Roma e lo Stato del Papa/Capitolo XX

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Capitolo XX

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CAPITOLO XX.

Le proteste del Papa e il Congresso.



Sommario: Le ire di Pio IX. — Impressioni a Roma. — Il Papa ricorre alle sue armi spirituali per protestare contro i fatti compiuti. — Enciclica del 18 giugno. — Concistoro segreto e allocuzione ai cardinali. — Le proteste cadono nel vuoto. — Allocuzione del 26 settembre. — Prima scomunica non canonica. — La deputazione romagnola è ricevuta da Vittorio Emanuele a Monza. — Indirizzo al Re e risposta di lui. — Il Papa manda i passaporti all’inviato sardo. — Dimostrazioni al conte Della Minerva. — Il Papa è furibondo per «l’ipocrisia» del Re e di Cavour. — Funerali ai soldati francesi in Roma. — Goffaggini del generale Goyon. — Cerca di ostacolare la sottoscrizione per una spada di onore a Napoleone e a Vittorio Emanuele. — Il Papa aderisce al Congresso, ma respinge i fatti compiuti. — L’opuscolo Le Pape et le Congrès. — Impressione disastrosa in Roma. — La lettera di Napoleone III al Papa. — Progetti fantastici. — Pio IX più violento ma logico. — Il Giornale di Roma risponde alla lettera dell’Imperatore. — L’Austria e Napoli. — Dubbi circa il Congresso. — Un libro di Alessandro Gavazzi. — Parole di Napoleone III — Il Congresso svanisce. — Coloro che dovevano esserne i membri.



Quali dolorose sorprese per l’iracondo Pontefice! Non eran compiuti due anni dal suo viaggio nelle provincie, dalle quali era tornato con l’impressione che la fede dei popoli era viva e incrollabile in lui, e vedeva, in nove giorni, tutto lo Stato in fiamme, e le Legazioni perdute. La ribellione, domata nelle Marche e a Perugia, non bastava a confortarlo, nè lo confortavano le condizioni dell’ordine pubblico a Roma, dove le notizie delle provincie avevano accese le teste, da far temere guai maggiori. L’effervescenza si rivelava nei teatri, all’Università, nelle vie, nelle collette per favorire le diserzioni dei soldati, e far partire quanti giovani chiedevano di andare al campo piemontese. La città non era tranquilla; e per quanto il Goyon si abbandonasse a comiche minacce, non riusciva a far paura, nè facevano paura la polizia, nè l’ambasciatore austriaco, che, dopo Magenta e Solferino, nessuno più temeva. Il duca di Gramont fraternizzava apertamente coi liberali; e il ministro sardo aveva, alla sua volta, [p. 371 modifica]bandito ogni riguardo di prudenza. Pio IX, come quelli della sua corte e del suo governo, credeva la rivoluzione un fenomeno passeggero, dovuto agl’intrighi del Piemonte, e alle vecchie mene dei settari bolognesi e romagnoli. Non vedeva, o non voleva vedere che quel movimento si era compiuto con mirabile concordia fra le classi sociali, quando l’autorità pontificia, partiti gli austriaci, abbandonò le città a sè stesse; che gli uomini di maggior seguito ne avevano assunta la direzione, e che questi uomini, memori degli errori del 1848, non vedevano salute che nella unione al gran regno italico, il quale si veniva formando con casa Savoia. Nessun disordine; nessun tentativo in senso repubblicano in paesi, nei quali la tradizione mazziniana aveva forti radici, e dove il Mazzini contava ancora numerosi proseliti. Anche nelle città di Cesena, Imola, Faenza, Ravenna, Lugo, nelle quali erano più abbarbicati i pregiudizi settari, ed erano stati maggiori gli assassinii politici, si era inaugurato un periodo di saggezza civile, che continuò fino alle memorabili sedute dell’assemblea di Bologna, nelle quali, con grande solennità, e non minore semplicità, fu dichiarato decaduto il potere temporale dei Papi, decretata l’annessione di quelle provincie al regno di Vittorio Emanuele, e conferita al Farini la dittatura. Dittatura, che, insieme a quella del Ricasoli in Toscana, salvò la situazione. Si deve ricordare che, dopo Villafranca, Cavour non era più al governo, e pareva che alla nave italica mancasse la guida del suo maggior nocchiero, fra tante tempeste.


*


Il Papa ricorse a tutte le sue armi spirituali, per protestare contro quanto era avvenuto, e commuovere il mondo a sua difesa. Tra encicliche, allocuzioni, note diplomatiche e minacce di scomunica, nulla trascurò. La stampa cattolica d’Italia e di Francia soffiava nel fuoco. La prima enciclica, in data 18 giugno, fu questa, che tolgo dal testo ufficiale della Civiltà Cattolica:

Venerabili Fratelli.
Salute ed apostolica benedizione.


Quel moto di sedizione, che testè scoppiò in Italia contro i legittimi Principi, anche nei paesi confinanti coi dominii pontifici, invase pure, come [p. 372 modifica]una fiamma d’incendio, alcune delle Nostre provincie; le quali commosse da quel funesto esempio, e spinte da esterni eccitamenti, si sottrassero dal paterno Nostro reggimento, cercando anzi, collo sforzo di pochi, di sottoporsi a quell’italiano governo, che in questi ultimi anni fu avverso alla Chiesa, ai legittimi suoi diritti ed ai sacri ministeri. Or mentre nei riproviamo e lamentiamo questi atti di ribellione, coi quali una sola parte del popolo in quelle sturbate province sì ingiustamente risponde alle paterne Nostre cure e sollicitudini; e mentre apertamente dichiariamo essere a questa Santa Sede necessario il civile principato, perchè senza alcun impedimento possa esercitare, a bene della religione, la sacra sua potestà (il quale civil principato si sforzano di strapparle i perversissimi nemici della Chiesa di Cristo); a voi, venerabili Fratelli, in sì gran turbine di avvenimenti, indirizziamo la presente lettera, per dare qualche sollievo al Nostro dolore.

E in questa occasione anche vi esortiamo che, secondo la provata Fota pietà, e l’esimia vostra sollecitudine per l’Apostolica Sede e la sua libertà, procuriate di compiere quello, che leggiamo aver già prescritto Mosè ad Aronne, supremo Pontefice degli ebrei (Num. cap. XVI): folle thuribulum et hausto igne de altari mitte incensum desuper, pergens cito ad populum, ut roges pro eis; iam enim egressa est îira a Domino et plaga desaevit. E parimente vi esortiamo a pregare, come già quei santi fratelli Mosè ed Aronne, i quali proni in faciem dixerunt: fortissime Deus spirituum universae carnis, num aliquibus peccantibus contra omnes ira tua desaevit? (Num. cap. XVI). A questo fine, venerabili Fratelli, vi scriviamo la presente lettera; dalla quale prendiamo non lieve consolazione, giacchè confidiamo che voi risponderete abbondantemente ai Nostri desiderii ed alle Nostre cure.

Del resto, Noi dichiariamo apertamente che vestiti della virtù che discende dall’alto, la quale Dio, supplicato dalle preghiere dei fedeli, concederà alla infermità Nostra, soffriremo qualunque pericolo e qualunque acerbità, piuttosto che abbandonare in veruna parte l’apostolico dovere e permettere qualunque cosa contraria alla santità del giuramento con cui ci siamo legati, quando, Dio così volente, salimmo benchè immeritevoli sopra questa suprema Sede del Principe degli Apostoli, rocca e baluardo della fede cattolica.

Ed augurandovi, venerabili Fratelli, ogni allegrezza e felicità nel compiere il vostro dovere pastorale, con ogni affetto compartiamo a voi ed al vostro gregge l’apostolica benedizione, auguratrice della celeste beatitudine.


*


E a soli due giorni di distanza, il 20 giugno, tenne concistoro segreto, e, perdendo ogni misura, parlò ai cardinali, manifestando tutta la sua ingenua amarezza, perchè la rivoluzione si era compiuta, due anni dopo il suo viaggio in quelle provincie. Naturalmente la maggiore ira egli la sfogava contro la città di Bologna, della quale aveva diffidato sempre. L’allocuzione, cui venne [p. 373 modifica]data una straordinaria pubblicità, merita anche di essere esumata. Il Papa parlò così ai cardinali:


Venerabili Fratelli,

Al gravissimo dolore, onde, insieme con tutti i buoni, siamo compresi per la guerra insorta tra nazioni cattoliche, una massima afflizione si aggiunse per la luttuosa rivoluzione e perturbazione di cose, che testè avvenne in alcune Province del nostro Dominio Pontificio, per iniqua opera ed ardimento al tutto sacrilego di uomini empii. Voi bene intendete, Venerabili Fratelli, che Noi ci dogliamo con queste parole di quella scellerata congiura e ribellione di faziosi contro il sacro e legittimo civile principato Nostro e di questa Santa Sede; la quale congiura e ribellione alcuni perversissimi uomini, dimoranti in quelle stesse nostre provincie, non temettero di tentare, promuovere e compire, con clandestini ed iniqui conventicoli, con vergognosissime pratiche, tenute con persone di Stati circonvicini, con libelli frodolenti e calunniosi, con armi provvedute e venute di fuori, e con moltissime altre frodi ed arti perverse.

E non possiamo non lamentarci assaissimo che questa iniqua congiura sia primieramente scoppiata nella Nostra città di Bologna; la quale, colmata dei benefizii della Nostra paterna benevolenza e liberalità, due anni or sono, quando vi abbiamo soggiornato, non avea lasciato di mostrare e di attestare la sua venerazione verso di Noi e quest’Apostolica Sede. Infatti in Bologna, il giorno duodecimo di questo mese, dopochè inopinatamente ne partirono le truppe austriache, subito i congiurati con insigne audacia, conculcando tutti i divini ed umani diritti, e rilasciato ogni freno all’iniquità, non ebbero orrore di tumultuare e di armare, raunare e guidare la guardia urbana ed altri, e recarsi all’abitazione del nostro Cardinal Legato; ed ivi, tolte le armi Pontificie, innalzare e collocare in loro vece il vessillo della ribellione, con somma indegnazione e fremito degli onesti cittadini, i quali non temeano punto di riprovare liberamente sì gran delitto, e di applaudire a Noi ed al nostro Pontificio Governo.

Poi dagli stessi ribelli fu intimata la partenza allo stesso cardinale Nostro Legato; il quale, secondo il dovere del suo ufficio, non lasciava di opporsi a tanti scellerati ardimenti, e di sostenere e difendere i diritti e la dignità Nostra e di questa Santa Sede. Ed a tal segno d’iniquità ed impudenza vennero i ribelli, che non temettero di mutare il governo, e chiedere la dittatura del Re di Sardegna; e per questo fine mandarono loro deputati allo stesso Re. Non potendo dunque il nostro Legato impedire tante malvagità, e più a lungo sostenerle e vederle, pubblicò a voce ed in iscritto una solenne protesta contro quanto si era fatto da quei faziosi a danno dei diritti Nostri e di questa S. Sede, e sforzato a partire di Bologna si recò a Ferrara.

Le cose in Bologna, tanto iniquamente fatte, vennero cogli stessi colpevoli modi operate altresì in Ravenna, in Perugia e altrove, con comun lutto de’ buoni, da uomini scellerati; sicuri che i loro impeti non potessero venire repressi e rotti dalle nostre pontificie milizie, le quali, trovandosi in poco [p. 374 modifica]numero, non poterono resistere al loro furore e alla loro audacia. Laonde nelle anzidette città si vide per opera di faziosi conculcata l’autorità d’ogni legge divina ed umana, e oppugnata la suprema civile potestà Nostra e di questa Santa Sede, e rizzati i vessilli della ribellione, e tolto di mezzo il legittimo pontificio governo, ed invocata la dittatura del Re di Sardegna, e spinti o costretti alla partenza i nostri Delegati, dopo pubblica protesta, e commessi altri non pochi delitti di fellonia.

Niuno poi ignora a che principalmente mirino sempre cotesti odiatori del civil principato della Sede Apostolica, e ciò che essi vogliono e ciò che desiderano. Per fermo tutti sanno come, per singolare consiglio della divina Provvidenza, è avvenuto che, in tanta moltitudine e varietà di Principi secolari, anche la Romana Chiesa avesse un dominio temporale a niun’altra podestà soggetto; acciocchè il Romano Pontefice, sommo Pastore di tutta la Chiesa, senza essere sottoposto a nessun Principe, potesse con pienissima libertà esercitare in tutto l’orbe il supremo potere e la suprema autorità, a lui data da Dio, di pascere e reggere l’intero gregge del Signore; e insieme più facilmente propagare di giorno in giorno la divina Religione, e sopperire ai varii bisogni de’ fedeli, e prestare aiuto ai chiedenti, e procurare tutti gli altri beni, i quali secondo i tempi e le circostanze fossero da lui conosciuti conferire a maggiore utilità di tutta la repubblica cristiana. Adunque gl’infestissimi nemici del temporale dominio della Chiesa Romana per ciò si adoperano d’invadere, di crollare e distruggere il civil principato di lei, acquistato, per celeste provvidenza, con ogni più giusto ed inconcusso diritto, e confermato dal continuato possesso di tanti secoli, e riconosciuto e difeso dal comun consenso de’ popoli e de’ Principi eziandio cattolici, qual sacro e inviolabile patrimonio del Beato Pietro; affinchè, spogliata che sia la Romana Chiesa del suo patrimonio, possano essi deprimere e abbattere la dignità e la maestà della Sede Apostolica e del Romano Pontefice, e più liberamente arrecare ogni gran danno e fare asprissima guerra alla santissima religione, e questa religione medesima, se fia possibile, gettare del tutto a terra. A questo scopo per verità mirarono sempre e tuttavia mirano gl’iniquissimi consigli e tentativi e frodi di quegli uomini, i quali cercano di abbattere il dominio temporale della Romana Chiesa, come una lunga e tristissima esperienza a tutti chiaramente e apertamente fa manifesto.

Per la qual cosa, essendo Noi obbligati, per debito del nostro apostolico ministero e per solenne giuramento, a provvedere con somma vigilanza all’incolumità della Religione, e a difendere i diritti e i possedimenti della Romana Chiesa nella loro totale integrità e inviolabilità, non che a sostenere e vindicare la libertà di questa Santa Sede, la quale libertà è senza niun dubbio connessa colla utilità di tutta la Chiesa cattolica; e per conseguenza essendo Noi tenuti a difendere il Principato, che la Divina Provvidenza donò ai Romani Pontefici, acciocchè essi liberamente esercitassero in tutto l’orbe l’amministrazione delle cose sante, e dovendo Noi trasmetterlo intero e inviolato ai nostri successori; perciò Noi non possiamo non condannare veementemente e detestare gli empii e nefandi conati e ardimenti di sudditi ribelli, e loro fortemente resistere.

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Pertanto, dopo che per la reclamazione del nostro Cardinal Segretario di Stato, mandata a tutti gli Ambasciatori, Ministri e Incaricati d’affari delle estere nazioni presso di Noi e di questa Santa Sede, Noi abbiamo riprovato e detestato i nefarii ardimenti di cotesti ribelli; ora in questo vostro amplissimo Consesso, o Venerabili Fratelli, elevando la Nostra voce, col maggiore sforzo che possiamo dell’animo Nostro, protestiamo contra tutto ciò, che gli anzidetti ribelli hanno osato di fare nei predetti luoghi; e colla Nostra suprema autorità condanniamo, riproviamo, rescindiamo e aboliamo tutti e singoli gli atti sì in Bologna, sì in Ravenna, sì in Perugia, e sì in qualunque altro luogo fatti, ed appellati in qualunque modo, da essi ribelli contra il sacro e legittimo principato Nostro e di questa Santa Sede e dichiariamo e decretiamo che i prefati atti sono nulli del tutto, illegittimi e sacrileghi.

Dippiù, ricordiamo a tutti incorrersi, senz’altra dichiarazione, da tutti quelli che in qualsiasi modo ardiscono di scuotere il potere temporale del Romano Pontefice la scomunica maggiore, e le altre pene e censure ecclesiastiche, fulminate dai Sacri Canoni, dalle costituzioni apostoliche, e dai decreti dei Concilii Generali, specialmente del Tridentino (Sess. 22, cap. 11, de Reform.); e quindi dichiariamo esservi di già miseramente incorsi tutti coloro i quali a Bologna, Ravenna, Perugia, e altrove, sono stati arditi coll’opera, col consiglio, coll’assenso, e per qualunque siasi altro modo, di violare, perturbare, ed usurpare la civile potestà e giurisdizione Nostra e di questa Santa Sede, e il patrimonio di San Pietro.

Intanto, mentre spinti dal debito del Nostro officio siamo costretti, non senza grave dolore dell’animo, a dichiarare e promulgare tali cose; commiserando alla lacrimevole cecità di tanti figliuoli, Noi non cessiamo di dimandare umilmente e istantemente dal clementissimo Padre di misericordia, che colla sua onnipotente virtù affretti quel giorno così desiderato, nel quale possiamo novamente accogliere con gioia fra le paterne braccia questi figliuoli nostri ravveduti e ritornati al proprio loro dovere; e vedere redintegrato in tutti i nostri Pontificii Stati l’ordine e la tranquillità, allontanatane ogni perturbazione. Sostenuti da tal fiducia in Dio, siamo eziandio confortati dalla speranza che i Principi d’Europa, siccome per lo addietro, così ora eziandio pongano di comune accordo e sollecitudine ogni loro opera nel difendere e conservare intero questo principato temporale Nostro e della Santa Sede; importando sommamente a ciascuno di loro che il Romano Pontefice goda pienissima libertà affinchè si possa debitamente soddisfare alla tranquillità di coscienza dei cattolici che dimorano nei loro Stati. La quale speranza per certo da ciò ancora viene accresciuta, che gli eserciti francesi esistenti ora, in Italia, secondo quello che il nostro carissimo in Cristo Figliuolo, l’Imperatore dei Francesi ha dichiarato, non solo non faranno cosa alcuna contro il poter temporale Nostro, e di questa Santa Sede, ma anzi si adopreranno per difenderlo e conservarlo.


Era sincera questa fiducia nel «carissimo figliuolo in Cristo, l’imperatore dei francesi»? È lecito dubitarne, ma si tenga [p. 376 modifica]presente la data dell’allocuzione: 20 giugno, quattro giorni prima di Solferino. Benchè la guerra non fosse finita, la Lombardia era perduta per l’Austria, dopo Magenta.


*


Le protesto del Pontefice cadevano nel vuoto. L’Austria, battuta anche a Solferino, accettava l’armistizio, la pace, e il principio del non intervento nelle cose d’Italia. E quando il 6 settembre si riuniva a Bologna l’assemblea delle Legazioni; e dichiarando decaduto il governo pontificio, deliberava l’annessione di quelle provincie al regno di Vittorio Emanuele, il Papa, radunato il Sacro Collegio il giorno 16 dello stesso mese, pronunziò un’altra allocuzione, non meno violenta della prima. Ricordata quella del 20 giugno, Pio IX espose e censurò gli atti posteriori, compiuti nell’Emilia, dove «innalzato il vessillo della ribellione e della defezione, e abolito il governo pontificio, in prima si stabilirono dittatori del regno subalpino... Mossi poi apertissimamente dall’odio verso quest’Apostolica Sede, i rappresentanti ardirono riunirsi in Bologna il giorno sei di questo mese, in assemblea da loro detta nazionale dei popoli dell’Emilia, ed in essa promulgare un decreto pieno di false accuse e falsi protesti, in cui mendacemente asserendo l’unanimità dei popoli contro i diritti della Chiesa, dichiararono di non voler più oltre sottostare al governo pontificio; e nel giorno seguente dichiararono parimente, siccome ora è la moda, di volersi unire ai dominii ed all’obbedienza del re di Sardegna». Continua il documento pontificio, lodando i fedeli e il clero, dichiarando «irriti e nulli gli atti dei ribelli» col richiamo delle censure ecclesiastiche, e conclude col pregare Dio, ricco di misericordia, perchè, coll’onnipotente sua virtù, riduca a migliori consigli ed alle vie della giustizia, della religione e della salute, tutti gli erranti, dei quali alcuni, forse miseramente ingannati, non sanno quello che si fanno».

Fin qui, come può vedersi, il Papa non comminava la scomunica, ma ammoniva, che nella scomunica eran caduti quanti col consiglio, con l’opera e col consenso contribuirono, per qualsiasi modo, a violare, perturbare e usurpare la potestà e la [p. 377 modifica]giurisdizione papale nelle provincie ribelli. Non era scomunica ad personam, nè canonicamente dichiarata. Intanto Pio IX non lasciava passare occasione per protestare contro i fatti, che si andavano compiendo. Il 24 settembre fu ricevuta a Monza, con onori sovrani, la deputazione delle Legazioni, che lesse a Vittorio Emanuele, per bocca del vicepresidente Scarabelli, questo indirizzo:

Sire!


      I popoli delle Romagne, rivendicato il loro diritto, proclamarono, per voto unanime dell’assemblea legalmente costituita, l’annessione loro al regno di Sardegna. I pregi che l’Italia tutta ama ed ammira in V. M., la sua lealtà in pace, il suo valore in guerra, conquistarono tutti gli animi e fu la più nobile delle conquiste quella dell’influenza morale. Ma questo voto di annessione non fu solo uno slancio d’entusiasmo, fu ancora un calcolo di matura ragione. Le Romagne, travagliate per quarant’anni dalle discordie civili, anelano di chiudere l’èra delle rivoluzioni, e di riposare in un assetto stabile e definitivo. E mentre professano piena riverenza al capo della Chiesa cattolica, vogliono un governo che assicuri l’eguaglianza civile, la nazionalità italiana, l’ordine e la libertà. La monarchia costituzionale di V. M. è la sola che possa darci questi beni!

Vittorio Emanuele, circondato dai ministri e dai dignitari di corte, rispose:

Sono grato ai voti dei popoli delle Romagne, di cui voi, o signori, siete gl’interpreti presso di me. Principe cattolico, serberò in ogni evento profonda e inalterabile riverenza verso il supremo Gerarca della Chiesa. Principe italiano, debbo ricordare che l’Europa riconoscente .e proclamando che le condizioni del vostro paese riceveranno pronti ed efficaci provvedimenti, ha contratto con esso formali obbligazioni.

Accolgo impertanto i vostri voti, e forte del diritto che questi mi conferiscono, propugnerò la causa vostra innanzi alle grandi Potenze. Confidate nel loro senno e nella loro giustizia. Confidate nel generoso patrocinio dell’ imperatore de’ Francesi, che vorrà compire quella grande opera di riparazione, alla quale pose sì potentemente la mano, e che gli ha assicurata la riconoscenza dell’Italia tutta.

La risposta proseguiva fra generose promesse e prudenti consigli.

Il primo ottobre, il Papa, vinto dalla collera, e non più udendo consigli di moderazione, inviò i passaporti al conte Della Minerva. Questi lasciò Roma il 9 di quel mese, nella carrozza del duca Lorenzo Sforza Cesarini, che l’accompagnò fin [p. 378 modifica]oltre ponte Molle, e i liberali fecero a quel diplomatico una clamorosa dimostrazione di simpatia, dalla via Borgognona, per il Babuino, sino a fuori porta del Popolo. David Silvagni parti anch’egli col Pes, nè rivide la sua patria che nel 1867, per poche ore, accompagnando il senatore Durando, prefetto di Napoli, da Roma a Firenze. Vi tornò poi dopo il 20 settembre, segretario del generale Masi.

Partito il conte Della Minerva restò in Roma un consolato ufficioso per la Sardegna, affidato al signor Giambattista Raffo; e qualche tempo dopo, arrivò in qualità di console titolare il conte Teccio di Baio, che vi stette fino al 1863, compì atti politici, e fu espulso anche lui, come si dirà.


*


Ciò che irritava Pio IX, in sommo grado, erano quei discorsi così detti abili di Vittorio Emanuele e di Cavour: abili di certo, ma che il Papa, tutta la corte e la società legittimista giudicavano ipocriti, e la stampa cattolica gratificava con peggiori epiteti. Dichiararsi cattolici, dicevano; professar riverenza al sommo gerarca e portargli via lo Stato, fomentando prima, e legalizzando poi gli atti della rivoluzione, e servendosi di mezzi subdoli, era mistificare e mentire; e i maggiori attacchi rivolgevano a Vittorio Emanuele, re cattolico, e figlio del mistico Carlo Alberto. Ma neanche dall’altra parte si eccedeva in sincerità. Il 15 agosto di quell’anno, festa di Napoleone III, il generale De Goyon aveva dato un banchetto con molti invitati; e il cardinale Antonelli, il cui arrivo fu salutato dalla musica francese al suono dell’inno papale, portò un brindisi enfatico all’Imperatore, così come il Goyon ne portò uno, non meno enfatico, a Pio IX, di cui diceva un gran male in segreto. La doppiezza di lui non era più un mistero. Il 26 luglio, a campagna finita, egli aveva fatto celebrare un funerale in suffragio dei soldati francesi, caduti nella guerra, diramando questo curioso biglietto d’invito:

Samedi 30 juillet, à 8 heures du matin, un service funèbre sera célébré à Saint-Louis des Français, par ordre du général commandant la division d’occupation, pour le repos des âmes des militaires, qui ont succombé dans la campagne de Lombardie. Le général comte de Goyon a l’honneur d’inviter à cette cérémonie religieuse.

[p. 379 modifica]E sarebbe superfluo tener conto di altre circostanze, che rivelavano il suo odio morboso per la causa italiana. Venuto a conoscenza, che il Comitato Nazionale aveva deciso di offrire una spada a Napoleone III, accompagnata da un indirizzo, cercò di ostacolare la cosa con ogni mezzo, perchè eguale dono il Comitato intendeva fare a Vittorio Emanuele; poi intrigò, perchè l’Imperatore rifiutasse il dono, informando il governo di Parigi, che esso non aveva importanza, poichè soli quattro membri della nobiltà romana avevano sottoscritto l’indirizzo, e riuscì ad ottenere che Napoleone accettasse sì il dono, ma con una risposta anodina, nella quale sono più gl’imbarazzi che le parole.

Per quanto si giudicasse irrealizzabile la confederazione degli Stati d’Italia, sotto la presidenza del Papa, questi vi aveva aderito sin dal 23 luglio, come aderì al Congresso europeo, che doveva sciogliere la questione italiana sopra le basi convenute a Villafranca, ma accompagnando l’adesione con una lettera, in data 2 dicembre, che pareva fatta apposta per mandare il Congresso in fumo. Egli dichiarava che, aderendo al Congresso, non intendeva punto di accettare i fatti compiuti, e neppure di rassegnarvisi; ripeteva le sue proteste; riaffacciava le sue pretese, e faceva istanze a Napoleone III, perchè nel Congresso lo aiutasse a riprendere le provincie perdute. Questa lettera, presentata personalmente dal nunzio, il 16 dicembre, all’Imperatore, ne eccitò lo sdegno. Napoleone fu particolarmente colpito dalla caparbietà del Pontefice, il quale, invece di ringraziarlo per quanto operava a favore di lui, affrontando difficoltà d’ogni specie per sciogliere la questione italiana, che poteva ancora una volta turbare la pace in Europa, tornava alle querimonie, non riconoscendo le più evidenti necessità dei fatti compiuti. Ricevendo l’arcivescovo di Bordeaux il 12 ottobre, l’Imperatore aveva detto: «Il governo, che ha ristabilito il sovrano Pontefice, porge consigli inspirati da rispettosa e sincera devozione, ma si preoccupa del giorno non lontano in cui le truppe francesi lasceranno Roma, perchè l’Europa non può permettere una occupazione indefinita. E quando le truppe sì ritireranno, lasceranno esse dietro a sè il terrore, l’anarchia o la pace? Tali sono le questioni che restano a risolversi». E fu sotto tale impressione, che Napoleone aveva ispirato al visconte de Laguerronière [p. 380 modifica]l’opuscolo Le Pape el le Congrès, che levò tanto rumore, e rispose al Papa, in data 31 dicembre, quella memoranda lettera, che, pubblicata nel Moniteur, ribadi più autorevolmente le idee dell’opuscolo, accese nuove ire in Vaticano, e ispirò a Pio IX l’altra enciclica, più iraconda ancora, del 19 gennaio, nella quale parve sola concessione questa: tornassero a lui le provincie ribelli, ed egli avrebbe giudicato circa l’«opportunità» di concedere delle riforme. La lettera dell’Imperatore diceva:


Beatissimo Padre!

La lettera che V. S. si compiacque scrivermi il 2 dicembre mi toccò vivamente, e risponderò con intera franchezza all’appello fatto alla mia lealtà. Una delle mie più vive preoccupazioni, durante e dopo la guerra, è stata la condizione degli Stati della Chiesa, e certo fra le potenti ragioni, che mi impegnarono a fare sì prontamente la pace, bisogna annoverare il timore di vedere la rivoluzione prendere tutti i giorni più grande svolgimento. I fatti hanno una logica inesorabile, e nonostante la mia devozione alla Santa Sede, io non poteva sfuggire a una certa solidarietà cogli effetti del movimento nazionale eccitato in Italia dalla lotta contro l’Austria. Conclusa una volta la pace, io mi affrettai di scrivere a V. S. per sottometterle le idee più atte, secondo me, a produrre la pacificazione delle Romagne; e credo ancora che, se fin d’allora V. S. avesse consentito ad una separazione amministrativa di quelle provincie, e alla nomina di un governatore laico, esse sarebbero tornate sotto la sua autorità. Sventuratamente ciò non avvenne, e io mi sono trovato impotente ad arrestare lo stabilimento del nuovo governo.

I miei sforzi non hanno potuto che impedire all’insurrezione di estendersi, e la dimissione di Garibaldi ha preservato le Marche d’Ancona da una invasione certa. i

Ora il Congresso è per adunarsi. Le Potenze non potrebbero disconoscere gl’incontrastabili diritti della Santa Sede sulle Legazioni; nondimeno è probabile che esse saranno d’avviso di non ricorrere alla violenza per sottometterle. Poichè se questa sottomissione si ottenesse coll’aiuto di forze straniere, bisognerebbe ancora occupare le Legazioni militarmente per lungo tempo, Questa occupazione manterrebbe gli odii e i rancori di una gran parte del popolo italiano, come la gelosia delle grandi Potenze. Sarebbe dunque un perpetuare uno stato d’irritazione, di malessere e di timore. Che resta dunque da fare, poichè finalmente questa incertezza non può durar sempre?

Dopo un serio esame delle difficoltà e de’ pericoli, che le diverse combinazioni presentavano, lo dico con sincero rammarico e per quanto sia penosa la soluzione, quello che mi parrebbe più conforme ai veri interessi della Santa Sede, sarebbe di fare il sacrifizio delle provincie ribellate. Se il Santo Padre, per il riposo dell’Europa, rinunziasse a quelle provincie, che da cinquant’anni suscitano tanti impicci al suo governo, e se in cambio [p. 381 modifica]domandasse alle Potenze di guarentirgli il possesso del resto, io non dubito dell’immediato ritorno dell’ordine. Allora il Santo Padre assicurerebbe all’ Italia riconoscente la pace per lunghi anni, e alla Santa Sede il pacifico possesso degli Stati della Chiesa.

Vostra Santità, mi piace crederlo, farà giusta ragione dei sentimenti che mi animano; comprenderà la difficoltà del mio stato; interpreterà con benevolenza la franchezza del mio linguaggio, ricordandosi di tutto ciò che ho fatto per la religione cattolica e per il suo augusto capo. Io ho espresso senza riserva tutto il mio pensiero, e l’ho creduto necessario avanti il congresso. Ma prego V. S., qualunque sia la sua decisione, di credere che essa non muterà in nulla la linea di condotta che io sempre ho tenuta verso di Lei.

Ringraziando V. S. dell’apostolica benedizione che ha mandata all’imperatrice, al principe imperiale e a me, io le rinnovo la protesta della mia profonda venerazione.

Di Vostra Santità

Vostro figlio devoto
Firmato: Napoleone.


Palazzo delle Tuileriee, 31 dicembre 1859.


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Prima di decidersi a farla pubblicare nel Moniteur, l’Imperatore aveva esaurita, non solo tutta la sua pazienza, ma la serie dei progetti, che si agitavano nella sua mente. Pareva un uomo affaticato intorno ad un problema insolubile: conciliare la nuova Italia che sorgeva, col papato politico che tramontava; conciliare i ricordi del suo passato rivoluzionario, coi doveri di principe plebiscitario e cattolico, e più con le influenze clericali che si assiepavano intorno a lui. Ogni giorno si presentava alla sua mente un progetto nuovo di accomodamento. Sul finire d’ottobre ne vagheggiò uno, di cui die’ comunicazione al Papa e al re di Piemonte: l’Italia si comporrebbe di parecchi Stati indipendenti e federati, con un sistema rappresentativo e riforme, con regime comune di dogane e monete, con centro direttivo a Roma, e un Consiglio di rappresentanti scelti dai vari sovrani, sopra candidati presentati dalle due Camere; il Papa presidente della Confederazione, ma con l’obbligo di concedere riforme; proclamato il non intervento in quanto si era compiuto nell’Italia centrale; Venezia considerata provincia puramente italiana; Parma e Piacenza unite al Piemonte; la duchessa di Parma sovrana a Modena; la Toscana resa al principe Ferdinando di [p. 382 modifica]Lorena; Mantova e Peschiera fortezze federali, e Venezia con rappresentanza separata e un esercito italiano. Ce n’era abbastanza, perchè fosse dimostrata l’assurdità pratica di una simile risoluzione. E chi più la dimostrava era il Papa. Mentre Napoleone fantasticava, Pio IX era sempre più tenace, più logico e più indomabile. E poichè la Confederazione doveva essere preceduta da un’amnistia generale, questa non avrebbe avuto altro effetto, che di creare difficoltà in tutta Italia, e singolarmente, a Napoli, i cui emigrati avevano in quei giorni mandato Silvio Spaventa alla Cattolica, per spingere Garibaldi a invadere il Regno.

Alla lettera dell’Imperatore il Giornale di Roma, in data 17 gennaio, dava questa risposta:

È comparsa nel Moniteur di Parigi una lettera scritta da S. M. l’imperatore dei francesi, nella quale consiglia il S. Padre a cedere le provincie insorte. Per ora ci affrettiamo di assicurare tutti quelli, e sono parecchi milioni, che hanno interesse nella conservazione dello Stato della Chiesa, che il Santo Padre si è creduto in dovere di coscienza di rispondere negativamente a tale consiglio, sviluppando le ragioni della negativa.

Lo stesso giornale, che replicava così alla lettera di Napoleone, aveva pochi giorni prima portato il seguente giudizio sull’opuscolo del visconte e senatore di Laguerronière:

È uscito recentemente a Parigi, pei tipi Didot, un opuscolo anonimo intitolato: Le Pape et le Congrès. Quest’opuscolo è un vero omaggio reso alla rivoluzione, un’insidia tesa a quei deboli, i quali mancano di giusto criterio per ben conoscere il veleno che nasconde, ed un soggetto di dolore per tutti i buoni cattolici. Gli argomenti, che si contengono nello scritto, sono una riproduzione di errori ed insulti già tante volte vomitati contro la Santa Sede, e tante volte confutati trionfantemente, qualunque sia del resto la pervicacia degli ostinati contradittori della verità. Se per avventura lo scopo propostosi dall’autore dell’opuscolo tendesse ad intimidire Colui, contro il quale si minacciano tanti disastri, può l’autore stesso esser certo, che chi ha in favor suo il diritto, ed intieramente si appoggia sulle basi solide e incrollabili della giustizia, e soprattutto è sostenuto dalla protezione del Re dei Re, non ha certamente di che. temere dalle insidie degli uomini.


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A Roma l’impressione, prima dell’opuscolo del Laguerronière, e poi della lettera di Napoleone, fu disastrosa nei liberali e nei clericali. Proclamandosi come domma la necessità del potere [p. 383 modifica]temporale, sia pure ristretta a Roma e al patrimonio di San Pietro, si toglieva ogni speranza di liberazione dal dominio pontificio; e riconoscendosi i fatti avvenuti nelle Legazioni, si veniva a legalizzare quanto la rivoluzione aveva consumato. Epperciò gli uni e gli altri facevano voti che il Congresso andasse in fumo.

Benchè le stesse potenze, che vi avevano aderito, dubitassero della possibilità di venire ad una conclusione positiva, dal momento che il Papa rifiutava perfino di discutere sui fatti compiuti, pure, nell’interesse della pace, e per compiacere l’Imperatore, avevano nominato i propri rappresentanti, e attendevano i primi giorni di gennaio per l’apertura del Congresso. E se non erano pochi in Europa coloro, che pregustavano i dibattiti fra il conte di Cavour e il cardinale Antonelli, che sarebbero stati i personaggi più importanti di quell’assemblea, non mancavano quelli, che temevano potesse il Congresso arrestare il compimento del voto nazionale. L’ex barnabita Alessandro Gavazzi, tornato dal decenne esilio, confutò l’opuscolo del Laguerronière, in un volume pubblicato a Firenze nei primi giorni del 1860 1, e che fu molto letto. Egli ebbe buon giuoco di confutarlo, tanto quell’opuscolo era zeppo di contraddizioni e di assurdità. Però ne traspariva chiaro e fermo il pensiero napoleonico: lasciar Roma al Papa, ed impedire qualunque movimento, che mirasse a strappargliela. E benchè Napoleone III facesse sentire al governo di Torino, che occorreva sconsigliare, e assai meno favorire qualunque tentativo insurrezionale in Roma, il Papa dimostrava coi suoi rifiuti l’assurdità di una risoluzione conciliante, e perciò consigliava il governo di Napoli e il gabinetto di Vienna a chiedere spiegazioni anticipate al governo francese, con dichiarazione, che, se non le avessero avute soddisfacenti, si terrebbero svincolate dall’adesione al Congresso. Non le ebbero, e il Congresso svanì; e Napoleone, che ne aveva lanciata l’idea, dopo Villafranca, la vide sfumare senza rimpianto, e a proposito dell’opuscolo del Laguerronière diceva: io non l’ho scritto, ma convengo in tutto quanto esso [p. 384 modifica]dice. E si convinse l’Imperatore non esservi di meglio, che tornare al trattato di alleanza col Piemonte, cioè alla formazione di un regno dai dieci ai dodici milioni, e alla cessione di Savoia e Nizza alla Francia. Del Congresso rimase, solo ricordo, la lista dei rappresentanti, che dovevano comporlo. La Francia aveva nominato il conte Walewski e il marchese di Banneville; l’Austria, il conte di Rechberg e il principe di Metternich; l’Inghilterra, lord Cowley e lord Woodhouse; la Russia, il principe Gorgiakoff e il conte di Kisseleff; la Prussia, il barone di Schleinitz e il conte di Pourtales; la Spagna, il Martinez de la Rosa e il signor Mon; il Portogallo, il conte Lavradio e il visconte di Paiva; la Svezia, il barone d’Adelswad e il generale Nordin. E degli Stati italiani, il Piemonte, Cavour e Des Ambrois; Napoli, Canofari e Antonini; e Roma, il cardinale Antonelli e monsignor Sacconi.

Il Congresso fu prorogato indefinitamente, e al Walewski, che era un italofobo incorreggibile, successe quale ministro degli affari esteri, il marchese di Thouvenel, più disposto a benevolenza verso la nuova Italia. Il 1860 nasceva sotto migliori auspici.



Note

  1. Il Papa e il Congresso dal punto di vista italiano. Pensieri di Alessandro Gavazzi. Firenze, tip. Torelli, 1860.