, se questi sono forniti da osservazioni di egual precisione. Che se le singole osservazioni fossero di precisione differente, allora esse debbono entrare in calcolo con differente importanza; di due osservazioni delle quali la prima abbia l’indice uguale a 1, l’altra l’indice 2, quella deve contare per quattro la seconda per uno. In generale nella formazione della media, ogni osservazione deve essere moltiplicata per un coefficiente (peso) inversamente proporzionale al quadrato del proprio error medio o indice.

Il più delle volte il problema si presenta sotto forma meno semplice; i numeri ottenuti dalle misurazioni non si riferiscono direttamente alle grandezze fisiche che si cercano, ma ad altre grandezze che hanno un legame aritmetico conosciuto con quelle. È questo il caso delle così dette determinazioni indirette. Così quando si vogliono determinare i coefficienti della formula di dilatazione cubica del mercurio, non già questi coefficienti sono direttamente misurati, ma bensì i volumi assunti da una data massa di mercurio a differenti temperature; quando si cerca l’indice di refrazione relativo di una sostanza trasparente, i numeri osservati non sono già valori dell’indice stesso, ma bensì si riferiscono alle deviazioni subìte da certe immagini, e così via.

In questi e nei casi analoghi, si hanno a dedurre le incognite del problema col combinare opportunamente certe equazioni che legano le incognite stesse coi numeri osservati, e la combinazione dev’essere fatta in guisa da fornire, per le incognite, i valori più precisi che è possibile, ossia col minimo error medio. Si arriva allora (con operazioni analitiche più complicate, ma in base a principii altrettanto semplici quanto nel caso sopra detto delle osservazioni dirette) al così detto metodo dei minimi quadrati, del quale non occorre qui discorrere più oltre.

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VIII.


Diciamo piuttosto di una importante applicazione di quel metodo.

Due o più grandezze fisiche variano insieme, o con relazione evidente di causa ad effetto, oppure per semplice concomitanza, la cui ragione materiale non sia evidente a priori. Nell'un caso e nell’altro interessa avere la relazione matematica, ossia la formula, che lega il modo di variare dell’una grandezza con quello dell’altra, (o delle altre) in guisa da render possibile il prevedere il valor numerico che quelli assumerà quando questa (o queste) prenderà un valore determinato. Può talvolta essere nota a priori, per ragioni teoriche, questa relazione matematica; più spesso essa non è conosciuta, e partendo, per tentativi, da formole ipotetiche semplici, si vuol cercare se qualcuna di queste si adatti bene ad esprimere quel fenomeno di variazione simultanea.

Osserviamo di passata, che molte volte la conoscenza aprioristica di una formola è più apparente che reale. Spesso si ammette, p. es., come evidente che la variazione di una grandezza sia proporzionale a quella di un’altra e si adotta in conseguenza la così detta formola lineare; mentre in realtà questa non è, il più delle volte, che una semplificazione arbitraria che vale soltanto per un ristretto campo di variabilità. Spesso anche la formola teorica, pur essendo dedotta con grande acume d’analisi matematica, ha il suo fondamento in postulati così arbitrarï da renderla altrettanto incerta quanto una formula empirica4.

Comunque sia, tali formole contengono in sè dei parametri o coefficienti incogniti che coll’esperienza si possono (indirettamente) determinare osservando quali valori [p. 16 modifica]successivamente assuma una delle grandezze considerate in corrispondenza a valori determinati e diversi dell’altra (o delle altre). È questo un caso di deteterminazione indiretta di cui alla fine del precedente paragrafo. Uno degli esempï più notevoli di tal sorta di calcoli è la così detta analisi armonica.

Vi sono moltissimi fenomeni fisici che presentano un modo di variare periodico, pel quale, partendosi in un dato istante di tempo5 da un certo stato di cose, le condizioni vanno poi variando fino ad un certo grado per retrocedere poi fino a ritornare allo stato primitivo; dopo di che questo modo di variazione si ripete continuamente con egual legge e in eguali intervalli di tempo. Questa variabilità periodica può essere semplice, com’è p. es. l’oscillazione di un pendolo intorno alla sua posizione d’equilibrio (nel caso di oscillazioni di piccolissima ampiezza), oppure, più esattamente, il caso teorico della vibrazione rettilinea di una molecola corporea da una parte e dall’altra di un punto verso il quale essa sia attratta con una forza proporzionale alla distanza. Si ha allora la variazione armonica semplice. Ma più spesso i moti periodici sono più complicati, come la vibrazione della corda sonora, la quale può idealmente concepirsi come risultante dal sovrapporsi di un grandissimo numero di oscillazioni semplici a quella pur semplice e fondamentale dalla quale dipende l’altezza del suono. Una ideale decomposizione di questo genere può farsi nel caso di qualsiasi moto periodico complicato, considerando lo stato del sistema variabile di cui si tratta, in un dato istante, come il risultante di quelli che singolarmente si avrebbero, se esso fosse soggetto all’una o all’altra di tante variazioni armoniche semplici. Matematicamente ciò equivale ad esprimere la legge di variazione del sistema con una formula contenente tanti termini periodici, ciascuno dei quali rappresenti una di tali variazioni semplici.

Un esempio classico si ha nel caso della oscillazione del livello marino in una data costa; qui la sovrapposizione di tanti diversi moti oscillatorï ha una ragione teorica nel modo di variare delle posizioni che hanno rispetto alla Terra i due astri perturbatori dell’oceano, il Sole e la Luna; ad ognuno degli [p. 17 modifica] elementi geometrici6 da cui queste posizioni dipendono, corrisponde un termine nella formola della marea.

Ogni termine di una formola periodica contiene un coefficiente incognito; la determinazione di tali coefficienti è fondamentale per questa così detta analisi armonica dei fenomeni periodici, ed è una delle più belle applicazioni del metodo dei minimi quadrati. Il carattere generale di questo scritto non ci permette di porre in luce le ragioni matematiche che danno a questa specie di calcolo una particolare eleganza ed importanza di risultati.


IX.


Qualunque sia il problema che la teorica degli errori ci insegni a trattare, essa conduce alla fine a porre in evidenza quelli che possiamo chiamare residui, ossia differenze o scostamenti fra i dati dell’osservazione e quelli della teoria. Nel caso semplice della diretta misurazione di una grandezza fisica, questi residui sono le differenze o scostamenti fra i numeri ottenuti nelle singole prove e la loro media; nel caso della ricerca dei coefficienti d’una formola, di cui al paragrafo precedente, sono le differenze fra i valori misurati di una delle grandezze fisiche considerate e i valori di essa calcolati colla formola alla quale si è pervenuti.

La teoria della combinazione delle osservazioni procede nella ipotesi che gli errori siano puramente accidentali. Già più sopra (paragrafo V) si è detto come, in taluni casi, una tale ipotesi venga smentita dalla grandezza dell’indice di dispersione. L’esame dei residui può in modo più deciso trarci a conclusioni analoghe. Se, nel caso della diretta misurazione di una grandezza fisica, la definizione sperimentale di questa, nel senso detto da principio, è veramente possibile; se, nel caso della determinazione indiretta dei parametri di una formola, questa formola è veramente atta a rappresentare il fenomeno studiato; se di più, in entrambi i casi, non vi hanno nel metodo di misura seguìto cause sistematiche di errore, i residui dovranno avere il carattere di fenomeno del tutto accidentale, e questo carattere non dovranno perdere comunque [p. 18 modifica]essi si vengano ordinando vuoi rispetto al tempo, vuoi rispetto ad altra variabile fisica. Ogni qualvolta i residui, ordinati p. es. rispetto al tempo, presentano un andamento regolare o quasiregolare, vi sarà ragione di credere che una causa variabile col tempo e della quale non si è tenuto conto, ha influito sul manifestarsi del fenomeno.

Si ha un buon numero di criterï matematici, per giudicare se, o no, un complesso di residui presenti i caratteri dell’accidentalità. Vi ha naturalmente nel giudizio molto di arbitrario, ma vi sono casi in cui l’evidenza della conclusione si impone. Senza entrare nei dettagli tecnici e nell’analisi dei criterî ora accennati, ci contenteremo di un esempio.

Le misurazioni di latitudine fatte a Carloforte in Sardegna nel periodo di tempo 1902-904 riunite in 36 medie presentano un modo di variazione abbastanza regolare, perchè si abbia ragione di sospettare che quell’elemento astronomico sia effettivamente variabile col tempo. Per dare una misura matematica del valore di questa presunzione, possiamo ragionare così. Se vi ha variazione col tempo, le differenze fra due medie consecutive saranno di pochissimo affetto da una cotale influenza e quindi l’indice di dispersione calcolato per mezzo delle differenze stesse poco o nulla risentirà di quella variazione, ma esprimerà abbastanza fedelmente la semplice azione degli errori accidentali. Orbene: calcolando in questo modo, si ottiene un indice di 0",044. D’altra parte fra la più grande e la più piccola delle 36 medie considerate si ha una differenza di 0",41. Quando si consideri quel complesso di 36 valori come accidentalmente oscillanti intorno ad un valor fisso, la probabilità della osservata differenza (0,41) è minore di un diecibilionesimo; il che è quanto dire che si può scommettere uno contro dieci mila milioni che le osservate oscillazioni nei valori della latitudine dipendono, almeno in parte, da una regolare variazione di questo elemento col tempo.

Pertanto la teorica degli errori, mentre ci insegna a trarre dal lavoro di osservazione i più sicuri risultati che è possibile e a giudicare del grado di fiducia che in questi si può riporre, compie pure un altro ufficio il quale quasi direi che col progredire degli studi sperimentali superi l’importanza degli altri due; quello di insegnare, in molti casi, che qualche cosa che si supponeva irreale, ossia dovuto soltanto a difetto dei nostri sensi e dei nostri mezzi d’osservazione, è invece reale qualità [p. 19 modifica] della cosa misurata; che quello che supponiamo accidentale è invece sistematico ed ha in sè la traccia di una legge fisica non prima conosciuta.

Può dirsi che sotto questo punto di vista la teoria degli errori tenda, in ogni particolar problema nel quale si vadano raffinando i mezzi di indagine, a spogliarsi di quello che forma l’essenza sua, il concetto dell’accidentalità e a scemarne vieppiù il campo d’azione per dar luogo alla invenzione e allo studio delle variazioni sistematiche. In questo studio minuto, ma fecondo, dei residui o delle contraddizioni fra quello che teoricamente si supponeva e ciò che l’osservazione ci dà, si ebbe in passato e si ha tuttora una delle più forti ragioni del progredire degli studï; qui si può dire che ogni ricercatore, per quanto modesto, può aprire una finestra sopra un campo sconosciuto. Ed è il caso di ripetere con Bacone: si quis huiusmodi rebus, ut nimium exilibus et minutis, vacare nolit, imperium in naturam nec obtineri, nec geri posse7.


X.


Non bisogna attendere troppo dalla teoria qui a larghi tratti esaminata, nè dal punto di vista di un indefinito raffinamento dei risultati medii, né da quello della critica delle osservazioni e della scoperta degli errori sistematici di cui abbiamo discorso da ultimo. Vi hanno errori sistematici ben difficili a porre in evidenza; l’esempio più semplice (ma non l’unico) è quello dell’errore assolutamente costante il quale altera i risultati senza togliere ai residui i caratteri dell’accidentalità. I criterî indicati dalla Teoria degli errori non esentano pertanto l’osservatore del far uso di tratto in tratto di quel mezzo radicale che il buon senso ha in ogni epoca suggerito, il raffronto cioè fra i risultati ottenuti con metodi e con principï affatto diversi. Solamente dopo che raffronti di tal genere hanno dati risultati concordanti, o dopo che siano scoperte le ragioni di eventuali discordanze, lo studioso può avere la sicurezza di trovarsi in possesso di solide conclusioni.

Ma se dalla teorica degli errori non bisogna attendere troppo, sarebbe altrettanto ingiusto disconoscere i servizî che essa ha reso e può rendere. Nell’Astronomia e nella Geodesia, [p. 20 modifica] che costituiscono il suo principal campo d’azione, essa ha effettivamente cooperato a risolvere problemi d’importanza fondamentale. In tutto il rimanente campo delle scienze d’osservazione, non sembra fuor di luogo asserire che da una razionale applicazione di quella teoria non pochi risultati possono essere resi più sicuri e molte conclusioni immature essere evitate.

Università di Pisa.

Note

  1. Pubblicazioni dell’Istituto Geodetico Prussiano; Nuova serie, N. 31; Berlino 1907.
  2. Situato nelle officine della Società «Telefunken» di Berlino (sistema Slaby Arco).
  3. Ecco i due postulati:
    a) Il valore più conveniente si sceglie fra le funzioni lineari delle osservazioni;
    b) Se, per avventura, tutte le osservazioni avessero dato eguale risultato, questo valore unico deve pure essere scelto come il più conveniente.
  4. Ci guardiamo bene, con questo, dall’approvare l’idea di chi vorrebbe ridotto lo studio matematico dei fatti naturali al puro impiego di formule empiriche. Quando da uno stesso postulato si possono dedurre, matematicamente, le formole rappresentative di parecchi fenomeni differenti, e quando l’esperienza dimostra che questa rappresentazione risulta, per ciascun d'essi, abbastanza fedele, la concomitanza di tali accordi fra la teoria e l’osservazione, ha un valore logico estremamente superiore a quello che avrebbe il trovare tante diverse formole empiriche per ciascuno dei fenomeni considerati.
  5. Supponiamo, per semplicità di discorso, che una delle grandezze variabili che si paragonano sia il tempo; ma potrebb’essere un’altra quantità variabile qualsiasi.
  6. Longitudine del sole, longitudine della luna, inclinazione dell’orbita lunare, longitudine del nodo lunare ecc.
  7. Novum organum, pars 2a, CXXXI.