Roma italiana, 1870-1895/Il 1883
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Il 1883.
Le stesse agitazioni, che avevano turbato la fine del 1882, tennero in ansia Roma al principio del nuovo anno, non perché si temesse che il Governo non fosse abbastanza forte per domare i moti, ma per le conseguenze che questi potevano avere.
Un certo Rigattieri, compositore della Riforma, andò il 4 gennaio a gridare: «Viva Oberdank!» davanti al portone del Palazzo di Venezia, e scaricò quattro colpi di revolver contro lo stemma dell’ambasciata, senza per altro colpirlo; arrestato emise altri gridi simili. Aveva un passato onesto, la perquisizione operata in casa sua non fece scoprire che egli avesse nessun complice. Questo risultato fece capire che la morte di Oberdank aveva suscitato anche in altri quella stessa indignazione che gli agitatori di professione destavano fra i soci dei loro circoli, mercé i discorsi e gli scritti. Dopo qualche tempo il Rigattieri fu condannato a tre anni di relegazione.
Sempre in sui primi del gennaio, il Circolo Democratico Universitario, che aveva sede in piazza Sciarra, nei locali della Società per i diritti dell’uomo, spedì un invito ai cittadini, firmato da Antonio Fratti, Vincenzo Fonte e Vittorio Paolini per assistere la sera del 7 alla inaugurazione del primo busto al martire Guglielmo Oberdank. Il procuratore del Re andò il 6 a sequestrare il busto e le carte, fece arrestare i tre promotori, e avvertì Parboni e Socci che se insistevano nel fare la commemorazione avrebbe fatto occupare la sala.
Nella notte Felice Albani modellò un altro busto, e, nonostante la sorveglianza, i soci della Democratica Universitaria entrarono alla spicciolata nella sede dell’Associazione e mentre le guardie e i delegati dalla piazza Sciarra erano pronti a reprimere una invasione nella casa, sentirono scoppiare di dentro un grande applauso, che avvertivali che già la commemorazione si faceva. Salirono subito, nacque una zuffa fra loro e i 150 adunati, e le guardie fecero 26 arresti, fra cui quello di un certo Ferrari, che aveva gridato contro il colonnello austriaco, volendo designare il Re.
Tutto questo turbava gli animi tanto più che si sapeva che l’agitazione per Oberdank non era limitata a Roma, ma si era estesa in tutta l’Italia, e i fautori ne erano gli Irredentisti e molti altri guadagnati a quella causa dalla uccisione di Oberdank. Il Depretis reprimeva quanto più poteva, ma lasciava fiorire i circoli; peraltro negava di consegnare all’Austria i due complici del giustiziato, perchè l’accusa che pesava su di loro non era di quelle di delitto comune, ma politico.
L’elezione di Coccapieller non era stata ancora convalidata, ma lo strano tribuno fece parte della commissione parlamentare, che andò a portare gli augurj al Re per il primo dell’anno. All’ultima mostra di Milano Coccapieller aveva esposto un freno per fermare immediatamente, come egli diceva, tutti i veicoli ; il Re lo aveva veduto e nel rivolgergli la parola, come usa fare ad ogni deputato, glielo rammentò. Checco, da quella cortesia reale acquistò baldanza nell’Ezio II, ma quando il presidente della Camera propose fosse convalidata l’elezione Coccapieller, il colonnello Majocci non si lasciò intimorire e sorse a parlar contro, dicendo che la Camera, nel convalidare le elezioni non solo doveva tener conto della regolarità di esse, ma doveva pure ispirarsi ad un alto principio di moralità, che il Coccapieller aveva violato, facendosi eleggere con mezzi non buoni; che il Coccapieller non aveva potuto mai esser ammesso nell’esercito, che un distinto patriota non s’era voluto batter con lui, e se a Roma era riuscito eletto, dovevalo soltanto alla convinzione che si fosse voluto assassinare per impedirgli di far rivelazioni di una certa gravità. L’on. Majocchi aggiunse che Coccapieller si era imposto a Roma, mercè una stampa diffamatrice, e chiese che la Camera nella risoluzione che stava per prendere, tenesse conto della morale.
Molto più disse il Majocchi di quanto ho riferito, eppure il Coccapieller non fiatò, benchè avesse stampato più volte che alla Camera riserbavasi di strappare tutte le maschere. Ma egli era altrettanto timido nel parlare quanto audace nello scrivere, e fino dal primo momento aveva capito che in quell’aula ove sedevano uomini eminenti, i suoi spropositati discorsi senza capo nè coda avrebbero stranamente risuonato.
Ma pochi giorni dopo il falso tribuno si fece vivo. L’on. Bertani aveva rivolta una interpellanza fino dal 15 dicembre, circa alle cause che più volte, e specialmente negli ultimi mesi, avevano perturbato Roma. Dichiarò di parlare a nome proprio, e chiese un po’ di luce sui fatti che avevano acquistato il carattere di guerra civile e avevano spinti i generali Cerotti e Lopez, e il senatore Mamiani a protestare col ministro di Grazia e Giustizia contro una stampa liberticida. L’on. Bertani, posto su questa china, fece notare che la tolleranza del ministro dell’interno poteva far supporre una certa acquiscienza. Voleva che i dubbii si fossero deleguati, tanto più che il paladino degli odii, che dividevano i romani in due campi, era stato eletto con splendida votazione.
Coccapieller non potè più tacere e annunziò di aver mandato una domanda alla presidenza, perchè si facesse una inchiesta sul suo passato, ma se si faceva per lui, voleva si facesse anche per gli altri, e con quel suo linguaggio spropositato, che moveva le risa momentaneamente quando chi rideva poteva dimenticare come fosse caduta in basso Roma con quella elezione, continuò a minacciare di rivelazioni, ad accusare molti, e ad atteggiarsi a vindice della moralità. L’on. Bertani voleva che la sua mozione fosse discussa subito, ma su proposta dell’on. De Zerbi fu rimandata a tre mesi per non intralciare i lavori parlamentari.
Poco dopo incominciarono i processi di diffamazione contro il tribuno. Sette se ne discutono in una sola volta ed egli venne condannato a 42 mesi di carcere e a 1400 lire di multa. In marzo si fa il processo all’Assise contro Angelo Tognetti, Ernesto Capponi, Tognani, Piergentili e Nelli. Il primo era accusato di mancato omicidio volontario nella persona di Coccapieller, gli altri di complicità. Forse non ci fu un processo, neppure quello Fadda, che destasse tanta curiosità a Roma e sapesse mantenerla per così lungo tempo. Il pubblico si componeva di amici del Tognetti, attaccato brutalmente dall’Ezio II e indicato da quel giornale col nomignolo di Sussurretta, e di quelli del Coccapieller, amici sui generis che sogliono schierarsi sempre dalla parte di chi suona a vituperio. Si seppe il come e il quando i tognettisti volevano fare uno sfregio sporco al tribuno e, fallito il tentativo, perchè egli invece di andare a piazza Colonna s’era rintanato all’osteria di via Vittoria, erano andati a scovarlo lì. Fra i testimoni sfilò la massoneria, sfilarono il questore Latino Mazzi, ispettori, professori, fra i quali Paolo Mantegazza, popolani, una quantità di gente insomma. Coccapieller parlò poco, ma anche dinanzi ai giurati trovò modo di accusare, e disse che Adriano Lemmi, il Petroni, il Parboni e il Dobelli erano l’anima di quell’affare, che volevano farlo sparire, perchè lui faceva la guerra a tutti quanti avevano abusato del nome di Garibaldi e di Vittorio Emanuele. Fece anche lì una meschina figura. La sentenza fu pronunziata; i giurati ammisero nel Tognetti l’intenzione omicida e lo condannarono a cinque anni di relegazione; gli altri coimputati furono tutti assolti.
Coccapieller capì, e capirono i suoi istigatori, che quel processo aveva peraltro sminuita la sua popolarità, e per riconquistarla si abbrancò alla tavola di salvezza, che gli offriva il progetto della esposizione mondiale. Durante il processo il tribuno aveva presentato una interrogazione alla Camera al ministro dell’interno e a quello di agricoltura per stabilire che l’esposizione mondiale dovesse farsi a Roma, e possibilmente nel 1888. E per avvalorare la sua domanda lanciò insulti ai consiglieri comunali, e voleva leggere un articolo dell’Ezio II, cosa che il presidente non permise. Allora incominciò a dire che Roma era un pantano, che Roma era stanca, e nonostante i rumori e le scampanellate, lesse l’articolo.
L’on. Depretis gli rispose calmo che le condizioni finanziarie non gli permettevano d’impegnare il Governo; che peraltro se quelle condizioni fossero migliorate, l’esposizione si sarebbe fatta.
Alla Camera intanto era pervenuta domanda del Procuratore del Re di procedere per libello famoso contro il deputato Coccapieller, e la Camera lo concesse.
L’idea della esposizione si era fissata in capo al tribuno, e nel comizio al Corea, nel quale presentò Ricciotti Garibaldi come candidato a un collegio di Roma, in sostituzione del Lorenzini, che si era dimesso, fece uno zibaldone di esposizione e di elezioni, di farabutti e di grandezza di Roma da destar pietà. Pare impossibile che fra gl’intervenuti non vi fosse una persona sola di buon senso per istrappargli da dosso il manto nel quale cercava di drappeggiarsi; e per non ritenere tutti quelli che assistevano al comizio privi del ben dell’intelletto, giova ammettere che fossero ipnotizzati da tanta scempiaggine.
Subito dopo il tribuno si sente arrivare una doccia fredda sulla testa: la corte d’Appello rigetta il suo ricorso nella causa mossagli dal di Mauro; ma egli non smette la tracotanza, anzi invita il popolo a riunirsi appunto in piazza del Popolo per andare al Quirinale a recare un indirizzo alla Regina affinchè si ponga lei a capo della sottoscrizione nazionale per l’esposizione, e quando si vede circondato dai suoi fidi, li arringa, chiama Roma la madre naturale d’Italia e la Regina la madre morale. Aggiunge che non possono andare al Quirinale perchè il Governo non vuole dimostrazioni in piazza, e conduce i convenuti all’osteria dell’Ezio II, che era appunto sulla piazza. Aveva preparato la lettera e la lesse.
Nulla meglio di questa lettera può dar un’idea dello stato di mente di quell’uomo, che s’impose a Roma. Ecco quella prosa da manicomio:
- « Sacra Reale Maestà,
«Roma, gloriosa da secoli, padrona del mondo, ha veduto tramontare l’antico splendore.
«Risorta nel 1870 a libertà per opera del vostro immortale suocero, che ha succhiata la libertà dai membri della dinastia, ma vive da dodici anni una vita di sussulto.... Non è questo che occorre alla città eterna, la quale deve essere la più gloriosa delle metropoli capitali e invece è affetta da lenta consunzione. Per farla risorgere nuovamente alla sua grandezza occorrono miracoli.
«...Siete voi il nodo gordiano fra il vecchio e il nuovo.
«...Il culto della patria vuole l’esposizione mondiale, ma occorrono anche altri grandi lavori.
«Lanciate dunque all’Italia l’appello per una sottoscrizione nazionale, coadiuvata dal vostro glorioso marito, e l’Italia risponderà unanime al vostro appello dando mano così a fare di Roma la più capitale fra le metropoli.
«Per il popolo di Roma: |
Sempre in quell’osteria fra i litri e le fogliette Coccapieller chiese al popolo se la lettera gli piaceva, e il popolo rispose si; allora il tribuno disse: «Giacchè non ci hanno permesso di andare al Quirinale e che il popolo non può presentarsi alla Regina in carne e ossa, ci andranno le sue firme»; e promise che la lettera sarebbe stata sottoscritta da centomila cittadini.
Due o tre giorni dopo, nuovo comizio al Corea per il solito zibaldone di esposizione, di votazione della lettera alla Regina, e di presentazione di Ricciotti Garibaldi come candidato.
«La Roma d’oggi è ancora la Roma del 1870, diceva il tribuno. Tranne quello che si è fatto ab alto nella strada della via Nazionale, non si è fatto nulla.
« Bisogna cambiar sentiero.
« A Roma manca tutto.
«Manca lavoro, manca industria e si finirà per mancanza di fiato!
«Noi dormiamo, ecco tutto, e quando si dorme si sbadiglia, e quando si sbadiglia, le mosche....
«Prima che prendessi la parola io in Parlamento, che facevano gli uomini del Comune? Dormivano. Ma ora ci sono io, e io gli svegliero!
«Parlerò dell’esposizione, idea grandiosa e travaglio di Felice Orsini (voleva dir Cesare), un uomo che io ho veduto una volta sola. Ma a me basta. E ora gli si vuol togliere a lui quel travaglio, che lui ha confezionato. Perché gli si vuol togliere dal Comune?»
Il popolo impazientito zittiva; un delegato voleva far uscire i disturbatori. «Lasciateli fare» esclama Coccapieller senza sentirsi colpito dall’affronto «son gente che non capisce e bisogna compatirli». Ma il bello si è che nessuno capiva, e i fischi continuavano ad empire il teatro. Il tribuno non si lasciava turbare per così poco, e continuava: «Dunque l’invito fu fatto dalla monarchia e la monarchia deve fare l’esposizione, ecco perché io ho scritto la lettera alla Regina, perché trattandosi di toccare il cuore delle donne d’Italia è bene di rivolgersi alla prima delle donne italiane, alla madre morale dell’Italia.
«Da poi che ha preso a bersagliarmi la setta affaristica il mio giornale non va più fuori, non si vende più e ci rimetto e dovrò cessare le pubblicazioni, ma prima butterò fuori tutto quello che ho».
Cosi parlava nei comizii il tribuno di Roma, ma era sempre seguito dal popolo, perchè il suo candidato Ricciotti Garibaldi raccoglieva due giorni dopo 2136 voti contro don Fabrizio Colonna. Ma quando si vide che nel periodo del ballottaggio fra questi due candidati l’Ezio II continuava ad aizzare la gente, e che eletto Ricciotti si sarebbe venuti alla guerra civile, la parte apatica, ma ben pensante della cittadinanza romana uscì dall’inerzia, e Fabrizio Colonna fu eletto con 5429 voti e l’altro ne ebbt 3228.
In quei giorni la corte d’Appello aveva rigettato il ricorso di Coccapieller contro la sentenza che lo condannava a 42 mesi di carcere per sette reati di diffamazione.
Queste due sconfitte fiaccarono la fiducia del tribuno. Egli andò alla Camera il 9 già irritato, vide subito convalidata l’elezione Colonna, e neppure appoggiata una sua proposta, e dette le dimissioni, che furono seduta stante accettate. I deputati non volevano avere per collega quell’uomo, che offendeva tutti, che vilipendeva tutti, e glielo avevano fatto intendere chiaramente.
Un mese appena era trascorso dopo che aveva dato le dimissioni, che veniva arrestato per avere insultato un pretore, che avevagli ordinato un sequestro per due cambiali non pagate al sarto Aymerti. Il processo s’istrui con molta sollecitudine e il tribunale lo condannò ad altri 7 mesi di carcere. Poi ridusse la pena, ma ormai le speranze di Coccapieller erano svanite, e Roma pareva fosse rinsavita e non volesse più essere esposta allo scorno di sentire un pazzo, forte dei voti popolari, parlare spropositatamente in suo nome.
Ho voluto riassumere tutti i fatti svoltisi attorno a Coccapieller in un periodo di tempo di sette mesi circa, perchè il lettore avesse dinanzi agli occhi una specie di quadro dell’opera funesta di quell’uomo, ma non si deve credere che tutta la vita di Roma fosse assorbita e paralizzata dal capriccio del tribuno.
Ai 22 di gennaio il Palazzo delle Belle Arti s’inaugurava dal Re e dalla Regina con una splendida festa dell’arte, il cui esito era in gran parte dovuto al presidente del comitato esecutivo, onorevole Emanuele Ruspoli. Il duca Torlonia, che funzionava in quel tempo da Sindaco, aveva ragione di dire con giovanile baldanza e con cuore di romano: «Non è solo l’Italia, ma ogni nazione educata a civiltà, che saluta oggi il compimento di un’opera dalla quale è lecito ripromettersi larga mèsse di beneficii».
L’esposizione era bella davvero e a renderla ammirevole avevano contribuito gli artisti italiani, che avevano lavorato con nuova lena sapendo che a Roma dovevano essere giudicati. Su tutti trionfava Francesco Paolo Michetti col suo Voto, quadro ardito, al quale il tempo non aveva ancora recato offesa, e anche in quel primo giorno della inaugurazione ufficiale, e mentre nelle sale echeggiavano le note dell’inno di Ugo Fleres, musicate dal direttore della banda municipale, cav. Pezzini, gli artisti, gli amatori di pittura erano aggruppati intorno al quadro, illustrato già dalla magica penna di Gabriele d’Annunzio, e discutevano con criterii diversi la tela mirabile, ma nessuno negava al giovane collega di Francavilla l’ingegno potente, la potentissima facoltà pittorica. A Napoli nel 1877, a Parigi nel 1878 Michetti aveva avuto il solenne battesimo dell’arte; ma a Roma fu consacrato maestro.
I giorni successivi il Re inaugurò al Campidoglio il congresso degli Architetti di cui fu eletto presidente il Betocchi, e dopo poco anche quello artistico nel locale della Filarmonica romana, alle Quattro Fontane. Camillo Boito, che era presidente della prima sezione di quello degli architetti, propose che fosse eletto presidente onorario del congresso artistico Terenzio Mamiani, e presidente effettivo Emanuele Ruspoli. Queste elezioni furono fatte per acclamazione, tanto rispondevano al desiderio di tutti. La prima era un atto di deferenza; la seconda di giustizia. Vice-presidenti furono Odescalchi e Barabino.
I dissensi di Torino fecero novamente capolino. Il sindaco invitò formalmente gli artisti a ritrovarsi in Roma nel 1885; Torino aveva già invitato pel 1884; ma quei dissensi furono presto appianati e gli artisti si posero d’accordo statuendo che Roma avesse ogni quadriennio una esposizione, invece che ogni biennio, per lasciare tempo che si tenessero mostre artistiche in altre città.
Quell’anno lunga fu la discussione artistica che dalla cinta ristretta della sede del Congresso e della Esposizione, invase il Parlamento e la città, e molti i festeggiamenti agli artisti. Il Circolo Artistico Internazionale dette loro un banchetto, al quale intervenne anche il Depretis; il municipio una geniale e sontuosa colazione alle Terme di Caracalla, sotto un ampio velario; la Corte un pranzo di 65 invitati, durante il quale Re e Regina, dismessa l’etichetta, parlarono confidenzialmente con tutti gli artisti, e specialmente con Camillo Boito e con Pio Piacentini. A lui il Re consegnò le insegne di commendatore della Corona d’Italia; al sindaco Torlonia quelle di grande ufficiale, e quasi il Re volesse fare solenne promessa ai suoi convitati che l’incoraggiamento agli artisti sarebbe stato un dovere di casa Savoia, alla fine del pranzo fece comparire il giovinetto Principe di Napoli presentandogli i commensali e facendolo partecipare alla lieta festa.
C’era nell’aria in quell’anno un grande effluvio di una fiorente primavera dell’arte. Esso penetrava anche alla Camera ove il ministro Baccelli espose il piano della grandiosa passeggiata archeologica, che pari a immensa cintura doveva stendere i suoi verdi viali attorno al Palatino, al Celio e al Viminale e ricingere i ruderi dei monumenti della via Appia: idea bellissima, caldeggiata in seguito anche dal Bonghi, ma rimasta allo stato d’idea.
Il ministro della Pubblica Istruzione faceva in quell’anno demolire il ponte, che celava l’arco e il tempio di Settimio Severo al Foro Romano, e faceva abbattere gli orecchi del Bernini, cioè i due campaniletti che deturpavano la cupola del Pantheon.
Il centenario di Raffaello fu solennizzato con pompa al Pantheon e al Campidoglio. Nel tempio dove riposano le ossa del grande artista, venne inaugurato il busto. Al Campidoglio il discorso fu fatto dal cav. Leoni, segretario di San Luca. In quella occasione il duca di Ripalda, che aveva tanto questionato col Governo per i lavori del Tevere, che recavano danni alla Farnesina, e aveva avuto causa vinta dalla corte d’Appello di Perugia, aprì il palazzo al pubblico. I lavori che si facevano allora nel fiume dalla ditta Cottrau, ad aria compressa, non recavano più nessuna offesa al bel palazzo Raffaellesco. Il duca era tutto contento, ma quasi la felicità non fosse, come assicura il Leopardi, privilegio di noi mortali, poco tempo dopo spirava.
Anche in quell’inverno, oltre le consuete esequie e un pellegrinaggio di veterani, ve ne fu al Pantheon un altro degli studenti monarchici di Torino, Pavia e Bologna, che dimostrò come anche nella gioventù che si cercava di staccare dal culto del gran Re, predicandole nuove dottrine e additandole nuovi ideali, quel culto si serbasse vivo.
Allegria non ve ne fu molta nell’inverno perché poche famiglie ricevevano, e anche perché quasi tutti gli ambasciatori erano stati cambiati e non v’era fra loro e la società romana quell’affiatamento che nasce dalla consuetudine. Al Quirinale vi furono i soliti balli e ad uno di quelli destò molta meraviglia la presenza del principe Luigi di Borbone, conte d’Aquila, fratello di Ferdinando II, re di Napoli. Il Principe appena giunto a Roma aveva fatto visita al Re e andò al ballo del Quirinale trattenendovisi tutta la sera. Il Re gli parlò lungamente e poi rivolse la parola al Nicotera. Certi contrasti non si vedono altro che a Roma.
Alla Camera, meno che per gl’incidenti provocati da Coccapieller, vi fu poco di notevole durante l’inverno. La seduta più importante fu quella in cui si discusse il libro Verde sull’Egitto. Dai documenti di quel libro l’on. Sidney Sonnino crede rilevare che il Governo avesse fatto dichiarare dall’ambasciatore Menabrea al gabinetto inglese che non poteva inviare un corpo d’esercito in Egitto.
L’on. Mancini disse che il documento era stato male interpretato, e il ministro della guerra aggiunse che al tempo dei fatti d’Egitto due corpi d’esercito erano pronti a partire.
Una impressione maggiore fecero le dichiarazioni del ministro degli esteri sull’unione perfetta dell’Italia con l’Austria-Ungheria e con la Germania, tendente a scongiurare pericoli di esterne aggressioni, e che aveva fatto scomparire lo stato d’isolamento, che tutti deploravano, e paralizzata ogni legittima influenza dell’Italia in Europa.
Il paese capì che vi erano impegni formali fra il nostro Governo e i due imperi, e capì pure che il Ministero era giunto a tracciarsi una linea di condotta nella politica estera. Questa sicurezza spinse la Camera ad appoggiare la politica estera del Governo, sulla quale non vi fu nessuna battaglia, come nessuna ne fu impegnata sui diversi bilanci. Soltanto da Sinistra si faceva guerra al Depretis per la sua politica interna, troppo simile a quella della Destra. Sul finire di maggio fu posto in discussione il programma del Governo e la Camera venne a un voto, che indicava chiaramente al Presidente del Consiglio che per conservare la fiducia di lei doveva staccarsi dagli elementi meno moderati del suo Ministero, che erano gli on. Baccarini e Zanardelli. Difatti l’on. Depretis ricompose il nuovo Ministero conservando tutti gli antichi colleghi; soltanto al ministero dei lavori pubblici pose l’on. Genala, a quello di grazia e giustizia l’on. Gannuzzi-Savelli. Queste due nomine furono consacrate da una maggioranza nuova, composta della Destra e dei centri, e gli onorevoli Cairoli, Crispi, Baccarini, Zanardelli e Nicotera si posero a capo della Sinistra ricostituita. Essi furono chiamati i Pentarchi, ma per lungo tempo non riuscirono a vincere la nuova e compatta maggioranza.
Ho detto che don Fabrizio Colonna era stato eletto contro Ricciotti Garibaldi. Il nuovo deputato patrizio si fece subito molto onore alla Camera chiedendo che fosse iscritto all’ordine del giorno il progetto per la bonifica dell’Agro Romano. La Camera approvò la bonifica idraulica e la bonifica agricola per una zona di 10 kilom. intorno a Roma.
In marzo era stato promulgato il decreto reale che approvava il piano regolatore per Roma; in quello stesso mese il municipio contraeva un prestito di quindici milioni con la Banca Nazionale d’accordo con le case Baring e Hambro di Londra. Quel denaro occorreva per metter mano ai lavori e non rappresentava altro che la prima parte del prestito di 150 milioni della città di Roma, che fu negoziato sui mercati esteri, e che il Governo garanti.
Il 12 aprile il Governo aveva ripreso i pagamenti in valuta metallica, e tutti correvano agli sportelli delle banche e all’intendenza di finanza per cambiare in oro e argento i biglietti, ed aver la soddisfazione di maneggiare, dopo tanto tempo, i pezzi di 20 o 10 lire e i grossi scudi di 5.
Il municipio mise subito mano ai lavori della larga via che ora porta il nome di corso Vittorio Emanuele, al proseguimento della via Cavour, all’allargamento della via Cacciabove, incominciò le espropriazioni del Ghetto dalla via Fiumara, e acquistò per conto del Governo il palazzo Corsini per ridurlo a palazzo delle Scienze. Il principe don Tommaso Corsini, con nobile disinteresse, regalò allo Stato la biblioteca e la mobilia.
Era già stata approvata la spesa di un milione per erigere il monumento Garibaldi. Fu bandito il concorso per quello, per il palazzo di Giustizia e per il Policlinico. I progetti per il primo dovevano esser presentati dentro il giugno 1884; per il secondo dentro il settembre dello stesso anno, e per il terzo in ottobre.
Architetti, capomastri, operai, tutti avevano dunque un largo campo d’attività; Roma doveva esser trasformata, e se l’impulso dato allora ai lavori fosse continuato per dieci anni almeno, Roma sarebbe divenuta una vera città moderna. Ma non precorriamo gli eventi. In quel tempo risveglio vi fu, e grandissimo, e tutti facevano a gara a dare sviluppo alla città.
Un lieto evento aveva rallegrato la Casa di Savoia: il 15 aprile nel castello di Nyphenburg il duca Tommaso di Genova aveva sposato la principessa Isabella.
Appena la notizia degli sponsali era stata comunicata, il Sindaco e la Giunta si erano recati al Quirinale per esprimere al Re il voto che le feste per le nozze si facessero a Roma. Si era inoltre costituito un comitato per i festeggiamenti, nel quale entrava pure la parte femminile di cui era presidentessa la duchessa di Gallese, e che teneva le adunanze al Campidoglio. Gli ufficiali intanto si esercitavano nelle armi per fare un carosello a Villa Borghese. Direttore di quella bella e nobile schiera era il generale conte Colli di Felizzano, e nelle quadriglie figuravano anche i senatori Vitelleschi e Sforza-Cesarini, i deputati Quarto di Belgioioso, di San Giuseppe, Ungaro e Colonna.
Gli sposi giunsero il 28 aprile e furono ricevuti con tutti gli onori possibili. La Principessa pareva sbalordita da tanto sfarzo, da tanta festa. Fu fatta una ritirata con le fiaccole e le signore presentarono alla sposa il loro dono consistente in una conchiglia naturale, montata in argento, e adorna dello scudo di Savoia e del monogramma formato da rubini, smeraldi e zaffiri.
Vi furono pranzi a corte, serate di gala e festeggiamenti pubblici in onore degli sposi, ma il carosello fu fra tutte le feste la più bella, e il colpo d’occhio che presentava la piazza di Siena con le quadriglie dei cavalieri bavaresi e di quelli sabaudi giostranti sotto il palco reale, era un vero incanto.
In quel carosello ebbe il posto d’onore il giovinetto Principe di Napoli, seguito da brillanti cavalieri, non certo di lui più saldi sul bellissimo baio coperto di maglia. Gli occhi di tutti erano fissi su di lui e sul palco dal quale la Regina, lievemente trepidante e orgogliosa, seguiva le evoluzioni del figlio nella vasta arena.
Il Re volle anche in quella occasione associare i poveri alla festa della sua famiglia, ed elargì ad essi 20,000 lire.
Alla fine di maggio fu inaugurato al Pincio il monumento di Ercole Rosa ai fratelli Cairoli. Vi erano tutti gli amici dei due giovani, i superstiti di quell’ardito tentativo, che terminò con un nuovo lutto per la famiglia Cairoli.
Gli arrestati per la commemorazione di Oberdank comparvero alla corte d’Assise in maggio e fra i loro difensori vi era pure Francesco Crispi, che disse insostenibile l’accusa di avere commesso reati capaci di provocare la guerra. Tutti gli accusati furono assolti, meno il Ferrari che aveva gridato «abbasso il colonnello austriaco!», il Tondi che aveva scritto articoli sovversivi nel Dovere e il Passero nel Ciceruacchio, i quali furono condannati a un anno di carcere e 500 lire di multa.
In giugno, i Sovrani ebbero la consolazione di ospitare al Quirinale la Regina di Portogallo insieme con i due figli. I giovani Principi non erano mai stati a Roma e Maria Pia volle presentarli alla sua famiglia.
Dopo un breve soggiorno qui, la nostra Regina condusse la cognata e i nipoti a Napoli, dove presto furono raggiunti dal Re. Tutti insieme assisterono al varo dell’incrociatore Savoia e ne fu madrina la Regina di Portogallo. Erano appena due mesi che i Sovrani avevano assistito a Livorno al varo della Lepanto; altre tre corazzate era già sui cantieri: la bella flotta italiana poteva dirsi dunque in formazione.
Nello stesso tempo, in cui era qui la buona figlia di Vittorio Emanuele, i romani furono chiamati alle urne per eleggere i nuovi consiglieri comunali e provinciali. Cresciuta la popolazione, dovevano essere aumentati anche i suoi consiglieri. Riuscirono eletti molti moderati, alcuni progressisti, alcuni che non si sapeva ancora se fossero carne o pesce, come don Giovanni Borghese, che era stato in Africa, e don Ugo Boncompagni, uno di quei giovani romani che dopo il 1870 aveva preferito di studiare all’Università di Lovanio piuttosto che a quella riordinata dal Governo italiano.
Si doveva eleggere anche un deputato, perché il collegio di Coccapieller era rimasto vacante, e un nome corse sulla bocca di tutti: quello di don Leopoldo Torlonia, al quale mancavano soltanto pochi mesi a raggiungere l’età prescritta dalla legge per sedere a Montecitorio. Nonostante fu eletto contro Coccapieller, e subito andò al Teatro Rossini, ove era adunato il comitato, che aveva propugnato la sua candidatura, e dove ebbe una calorosa dimostrazione promossa da Edoardo Arbib; il neo-eletto ne fu commosso e potè appena ringraziare. Un altro collegio di Roma era rimasto vacante, perchè il maggiore Corazzi era fra i deputati-impiegati, i quali, in seguito al sorteggio, dovettero deporre il mandato. Cesare Orsini, il quale per quell’idea della esposizione si attaccava a ogni gancio, dopo avere promosso comizii, dopo aver inondato Roma di manifesti, e aver distribuito schede di sottoscrizione fra il popolo, si attaccò a quello della elezione, portandosi contro Ricciotti Garibaldi, e riusci eletto. Ricciotti, come si capisce, era il candidato di Coccapieller, eppure non avvenne alcun disordine, segno evidente che il tribuno perdeva terreno ogni giorno.
In quell’estate, e appunto dopo le elezioni amministrative, che avevano dimostrato quanto profonde fossero le scissure nel campo liberale, si riconobbe da molti la necessità di fondare un’associazione che riunisse le forze sparse del grande partito. Le prime adunanze furono tenute nel palazzo Sciarra, in casa di don Maffeo, e la nuova associazione s’intitolò Unione Liberale. In autunno essa sentì il bisogno di avere un giornale, al quale si pose nome La Tribuna, e che Luigi Roux diresse per un certo tempo. Era un giornale modesto, non aveva tipografia, nè si poteva supporre mai che dovesse trasformarsi nel gran giornale che fu poi.
Il principe Sciarra, al quale non mancavano nè idee nè attività, aveva avuto la massima parte nella fondazione dell’Unione Liberale. Egli faceva già parlar di sè; aveva in sei mesi ricostruito il Quirino e le case adiacenti, ed era, come tanti signori in quel tempo, preso dalla frenesia di strafare, frenesia del resto che trascinava anche altri, non principi, nè ricchi, fra i quali l’editore Sommaruga, che senza sapere se avrebbe mai potuto smerciarli stampava migliaia e migliaia di libri di ogni genere; alcuni eccellenti, altri pessimi, inondando il mercato libraio di volumi che pochi giorni dopo aver pubblicati, spesso anche anche prima, offriva ai librai a metà prezzo, e mandava a vendere per soldi sui banchetti quando il bisogno di danaro, che quasi sempre risentiva, stringevalo forte.
Il Papa, tutto occupato delle variazioni della politica tedesca rispetto a lui e della perplessità in cui tenevalo il Governo della Repubblica francese, non faceva cosa che potesse su di lui attirare l’attenzione di Roma. La più notevole manifestazione di Leone XIII in quell’anno fu la lettera ai cardinali de Luca, Pitra, e Hohezengrother per indurli a promuovere gli studi storici.
Si parlò pure dei doni sontuosi che egli fece alla sposa del nipote Camillo, donna Maria Bueno. Li recò a Parigi monsignor Cataldi: essi consistevano in due quadri di mosaico dell’officina vaticana, in due rosari di pietra dura, e in un finimento di brillanti. Il matrimonio fu celebrato con gran pompa alla nunziatura di Parigi ov’era allora monsignor Rende, arcivescovo di Benevento. Gli onori furono fatti dalla marchesa di Rende, madre del prelato, gran dama napoletana del vecchio stampo, dotata di uno spirito arguto e di una cortesia unica. Gli sposi vennero dopo le nozze a Roma, e il Papa li ospitò in un quartiere a Santa Marta.
Il nuovo e più grande disastro di Casamicciola commosse la città. A Ischia si trovavano per cura molti romani e molte persone che abitavano di consueto qui; Roma era ansiosa, agitata per aver notizia del disastro. Il Re corse subito in sollievo dei miseri abitanti, il Papa mandò al vescovo d’Ischia 20,000 lire, l’imperatore di Germania 50,000 marchi. Roma, che aveva saputo raccogliere nel resto d’Italia più di 3 milioni per gl’inondati del Veneto, raccolse anche per i poveretti d’Ischia somme ingenti. Furono fatte passeggiate di beneficenza, feste pubbliche, ogni società mando offerte, quasi ogni giornale apri sottoscrizioni, e il duca Torlonia, funzionante da Sindaco, che aveva un forte residuo sul fondo raccolto per gl’inondati del veneto, mandò subito a Casamicciola 50,000 lire e 500 del proprio. Fra i Consiglieri nacque una gara generosa di carità, ma appunto perchè i cuori erano angosciati, si accusavano con violenza le autorità militari e le politiche per i tardi e incompleti soccorsi ai disgraziati, colpiti nel volger di due anni da due immensi disastri.
La commemorazione del 20 settembre, diretta dal municipio, fu bella, semplice e dignitosa e un’altra cerimonia patriotica si preparava: il grande pellegrinaggio nazionale alla tomba di Vittorio Emanuele nel giorno commemorativo della morte di lui. Si era costituito qui un comitato promotore, di cui era presidente don Fabrizio Colonna. Il Re voleva che i pellegrini al loro giungere al Pantheon trovassero la tomba già sistemata in altro luogo, e più degnamente; egli mandò un telegramma al ministro dell’Istruzione pubblica, che rivelava tutta la sua sollecitudine di figlio e di custode della gloria paterna. L’on. Baccelli rispose che la tomba sarebbe stata eretta in mezzo al tempio e che aveva affidato la cura di preparare il monumento a Giulio Monteverde.
Se i parenti di Leone XIII facevano parlare di sè per le feste nuziali di Parigi, quelli di Pio IX stancavano i tribunali per le loro pretese.
La contessa Mastai-Ferretti, nata del Drago, nipote del Papa defunto, come tutrice della propria figlia Cristina, aveva ricorso contro il testamento di Pio IX; si era venuti a un accomodamento e i cardinali, esecutori testamentari del defunto, avevano sborsato a titolo di transazione una somma di 250,000 lire. La contessa, con grande scandalo aveva venduto all’asta molti oggetti appartenenti al Pontefice, e nel 1879 chiamava in giudizio dinanzi al tribunale di Roma il ministro delle finanze del regno d’Italia chiedendo a favore della minorenne la sesta parte delle rendite assegnate al Papa dalla legge delle guarentigie, e da lui non riscosse. Alla Contessa si unirono gli altri coeredi contessa Anna Arsilli, e i conti Gerolamo e Antonio Mastai-Ferretti. Il tribunale tre anni dopo rigettava le domande, ma gli eredi ricorrevano in appello e la corte rigettava pure il ricorso allegando che il Pontefice, col non aver riscosso la dotazione, niun diritto alla stessa aveva fatto valere e per conseguenza non poteva trasmetterlo ai suoi eredi.
Alla fine d’ottobre tutta la Roma ufficiale andò all’inaugurazione della linea ferroviaria Terni Rieti-Aquila-Sulmona. Banchetti sontuosi e ospitali accoglienze ebbero il ministro Genala, don Leopoldo Torlonia e tutti i numerosi invitati così dalla direzione delle Meridionali come dai paesi toccati dal treno inaugurale, e specialmente dall’Aquila. In questa città il conte Bastogi, presidente delle Meridionali, credè bene di fare la difesa propria e quella della società parlando in un banchetto che offriva alle autorità, ai deputati abruzzesi e ai numerosi giornalisti di Roma. La cosa non parve punto opportuna, tanto più che c’erano stati gravi dissensi fra le Meridionali e il Governo, e appunto accanto al conte Bastogi sedeva il ministro Genala. Il discorso del Bastogi fu spesso interrotto e commentato ad alta voce da alcuni giornalisti fra i più assuefatti a usare pochi riguardi e s’andò a un pelo che il banchetto non finisse in una scenata.
In quei giorni Roma aveva accolto nelle sue mura gli scienziati di ogni parte del mondo convenuti al Congresso Geodetico e in esso fu decretata una medaglia al generale Bayer iniziatore di quegli studi in Germania. Il venerando vecchio non assisteva alla festa, ma vi assisteva il figlio di lui, che recò a Berlino i saluti e gli augurii di tutti gli scienziati insieme con l’onorifico distintivo.
Arte e scienza sollevavano gli animi dalle meschine cure quotidiane e provocavano fruttuose discussioni, come quella che s’impegnò sul Locus Vestae scoperto al Foro Romano e alla quale prese vivissima parte il Bonghi. Molte se n’erano impegnate per le onorificenze accordate agli artisti, che avevano esposto alla mostra, e per gli acquisti fatti dal Governo. Oltre questi, diversi ne aveva ordinati il Re, non pochi i privati, cosicchè fu venduto per 1,068,763 lire, somma ragguardevole, che non si sperava potesse essere raggiunta.
In quell’autunno tornò dallo Scioa il conte Pietro Antonelli recando seco i due moretti dell’Antinori, che destarono a Roma tanta curiosità. Il giovane viaggiatore andò a Monza a recare i doni ai Sovrani, e tenne una conferenza al Collegio Romano.
A Camera chiusa i Pentarchi avevano fatto un gran lavorio per la ricostituzione del partito e lo Zanardelli in un banchetto a Napoli aveva accusato il presidente del Consiglio di esser passato a Destra, e di avere sciolto i comizii di Romagna. Il Depretis adunò la maggioranza e asserì che se avesse interrogato il paese, esso avrebbe risposto che voleva l’ordine e la calma. Gli attriti fra il partito del Governo e i dissidenti avevano acquistato un carattere acerbissimo. Il Nicotera offeso da un libello contro di lui e del quale riteneva ispiratore il Depretis, non volendo inveire contro un vecchio, schiaffeggiò a Montecitorio il segretario generale per l’interno, on. Lovito. I due deputati si batterono ed entrambi rimasero feriti, e feriti seguitarono a battersi. Il Lovito si dimise.
Dal gabinetto era pure uscito l’on. Acton e in sua vece era andato al ministero della marina il contrammiraglio del Santo, che aveva tenuto fino a poco prima il comando della squadra.
Il Principe Imperiale di Germania, il caro amico dell’Italia aveva fatto un viaggio in Ispagna. Al ritorno da Madrid s’imbarcò a Barcellona, prese terra a Genova, e il 18 dicembre era a Roma, ospite del Re al Quirinale. Il Principe andò anche al Vaticano ed ebbe un lungo colloquio col Papa. Vi si recò in carrozza di rimessa, partendo dal palazzo Caffarelli.
Dalla Corte fu ricevuto con onori sovrani e con grande effusione di amicizia. Il Re lo abbracciò ripetutamente al suo arrivo; la Regina gli mosse incontro dal Salone degli Svizzeri, ed il Principe dopo averle baciata la mano, la baciò in fronte.
Federico Guglielmo assistè insieme col Re alla più grandiosa rivista che fosse stata passata a Roma dopo quella dell’ottobre del 1870. Il Re, il Principe e il giovine Principe di Napoli salirono a cavallo a Ponte Molle e andarono alla Farnesina, ove già erano schierati i soldati. Essi erano seguiti da un numeroso e brillante corteo di ufficiali. Fra i soldati figuravano per la prima volta i bellissimi Alpini, che il principe ammiro molto. Appena tornato al Quirinale volle rivedere i reggimenti da spettatore, e andò in piazza di Spagna a piedi, vestito in borghese.
In quei giorni di feste il Principe Imperiale trovò tempo di occuparsi anche d’arte. Visitò i
Da una foto Alinari | ||
PALAZZO DEL SENATO — IL SALONE DECORATO DI AFFRESCHI DAL PROF. MACCARI |
Federigo Guglielmo andò a visitare donna Laura Minghetti e la figlia di lei, contessa Dönhof. Il signor di Keudell offri al Principe ed ai Sovrani una colazione nel palazzo dell’ambasciata germanica, al quale furono invitati i ministri, il marchese e la marchesa Lavaggi, il duca e la duchessa Sforza Cesarini, il cav. Minghetti, donna Laura e la contessa Dönhof.
Il 20 andò alla Camera nella tribuna diplomatica. Discutevasi il bilancio dei lavori pubblici, e nell’aula era appena ristabilita la calma, turbata da gridi partiti dalla tribuna pubblica di «Viva Trieste! e da bigliettini verdi lanciati nell’emiciclo, da quella riservata. I gridi erano stati emessi da un giovinetto, un certo Baldini, il quale disse alle guardie: «Eccomi, eccomi, non scappo», i bigliettini erano stati lanciati da un certo Luigi Rempicci, compositore nello stabilimento Bontempelli, e contenevano il testamento di Oberdank, del quale ricorreva in quei giorni la data della morte. Negli anni precedenti il Cordigliani aveva lanciato sassi nell’aula, e il Maccaluso un revolver; ma quei fogliettini verdi commossero più che non i selci e l’arme.
Il Principe Imperiale partì in forma solenne, e a Roma, che gli fece una di quelle ovazioni che non si dimenticano, non tornò più; dal confine egli mandò al Re un fraterno telegramma, che avvalorava le dichiarazioni fatte dal Mancini alla Camera sulla unione perfetta della Germania con l’Italia.
Alla riapertura dell’anno scolastico si era inaugurato, senza pompa, il Collegio Militare nel palazzo Salviati alla Lungara, e il ministro della pubblica istruzione aveva istituite sei nuove scuole tecniche femminili.
Anche la ferrovia di Porto d’Anzio era pronta per essere aperta al pubblico, e ovunque si abbattevano case e si gettavano le fondamenta di altre. Sotto il piccone demolitore era caduto anche il Caffè del Parlamento; era condannato in parte il palazzo Strozzi; scomparivano le case di via de’ Cesarini, e sorgevano i palazzi di piazza Vittorio Emanuele, quello Caprara, il tempio Inglese in via del Babuino, e quello Valdese in via Nazionale.
L’inaugurazione fu fatta il 25 novembre. I Valdesi avevano mandato già, fino dal 1870, un loro pastore a Roma. Il primo era stato il rev. Matteo Prochet, il secondo il rev. Augusto Meille, ma vi erano rimasti poco. Più a lungo vi rimase il rev. Giovanni Ribetti, che nel decennio della sua permanenza predicò indefessamente il Vangelo, prima in via Gregoriana, poi in una sala in via delle Vergini, e per ultimo in via dei Serpenti, vedendo di anno in anno farsi sempre più numerose le riunioni.
Nel 1883 era a Roma, oltre il presidente del Comitato d’evangelizzazione, il rev. Daniele Buffa, che vi è rimasto fino al 1894.
Da parecchi anni il tempio era in costruzione, e dopo superati infiniti ostacoli si potè inaugurare con il concorso di tutti i pastori delle chiese evangeliche del mondo. L’inaugurazione fu semplice e austera, come ogni cerimonia dell’antica chiesa, che ha conservato ai piedi delle Alpi le sue primitive tradizioni. I Valdesi ebbero in quel giorno testimonianze di sincera simpatia da ogni città italiana, e anche i giornali di Roma furono larghi di elogi per l’opera loro.
Sul finire dell’anno 1883 a Roma non si pensava ad altro che al grandioso pellegrinaggio italiano e dopo quasi sei anni che Vittorio Emanuele era sparito dalla scena del mondo, regnava ancora nel ricordo di tutti.
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