Roma italiana, 1870-1895/Il 1885
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Il 1885.
Da più tempo, come ho accennato, il Paese e il Governo tenevano gli occhi rivolti all’Africa, dove gl’Inglesi si battevano, dove la Francia estendeva sempre più i suoi possessi e la sua influenza, dove la Germania intraprendeva la sua politica coloniale. Parve che la notizia dell’eccidio del Bianchi vincesse le titubanze del ministero. È un fatto che appena si conobbe quella notizia fu formato il primo corpo di spedizione, che dicevasi destinato ad Assab. Lo componevano: un battaglione di bersaglieri, comandato dal tenente colonnello Putti di Bologna e dai capitani Gardini, Vianelli, Rovida, e Garofolo; (i soldati erano stati estratti a sorte in diversi reggimenti); la prima compagnia del 17° artiglieria, con sei pezzi, comandata dal capitano Blasi; un plotone del genio costituito con elementi del 2° (zappatori) e del 3° reggimento (telegrafisti), comandato dal tenente Crociani; un drappello carabinieri, e un altro drappello per servizi di sanità e approvvigionamenti.
Il corpo era comandato dal colonnello Saletta, di stato maggiore, il quale aveva come ufficiale addetto al comando il capitano Pio Spaccamela.
La spedizione si formò a Napoli e i soldati tanto là, quanto nei paesi da cui partivano, erano salutati con vero entusiasmo. Essi pure erano lieti di far parte della impresa africana, e il miraggio dei lontani paesi e dei pericoli infiammava i loro animi giovanili.
Le truppe presero imbarco sulla corazzata «Principe Amedeo», sulla quale aveva issata bandiera di comando il vice-ammiraglio Bertelli, e sul piroscafo «Gottardo» della Navigazione Generale. Le navi che scortavano la spedizione erano: l’«Amerigo Vespucci», la «Garibaldi», la «Castelfidardo», il «Messaggero» e la «Vedetta». Sulla prima era imbarcato il Caimi che comandava la divisione.
CRIPTA SOTTERRANEA IN S. LORENZO E TOMBA DI PIO IX
Le due navi della spedizione, che trasportavano i soldati, dovevano salpare il 15 da Napoli, ma il tempo orribile lo impedì, e quei due giorni furono spesi dai napoletani per fare ogni sorta di dimostrazioni di simpatia agli ufficiali, ai bersaglieri e al viaggiatore Cecchi, che accompagnava la spedizione. Il 17 finalmente le due navi si allontanarono dal porto salutate da una ovazione, e dalle artiglierie, e il mal tempo avendole costrette a rifugiarsi a Messina, i soldati trovarono anche là nuove accoglienze, e nuovi saluti cordiali alla partenza. Per tutto era stato augurato loro buon viaggio e buon ritorno, ma quanti di quei primi spediti non hanno riveduto le prode italiane!
I giornali della Pentarchia, sempre armati contro il Governo e pronti a difendere la politica tunisina dell’on. Cairoli, scrivevano che gli Italiani sarebbero rimasti padroni delle sabbie di Massaua; inutile dire che i fogli clericali tenevano lo stesso linguaggio.
Lo stesso giorno che le navi salpavano da Napoli si riaprì la Camera e il Mancini credè suo dovere fare alcune dichiarazioni che non soddisfecero punto gli avversari, ma non furono così vivamente combattute da credere necessario un voto. Si riprese, dopo ciò, la discussione delle convenzioni ferroviarie, che stettero lì lì per naufragare quando si venne all’articolo che lasciava in facoltà della Società Mediterranea di stabilire la sua sede in una città da destinarsi. Il Ministero si ostinò su questo punto, e i pentarchi ne fecero vivace questione; ma Depretis vinse.
La discussione su quest’eterno progetto di legge appassionava molto meno il paese e la Camera che non la politica coloniale, e ogni piccolo motivo spingeva i deputati alle interpellanze. Il 27 gennaio ne sono presentate quattro, quasi identiche, dagli onorevoli De Renzis, di Camporeale, Parenzo e Oliva, e una quinta dal Canzi, il quale fa ricadere sul Governo la responsabilità per l’uccisione del Bianchi, accusandolo di timidità, lentezza e irresolutezza dopo l’eccidio Giulietti. Il ministro degli esteri si difende come può; dice che non vuole una politica di espansione, ma che occupa le terre africane per estendervi i beneficii della civiltà, e per coadiuvare le potenze civili nei loro sforzi. Egli vuole che l’occupazione di un territorio abbia scopo economico e politico e che non sia in opposizione con i diritti acquisiti; vuole pure che l’attività del popolo italiano secondi l’impresa del Governo.
Il giorno prima di questa interpellanza gl’italiani s’impossessavano Beilul e i soldati egiziani, che occupavano quel luogo ove il povero Giulietti era perito, venivano imbarcati sul Corsica e spediti a Massaua.
Un’altra scaramuccia vi fu alla Camera per la convenzione conclusa fra l’on. Brin, ministro della marina, e la casa inglese Armstrong, a fine d’istituire a Pozzuoli un cantiere che fornisse cannoni e corazze alle nostre navi. I pentarchi combatterono quella misura utile e forse non si vedrebbe ora sul bellissimo golfo il fiorente stabilimento, se Rocco de Zerbi non avesse difesa con efficacia di criterii e di parole l’opera del Brin.
Mentre qua l’irritazione della Pentarchia per la politica africana del Governo si manifestava con una guerra continua non solo al Mancini, ma a tutto il Gabinetto, che lo seguiva, in Africa gl’inglesi avevano uno di quegli scacchi, dopo i quali essi sanno rialzarsi più forti che mai. Kartum cadeva nelle mani del Mahdi.
Qui allora si sognò che il Governo italiano volesse intraprendere una guerra in aiuto dell’Inghilterra e si fecero mille supposizioni nel buio, perché lo scopo della prima spedizione e della seconda, che stava per partire da Napoli, non era ben definito. Quello scopo s’incominciò a capire quando seppesi che il Gottardo e l’Amerigo Vespucci avevano sbarcato i soldati a Massaua.
La seconda spedizione partì il giorno 11 febbraio sul Vincenzo Florio e sull’Amedeo, era comandata dal colonnello Leitnitz e recava un battaglione di fanteria su piede di guerra, carabinieri, genio, ecc. Sul primo di quei bastimenti avevano preso passaggio un cappuccino, il padre Bonaventura, per i bisogni religiosi della spedizione, e il capitano Mancini, figlio del ministro, che doveva consegnare a Porto-Said due lettere, una del Re e una del ministro degli esteri per il Negus Giovanni al capitano Ferrari, che insieme col capitano Nerazzini andava in missione in Abissinia.
Una terza spedizione partì sul Washington e nello stesso tempo si armavano a Spezia due squadriglie di torpediniere per iscortarla, e sul Conte di Cavour s’imbarcava il materiale. Questa terza spedizione era comandata dal generale Ricci e comprendeva 62 ufficiali e 1550 uomini.
Se da un lato i soldati erano salutati con ogni dimostrazione di simpatia al momento della partenza, il ministro, che li spediva in Africa, era fatto segno a tutte le diffidenze e a tutti gli attacchi possibili. Alla Camera poco meno si diceva o giù Mancini, o votiamo contro le convenzioni ferroviarie, che stavano, come si sapeva bene, molto a cuore al Presidente del Consiglio.
Peraltro dopo una quantità di vicende varie e curiose che potrebbero dar campo a un deputato di scrivere la storia di quel periodo parlamentare, le convenzioni furono approvate, ma non cessarono per questo le interpellanze sulla politica coloniale. Gli avversari sapevano che il Mancini non aveva l’abilità del Depretis al banco dei ministri, e lo tiravano sempre in ballo per fargli fare dichiarazioni di cui nessuno degli interpellanti era pago, e sulle quali il mago di Stradella evitava il voto.
Occupata Massaua, impegnati gl’inglesi nella campagna di rivendicazione, gl’italiani d’Africa stavano in attesa di ordini e di eventi, imbelli contro il clima, nemico che non erano preparati a combattere, e che li uccideva senza misericordia. In Italia giungevano le notizie della mortalità e tante altre sconfortantissime, e il giornale la Tribuna, che aveva mandato il Belcredi in Africa, si dava cura d’illuminare il paese sulla insania della spedizione fatta alla cieca, e sulle sofferenze di ogni genere cui erano sottoposti i nostri soldati. Un vero pànico a quelle notizie aveva invaso l’Italia; se tanto soffrivano i soldati in primavera, che cosa sarebbe mai avvenuto durante la stagione estiva? veniva fatto di pensare.
Questi erano i timori che angustiavano i romani come gl’italiani tutti in quel tempo, e che bastavano quasi a distoglierli da ogni altro pensiero. Però non era cancellato il ricordo dell’atto generoso compiuto dal Re ne dei bisogni di Napoli. In breve tempo il Parlamento esaminò ed approvò il progetto di legge per il risanamento della bella e infelice città, e stanziò una somma di 100 milioni per i lavori. Era generalmente noto quanto il Re avesse contribuito a fare entrare nella coscienza dell’Italia la necessità di risanar Napoli, e quante volte egli avesse dimostrata quella necessità ai ministri. Per questo la riconoscenza per lui era immensa, specialmente nelle province del Mezzogiorno. Una deputazione di abitanti della Basilicata, condotta dal presidente Michele Lacava, venne a recare a Umberto I un album contenente 38,000 firme, e il 14 marzo il ministro della Real Casa, conte Visone, presentava al Re la medaglia d’oro a nome del Consiglio dei Ministri, insieme con una pergamena riccamente miniata e che ricordava tutti gli atti di sublime abnegazione compiuti da lui nell’autunno precedente, i quali provocarono il plebiscito d’affetto.
In quel giorno il Re collocò la prima pietra del monumento al conte di Cavour ai prati di Castello, ma non poté consegnare le bandiere ai reggimenti nuovi 79° e 80° della brigata «Roma» per uno dei soliti attriti col Vaticano. Per quello fu rimessa anche la rivista col pretesto del cattivo tempo.
Il cardinal Sanfelice sapendo che anche a Napoli dovevansi benedire le bandiere, aveva chiesto istruzioni al Papa, il quale pare avesse ordinato che le bandiere non dovevano esser benedette. Questa proibizione rese titubante monsignor Anzino; il ministro della guerra, general Ricotti, fece peraltro sapere al Vaticano che se non toglieva la proibizione egli avrebbe con decreto reale abrogato la disposizione che prescrive le bandiere sieno benedette. Cosi il Vaticano dovette cedere e due o tre giorni dopo il 14 fu eretto un altare sotto il porticato a sinistra della caserma del Macao, sul fondo fu posto un arazzo raffigurante la giustizia, sul davanti alcuni pendoni di velluto e monsignor Anzino, prima che le bandiere fossero consegnate ai reggimenti le benedì. Il Re, all’atto della consegna, disse volgendosi ai nuovi reggimenti:
- «Ufficiali, sottoufficiali e soldati,
«Con questa bandiera, che sventolo gloriosa sui campi nostri e su quelli d’Oriente, si compierono i destini d’Italia.
«Incomparabile valore, così per le memorie del passato come per le speranze dell’avvenire sia questo sacro emblema, che le vostre virtù renderanno sempre rispettato e temuto».
Durante la cerimonia il Re aveva a fianco il principe di Napoli e quando i reggimenti sfilavano dinanzi al Sovrano, il principe Vittorio Emanuele teneva gli occhi fissi sui soldati ed era serio in viso più che nol comportasse la sua età. Egli era commosso, ma più commossa ancora era la Regina, che non staccava lo sguardo di sul figlio forse pensando che l’avvenire e le sorti di lui erano indissolubilmente legate a quelle bandiere.
Roma avevale donate ai due reggimenti e le alunne della scuola professionale avevano ricamato nel campo bianco lo stemma sabaudo. Sullo scudo le donatrici avevano fatto incidere questa dedica composta dal Bonghi:
«Alla brigata dell’esercito italiano — Che prende nome da Roma — Le donne romane — Hanno data questa bandiera — Per ricordo ai prodi dell’antico valore — E in augurio dell’antica fortuna».
In quello stesso mese di marzo il Re pose la prima pietra del monumento a Vittorio Emanuele. Però i romani non erano ancora convinti che la località scelta fosse la più adatta. Si prevedeva, quello che è avvenuto, che i lavori fossero resi difficili appunto dalla località, le espropriazioni costose, e non lievi i danni agli edifizi attigui. Le guardie di città dovettero abbandonare la loro caserma accanto alla chiesa di Aracoeli e riunirsi in piazza di Sora; i cappuccini protestarono e un grande scetticismo si manifestò in città per l’immenso lavoro intrapreso.
Il palazzo delle Belle Arti, che era chiuso da un pezzo, si riaprì a quattro esposizioni simultanee, cioè quella del Risorgimento, e l’altra dei monumenti di Roma, che avevano figurato a Torino, quella artistico-industriale degli oggetti di legno intagliato, la prima di siffatto genere che si vedesse a Roma, e che riuscì bellissima per le intelligenti cure del principe Odescalchi e del prof. Erculei, e quella dei cultori e amatori di belle arti. Troppa grazia! disse qualcuno vedendo tanta roba, e così diversa, esposta nel palazzo di via Nazionale. Peraltro le due prime furono utili perchè permisero ai romani, che non erano andati a Torino, di giudicare in quale veste si era presentata Roma alla bella esposizione nazionale; la terza fu utilissima perché offri agli studiosi e agli artefici larga mèsse di osservazioni sui modelli del passato, scelti con criterio e ben disposti; la quarta sola fu inutile, come quasi tutte le piccole mostre artistiche, che troppo spesso si ripetono e accolgono sempre lavori degli stessi artisti.
L’imprigionamento di Sbarbaro aveva fatto diminuire sensibilmente la tiratura delle Forche Caudine, che nell’estate precedente era salita fino a 40,000 copie. L’editore Sommaruga, fra i guadagni palesi e quelli occulti, aveva trovato con lo Sbarbaro così proclive nel diffamare, e col suo sistema di mandar le bozze degli articoli ai diffamati, una vera vena aurifera, che si esauri presto peraltro. Le Forche, affidate al Maccaluso, più scrupoloso dello Sbarbaro, e poi al Foschini, che non aveva misura e non era Sbarbaro, decadevano, ma il Sommaruga aveva già pensato a creare un altro giornale, il Nabab, giornale elegante e mondano, diretto da Enrico Panzacchi. Il Sommaruga aveva immaginato un abile quanto pericoloso sistema per collocare molte azioni del Nabab, e se tutti i pesci avessero morso all’amo, il nuovo giornale sarebbe divenuto degno del titolo. Egli faceva accennare negli articoli delle Forche e in una specie di programma «Roma palese e Roma occulta», che stampava anche nella Cronaca Bizantina, tanti nomi di persone che avrebbe molestato, e a quelle stesse inviava una scheda di sottoscrizione di 500 lire.
Questo giochetto non sfuggì al questore Serrao, che teneva d’occhio il Sommaruga. Il Nabab vide la luce e aveva tutte le apparenze di un giornale onesto, perchè l’editore sapeva che Enrico Panzacchi non si sarebbe prestato mai a nessuna bassezza, e che la rispettabilità del direttore del Nabab gli giovava. In quel tempo a Roma voci strane correvano sul Sommaruga; si diceva che fosse stato lui che avesse venduto il segreto del nascondiglio di Sbarbaro alla questura, che avesse tentato di vendere anche le Forche, e che egli fosse rovinato. Difatti deprezzava libri che avrebbero potuto rendergli molto, offrendoli sul mercato a un prezzo molto inferiore a quello segnato sulla copertina prima ancora di pubblicarli, come faceva per «Alle Porte d’Italia» del de Amicis, mentre poi pagava profumatamente gli scrittori del Nabab, e non si negava nessun lusso, neppur quello di una bellissima donna, la famosa Adele Mai, che era l’attrattiva principale delle serate della Cronaca Bizantina quando aveva sede nel mezzanino sull’angolo fra i Due Macelli e il Tritone, e poi in via dell’Umiltà.
Il Sommaruga fu arrestato il 21 febbraio e la notte avanti s’era mostrato al Costanzi, al veglione, in compagnia della bella etera. Fu dichiarato il fallimento, ma il Sommaruga ottenne subito la libertà provvisoria, con l’obbligo di soggiornare a Palestrina.
II processo contro Angelo Sommaruga si fece soltanto nell’estate. I capi d’accusa erano molti. Egli si trovava colpito dalla imputazione di truffa continuata per aver carpito denari e oggetti agli artisti Serra, Bazzani, Michetti e Carcano, promettendo loro appoggi illusorii per fare acquistare dal Governo i loro lavori; di tentativi di truffa, per aver cercato di ottenere denaro ed oggetti dagli artisti Azzolini, Jacovacci, Gallori e Laccetti, facendo loro promesse, che sapeva di non poter mantenere; di tentativi di estorsione a danno del comm. Oblieght, dei senatori Allievi e Villapernice, del comm. Rattazzi e della signora Enrichetta Castellani, per aver tentato di carpir loro denaro con pubblicazioni scandalose.
Il Sommaruga comparve all’Assise a piede libero, e come testimoni furono uditi i letterati più insigni e gli artisti più celebri d’Italia. Il de Renzis e l’on. Martini, segretario generale della pubblica istruzione, esclusero che nella commissione per l’acquisto delle opere esposte alla mostra del 1883, fosse possibile che si commettessero mercimoni, dato il modo della votazione; molti artisti furono generosi, come il Michetti, che attesto di aver dato al Sommaruga 6000 lire spontaneamente sul prezzo ricavato dalla vendita del Voto, e anche questa confessione di avergli data una somma la fece solo messo alle strette. Lo Sbarbaro, tradotto ammanettato come testimone, fu amenissimo, e dette al suo editore dell’asino quanto ne volle; altri aggravarono la situazione del Sommaruga, che fu condannato a sei anni di carcere e a 660 lire di multa. Però quel processo, come l’arresto dell’avv. Lopez mentre difendeva lo Sbarbaro, fecero capire che c’era molto, ma molto marcio a Roma.
Il Lopez era accusato di ricettazione di una parte dei milioni rubati alla sede di Ancona della Banca Nazionale. La Governatori, moglie di uno dei condannati, aveva consegnato all’elegantissimo avvocato abruzzese, il quale si concedeva tutti i lussi, anche quello di mantenere le donne galanti, 973,600 lire dietro ordine del marito. In sulle prime il Lopez aveva dato alla Governatori le somme che questa richiedevagli per mantenere la famiglia; dopo la faceva tornare più e più volte anche per ottenere 100 lire. Ella, che possedeva una ricevuta dell’avvocato, se ne valse e lo fece arrestare, e oltre a lui furono arrestati il fratello Filippo Lopez nella villa Doria al Vomero, il banchiere Baldini, la Governatori e altri. I mobili del quartiere di Filippo Lopez, il quale occupava il pianterreno di un bel palazzo al Castro Pretorio, furono venduti all’asta, e quella vendita fu un argomento di curiosità per la gente sfaccendata, che corse a vedere le raffinatezze di lusso di cui circondavasi l’elegante avvocato.
Sbarbaro trovò un altro difensore nell’avv. Muratori e dette da fare non poco al presidente Roberti e al pubblico ministero de Felici per la sua infrenabile loquacità. L’accusato si difese strenuamente, ma fu condannato a tre mesi di carcere per una lettera minatoria al Brioschi e a sette anni per gli altri reati. Il condannato ironicamente ringraziò la giustizia e fu tratto alle Carceri Nuove, dove, senza gli elettori di Pavia, sarebbe rimasto lungamente.
In appello la pena fu solo ridotta di tre mesi e diminuita la multa.
E tanto per non uscire dai processi accennerò a quello de Dorides-de Vecchi che fece nascere il sospetto nel pubblico del soverchio zelo del questore di Roma per fini ambiziosi. Il de Dorides era corrispondente dei giornali francesi e redattore del Journal de Rome. Un giorno da un tabaccaio di fronte al ministero di marina, egli dimenticò un pacco al suo indirizzo, proveniente da Spezia. Quel pacco conteneva disegni di navi e fu mostrato a un impiegato della marina. L’impiegato ne riferì al Ministro, che vide in quelle carte una prova che dall’arsenale di Spezia si mandavano notizie sul nostro materiale di guerra. Subito si gridò al tradimento; il de Dorides fu arrestato; si fece un’inchiesta alla Spezia e si scoprì che il corrispondente del giornalista francese era Leonello de Vecchi, figlio del prode generale, e fratello di Vittorio Augusto de Vecchi, notissimo nel mondo letterario sotto il pseudonimo di Jack la Bolina. Prima Lionello e poi Vittorio furono arrestati e tradotti a Roma alle carceri nuove, dove rimasero quasi un anno.
Il clamore che destarono questi arresti, sfruttati dalla opposizione, fu grandissimo. Vedremo come il processo si svolgerà nell’anno seguente.
Ma lasciamo i processi per tornare ad altri fatti meno dolorosi.
Una delle questioni di cui s’impensierì il Consiglio comunale in quell’anno fu l’eccessiva espansione delle costruzioni fuori delle mura. Si era costruito fuori di porta Pia, fuori di porta San Lorenzo, fin quasi al Cimitero, fuori di porta San Giovanni e fuori di porta Flaminia, e il Consiglio vi mise un freno, con danno peraltro degli operai e dei costruttori. La Giunta portò al Consiglio la proposta del risanamento di Roma, ma quel risanamento essendo stato approvato solo in parte, la Giunta si dimise. Sarebbe stato un grave danno in quel momento e il presidente del Consiglio interpose i suoi buoni uffici per farle ritirare le dimissioni, e vi riuscì.
Il principe Borghese per provare i suoi diritti di esclusiva proprietà sulla villa, che porta il nome della sua famiglia, ne ordinò in maggio la chiusura; il Comune, rapppresentante dei diritti dei cittadini, fece nascere una sentenza, con la quale si ordinava al principe di riaprire la villa al pubblico; l’avvocato municipale Meucci scrisse una memoria con la quale dimostrava che la villa era stata acquistata dagli antenati del principe per il comodo degli abitanti di Roma, ma la questione andò in lungo. La villa si riapri, però l’assessore per l’edilizia, Balestra, capì che Roma doveva avere una passeggiata sempre aperta, e studiò quella dei Parioli.
In aprile venne a Roma Menotti Garibaldi per accompagnare la vedova del padre e il fratellino Manlio a salutare il venerando Nicola Fabrizi, che era aggravatissimo, e per presentare Manlio al Re, prima che entrasse nell’Accademia navale. Era stato l’ultimo voto del generale che Manlio fosse posto sotto la protezione di Umberto, e quel voto fu sciolto. La signora Francesca e il giovanetto furono ricevuti al Quirinale con quell’affettuosa cordialità, che il Re ha sempre avuto per gli eredi dell’eroe, e in quella visita fu parlato della cessione di Caprera allo Stato; in seguito vennero stabilite le modalità di quell’atto.
Il vecchio generale Fabrizi mori in quei giorni e sulla sua bara furono versate molte lagrime, perchè egli aveva saputo in vita comandare non solo l’ammirazione, ma anche l’affetto.
Tutti questi avvenimenti non distraevano punto l’attenzione del popolo italiano dall’Africa; sempre su quelle piaggie lontane era fisso il pensiero di lui. Sbollito il primo entusiasmo per la partenza delle tre prime spedizioni, se ne vide partire una quarta in maggio con rammarico. Era comandata dal generale Genė, ed era meno numerosa delle prime, ma portava artiglieria, genio e materiale per la costruzione di 10 chilometri di ferrovia Decauville. Sul Palestrina, che la trasportò a Massaua, vi era imbarcato don Pio Marzano, che era il cappellano destinato ai soldati d’Africa. Alla fine di maggio si seppe che Arkiko era stato occupato, ma prima di quella notizia, altre sconfortantissime sulla salute dei soldati erano giunte in Italia, cosicché a Roma, in Sicilia, in ogni parte del regno si formavano comitati per inviare limoni, cognac, sigari a quegli infelici, che lottavano con un clima torrido e malsano.
Quel povero Mancini, sempre sulla breccia a combattere per la sua politica coloniale, faceva veramente pietà; ai primi di maggio i deputati d’opposizione lo fulminarono di interpellenze; egli non sapeva tenere a bada gli avversari e barcamenarli con risposte evasive; l’uomo di toga ora traspariva dal ministro e aveva il torto di ripetersi; le sue dichiarazioni furono anche quella volta interrotte da continui gridi e nessuno capiva nulla. Era inoltre umiliato nel vedere che il Ricotti, suo collega, veniva ascoltato e che gl’interpellanti non rimasero neppure quella volta paghi delle sue dichiarazioni, come non erano mai; ma il Depretis, che aveva paura d’ogni falla d’acqua nella barca del ministero, riuscì a salvarlo con la consueta abilità.
L’opposizione vedendo che con le interpellanze non riusciva a buttar giù il Mancini, ricorse ad un’altra tattica: cominciò a non voler discutere sulla politica estera, e quando al bilancio degli esteri si dové pur venire ad un voto, il Mancini ne ebbe due soli di maggioranza. Allora tutto il Gabinetto dette le dimissioni, ma si ricompose sotto la solita presidenza del Depretis, che il paese chiamava dittatura. Il presidente continuò a reggere il ministero dell’Interno, e prese anche l’interim degli Esteri, il Taiani sostituì il Pessina alla Grazia e Giustizia e non si ebbero altri mutatamenti.
L’ultima spinta che aveva fatto cadere il Mancini era stato il progetto di legge per le missioni ed esplorazioni in Africa, che non era altro che una sequela di concessioni per Propaganda Fide. Le rendeva piena libertà di comprare e vendere beni mobili ed immobili, col pretesto delle spese delle missioni, di accettare donazioni, ed esonerava gli alunni di quell’istituto dal servizio militare fino al 26° anno d’età.
Il Carnevale ebbe una certa importanza, non per i balli privati, ma per il concorso delle maschere delle diverse regioni e per la curiosità che destarono Pantalone, Meneghino, Gianduja, Stenterello, Pulcinella, e tutte le altre. Una novità furono i Venerdì della Tribuna, ricevimenti gai, ai quali gli artisti più insigni dei teatri, i sonatori più in voga, e i conferenzieri portavano il contributo della loro notorietà. A quei Venerdì il principe Sciarra, poiché era lui il Mecenate del nuovo giornale, invitava molti giornalisti, molte signore intelligenti e molti artisti. La sala di conversazione era allora al primo piano del palazzo, ove ha sede adesso l’amministrazione del giornale, e in una piccola rotonda a metà della sala, vi erano ancora gli scaffali con la libreria di casa Sciarra. Il posto di onore in quei ricevimenti era sempre riservato a donna Elena Cairoli, che giungeva accompagnata dalla signora Enrichetta Castellani.
Il Cairoli, come Pentarca massimo, era uno degli amici della Tribuna, ed era ben naturale che a donna Elena si facesse tanta festa.
Benedetto Cairoli, lontano dal potere, godeva maggiori simpatie che non quando era presidente del Consiglio, e in quell’anno i Veterani del 1848-49 lo vollero a loro presidente.
Bellissime furono le corse primaverili, e il Derby reale che fu vinto da Rosenberg della razza Sansalvà, richiamò in Roma tutti gli appassionati del turf. Il prato delle Capannelle in quel giorno accoglieva le più eleganti dame di Napoli, di Firenze, di Torino e di Milano.
Ormai, cessate le discussioni per il monumento a Vittorio Emanuele, incominciarono le gare fra gli artisti per la statua equestre del gran Re.
Il concorso si chiuse alla fine di aprile e la commissione giudicatrice intraprese i lavori. Essa non conferì a nessuno dei concorrenti il premio; ma fece due categorie di bozzetti: nella prima collocò quelli del Balzico, del Borghi, del Chiaradia e del Maccagnani, nella seconda quelli dell’Allegretti, del Rutelli e del Laurenti.
Il 4 maggio il Re inaugurò il Museo Agrario nel nuovo locale di Santa Susanna, e il 9 i Sovrani partirono in forma solenne per Napoli, ove doveva inaugurarsi l’acquedotto del Serino, e si doveva porre la prima pietra dei lavori di risanamento. Nel partire le LL. MM. sostarono per la prima volta nella nuova sala reale alla stazione di Roma, che era stata addobbata con molto gusto. Prima di lasciar Roma il Re compì un altro atto generoso: egli donò alla città le aree attigue all’Esposizione per crearvi un giardino pubblico.
Quel mese di maggio fu funestissimo a Roma, che vide sparire in poco tempo una vera pleiade di uomini insigni. Mori Diomede Pantaleoni, l’amico di Cavour, il patriota da tutti stimato; morirono il generale Regis, il professor Carlo Belviglieri, il principe di Sarsina, e Terenzio Mamiani, nella sua casa in via Varese, dopo lunga agonia. Roma voleva conservare la salma del suo grande cittadino, ma Pesaro reclamò tanto onore, e il Municipio dovette limitarsi a stanziare una somma per erigergli un monumento. E come se tutte queste morti non avessero sparso abbastanza lutto sulla città, giunse dall’Africa la notizia della morte di Ernesto Parent, giovane ufficiale di marina, conosciutissimo qui, che aveva sposato da pochi anni la signora Anna Maria Marucchi; poi giunse quella della morte del capitano Margiocchi e del tenente colonnello Putti. Parent e Putti pare si fossero suicidati in un accesso tremendo di perniciosa. L’Africa riusciva davvero fatale agli italiani.
In quello stesso mese di maggio si adunava alla Consulta la conferenza sanitaria, presieduta dal senatore Carlo Cadorna. A capo di ogni delegazione erano gli ambasciatori presso il nostro Governo. Per proposta dell’ambasciatore della Repubblica Francese, s’istituirono due sotto commissioni, una diplomatica e una tecnica. Italia e Francia, penosamente colpite dal colera dell’anno precedente, avevano interesse a evitare il rinnovarsi dell’epidemia, e i loro delegati lavorarono concordi a quello scopo.
Il Palazzo delle Scienze era inaugurato senza il Sella, che tanto si era adoprato affinchè Roma ne possedesse uno. Ma il nome di lui era sulle labbra di tutti, allorchè i Sovrani assisterono alla prima seduta che i Lincei tennero nel già palazzo Corsini. L’aula era stata dipinta dal Bruschi, e su due colonne si vedevano i busti di Federigo Cesi, fondatore dell’Accademia, e di Quintino Sella, che ne era stato il redentore. Nel centro della sala si vedeva il gruppo dell’ Aureli raffigurante Galileo e Milton. I lavori del palazzo erano stati eseguiti dall’architetto Podesti, che in quel giorno fu colmato di elogi.
Dal palazzo Corsini a quello Salviati corre un breve tratto. In quest’ultimo il Principe di Napoli, dopo che era stato iscritto alla Scuola di Guerra, andava molto spesso a fare una specie di tirocinio militare. Egli si esercitava comandando una compagnia di alunni, e fra il Collegio Militare, la Scuola di Fisica a Panisperna e le visite ai monumenti, può dirsi che egli spendesse tutto il tempo che gli studi lasciavangli libero.
Prima che l’on. Mancini lasciasse il ministero, una nuova agitazione si era aggiunta a quella dell’Africa; l’agitazione affinchè venisse abolito lo scrutinio di lista, che aveva dato resultati così negativi fin dalla prima volta che era stato esperimentato. Era un’agitazione che non si limitava al Parlamento; il Bonghi chiese alla Camera che fosse abolito, il Crispi propose che fosse riordinato.
Le elezioni amministrative parziali, fatte di comune accordo fra i giornali di partito liberale, furono sfavorevoli alla lista della Unione Romana e i clericali non andarono ad ingrossare le file dei consiglieri avversi alla Roma italiana.
In luglio cessò le pubblicazioni il Bersagliere e Giuseppe Turco annunzio nei giornali quel fatto, che certo a lui spiaceva. La Tribuna, che aumentava la tiratura ogni giorno, mercè il denaro del principe Sciarra, doveva necessariamente uccidere tutti i giornali dello stesso colore che si stampavano a Roma, e prima quello del Nicotera, che non aveva la costanza del Crispi nel tirare avanti il suo, che era allora, come è stato sempre, la Riforma.
Il Papa aveva avuto non poche seccature nei primi mesi dell’anno. Gl’intransigenti si valevano del Journal de Rome per fargli la guerra, e la cosa andò tant’oltre che il direttore di quel giornale, il signor des Houx, che poi vedremo in carcere, dovette dimettersi, e il cardinal Pitra, che gl’intransigenti volevano contrapporre al Papa, fu costretto a scrivere al Pontefice una lettera di sottomissione.
Due cardinali molto benaffetti al Papa, il Chigi e il Nina, erano morti, e Leone XIII, nel concistoro del 28 luglio dette la porpora a monsignor Paolo Melckers, arcivescovo di Colonia, uomo molto mite di sentimenti e devoto suddito di Guglielmo I; a monsignor Capecelatro, arcivescovo di Gaeta, prelato conciliante e coltissimo come il suo amico, il Casanova, che Napoli benedice ancora, e benedirà per molto tempo; all’arcivescovo di Bologna, monsignor Battaglini, il più illuminato fra i pastori; e allo Schiaffino, al Cristofori e al Morian di Sidney.
Queste nomine mostrarono che il Papa non si voleva lasciar imporre dagli intransigenti, come avevalo mostrato la sua condotta verso il cardinal Pitra, ma non per questo egli modificò la sua linea di condotta di fronte all’Italia. Ogni piccolo motivo facevagli rinnovare le proteste ormai inefficaci.
Leone XIII ebbe una soddisfazione in quell’anno: Spagna e Germania lo nominarono arbitro del conflitto nato fra di loro, rispetto alle isole Caroline. Il papa studiò la questione, scrisse un protocollo, che fu firmato dall’ambasciatore di Spagna de Molins e dal ministro prussiano von Schloezer.
Alla Camera si discuteva il progetto di legge per gl’infortuni sul lavoro e le case in costruzione e quelle già costruite crollavano ogni momento, spesso facendo vittime.
Il guardiano di uno degli immensi palazzi della ditta Marotti e Frontini, in piazza Vittorio Emanuele, udì una sera strani rumori nel fabbricato e potè fare in tempo a mandar via tutti quelli che dormivano sotto i portici di quel palazzo, altrimenti sotto quelle macerie sarebbero rimaste molte vittime.
Poco dopo precipitò un’altra casa in via del Boccaccio, un’altra in via Cairoli e un secondo dei palazzi in piazza Vittorio Emanuele minacciò rovina. Questo succedersi di disgrazie fece nascere negli animi un grande malcontento contro gl’intraprenditori, e quel fatale sospetto che si fosse fatto tutto male, che nessuna fabbrica avesse la stabilità voluta.
E come se questo pensiero non bastasse s’incominciò di nuovo a parlar di colera, e vi furono anche a Roma alcuni casi isolati. In Sicilia faceva strage davvero, e il Re corse a Roma per intraprendere il viaggio di Palermo, ma il consiglio dei ministri gli dimostrò che era troppo imprudente di ripetere le generose visite di Napoli e di Busca, che vi erano le quarantene e che avrebbe dovuto scontarle come ogni altro cittadino. Il Re tornò a Monza dolente, e il solo ministro Taiani andò in Sicilia. Però Umberto, che già aveva dato 40,000 lire alle signore della Croce Rossa, dette ancora altre somme ai colpiti dal morbo.
Nel tempo brevissimo che il Re rimase a Roma, fu insediato al ministero degli Esteri il conte Carlo di Robilant, già ambasciatore a Vienna, uno dei fautori del nostro ravvicinamento agli imperi centrali. Il Papa aveva preso per segretario di Stato monsignor Jacobini; il Governo del Re prendeva per dirigere la politica estera il proprio ambasciatore nella stessa capitale; queste due scelte, che dimostravano la simultaneità di tendenze nella politica della Santa Sede e dell’Italia, furono assai commentate.
Il conte di Robilant era un soldato valoroso, un abilissimo diplomatico, e a Vienna ne aveva dato prova riuscendo a migliorare i rapporti nostri con l’Impero austriaco, in onta alle agitazioni irredentiste, ma non era un uomo parlamentare.
Appena si riaprì la Camera l’on. Miceli nel calore di un discorso, si volse al banco dei ministri esclamando «Vergognatevi!». Il conte di Robilant, non assuefatto a ricevere insulti, batte forte il pugno sul banco e dalle labbra gli usci un: «Ah questo poi è troppo!» che è rimasto celebre negli annali parlamentari.
Il conte Robilant scelse a suo segretario generale il marchese Raffaele Cappelli, che era stato all’ambasciata di Vienna, e andò ad abitare al palazzo della Consulta.
In autunno si riunì a Roma il congresso penitenziario e vi fu una bella esposizione carceraria al palazzo delle Belle Arti. Ogni Stato aveva esposto i miglioramenti introdotti nelle rispettive carceri. Le celle erano illuminate a luce elettrica, avevano acqua, caloriferi, campanelli, il comfort insomma che manca anche in certe case signorili. I visitatori dell’esposizione dicevano ironicamente che bisognava commettere un delitto per godere gratis di tutti quegli agi.
I congressisti visitarono il nuovo carcere di Regina Coeli, che non era ancora ultimato, e ne lodarono moltissimo il piano.
La legione degli Allievi Carabinieri fu trasferita in novembre da Torino a Roma e andò ad occupare la grande caserma in Prati, prospicente da un lato sul viale delle Milizie e dall’altro su quello Giulio Cesare.
Il Consiglio di Stato aveva approvato il progetto del lungo Tevere con i portici, la Giunta aveva dato il suo consenso alle proposte della Società del Credito Immobiliare per la costruzione di un quartiere alla villa Ludovisi, le strade di quello Sallustiano erano già tracciate e battezzate da Quirino Leoni; il concorso per il palazzo Bocconi era stato vinto dal de Angelis, e già si era messo mano alle costruzioni; lavoro ve n’era e pareva dovesse esservene per lungo tempo.
In tanto rimescolamento del suolo erano venute alla luce due statue bronzee bellissime negli scavi del teatro Nazionale; una raffigurante un Ercole, e l’altra un Pugillatore. Una terza ne fu trovata nel gettare le fondamenta del ponte alla Regola; un Bacco di stupenda fattura; l’antica Roma arricchiva la nuova.
Vi fu sulla fine dell’anno un pellegrinaggio alla tomba di Vittorio Emanuele. I trentini e i triestini vi portarono una corona, che recava sui nastri la data della uccisione di Oberdank; la questura la sequestrò.
Sbarbaro che aveva incominciato l’anno alle Carceri Nuove, lo terminò in mezzo ad una ovazione popolare. Una gran folla andò ad attendere che fosse posto in libertà in seguito agli 8154 voti degli elettori di Pavia. Il professore all’uscir dalle carceri salì in una carrozza, insieme con la signora Concetta, e il popolo staccò il cavallo e trascinò la carrozza a braccia fino al ponte Sisto.
Sbarbaro era ingrassato; aveva la barba più lunga, e i capelli spioventi sulle spalle, e si pavoneggiava nella sua nuova dignità. Andò subito da Perino per vendergli tre libri che aveva scritto in carcere; andò a Montecitorio e teatralmente si mostrò per Roma. Però la sua libertà era di nuovo minacciata, giacché l’on. Taiani ricevendo l’ultimo dell’anno i magistrati aveva detto loro che avrebbe subito fatta istanza alla Camera per ottenere che si procedesse contro di lui.
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