Roma italiana, 1870-1895/Il 1891
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Il 1891.
Roma, col 1° dell’anno, usciva dallo stato transitorio e il capo della nuova rappresentanza municipale prendeva possesso del suo ufficio. Il duca di Sermoneta aveva la soddisfazione, nel leggere le statistiche compilate dagli impiegati del Comune, di sapere che egli governava una popolazione più numerosa di quella di tanti principati di Germania, perché il numero degli abitanti della capitale era salito a 425,391, cifra rispettabile in confronto a quella del 1870.
Il 3 gennaio don Onorato presiedè per la prima volta il Consiglio e la Giunta che in quella radunanza venne eletta, era tutta liberale.
Sistemate ormai le faccende del Comune, la cittadinanza non si occupò più di quella quistione e l’attenzione generale si portò sul Vaticano, dove era stata introdotta una grande riforma.
Era maggiordomo di S. S. in quel tempo monsignor Luigi Ruffo-Scilla, già arcivescovo di Chieti e nunzio in Baviera, gran signore, amante dell’ordine e del decoro dei palazzi Apostolici.
Egli aveva spinto Leone XIII a fare importanti lavori in Vaticano, a fornirlo di comodità sconosciute fino a quel momento, ed avendo visitato molti musei da noi e all’estero, era umiliato nel vedere che mentre dal suo ufficio si rilasciavano gratis i biglietti per visitare il palazzo, gl’inservienti speculavano su quei biglietti e importunavano i visitatori per mance. Così, ottenuto il consenso del Pontefice, egli ordinò che i visitatori dei musei Vaticani pagassero una lira d’ingresso, come si paga in tutti i Musei dello Stato, e dopo avere aumentato lo stipendio degli inservienti, proibì loro di chiedere o accettare mance.
In Vaticano dispiacque l’innovazione ai colpiti, che guadagnavano benissimo in passato, e forse l’eco del loro malcontento giunse fino in città, dove di quel fatto molto si discusse.
Ma il bello si è che alcuni giornali liberali s’impennarono per quella disposizione suggerita soltanto da un sentimento di decoro al maggiordomo, e quando si furono accorti che avevano sbagliato strada volendo impedire l’applicazione della tassa, incominciarono a dire che essa cercava di frustrare la legge delle guarentigie, che obbliga il Vaticano a tenere aperti al pubblico i Musei, perchè la tassa si sarebbe portata forse fino a 25 lire rendendo al pubblico in essi impossibile l’accesso.
Naturalmente i giornali più moderati dimostrarono che, come si pagava per vedere cose di poca importanza custodite dal Governo, era giusto che si pagasse per vedere i tesori racchiusi nel palazzo dei Papi e riuscirono a far tacere gli sbraitanti, tanto più che i visitatori erano contenti di non esser più importunati, e chi voleva andare in Vaticano senza spendere, poteva recarvisi il sabato.
Un’altra quistione molto discussa a Roma fu quella del passaggio della beneficenza dal Comune allo Stato, in forza della nuova legge. Certi improvvidi articoli di giornali fecero temere che in quei primi tempi non vi fossero i fondi necessarj e gl’istituti non potessero far fronte alle spese. Invece era stato versato subito dal ministero del Tesoro il dodicesimo previsto nel bilancio della congregazione di Carità, che lo aveva distribuito alle opere da lei dipendenti.
Una sventura avvenuta quasi all’angolo della via delle Quattro Fontane con via Venti Settembre, aveva offerto mezzo al Re di mostrare la sua immensa bontà.
Era crollata una casa in costruzione seppellendo tre operai. Questo avveniva poco prima del mezzogiorno. Mezz’ora dopo il Re era sul luogo del disastro e incitava i vigili al lavoro per salvare i sepolti, camminava sulle macerie tendendo l’orecchio per udire se di sotto a quelle partisse qualche gemito, e con pericolo scendeva nei sotterranei e aveva la consolazione di veder tolto vivo un muratore.
Il Re rimase quattr’ore sulle macerie, destando nel popolo, che leggeva sul volto di lui le ansie e i timori che l’angosciavano, una profonda ammirazione per la sua carità. S. M. soccorse le famiglie dei poveri muratori, dopo aver dato, come sempre, esempio di abnegazione e di un coraggio calmo e veramente grande.
Questa sventura aveva scossa tutta la cittadinanza romana; un’altra, avvenuta il giorno seguente lontano di qui, turbò specialmente il patriziato. Il telegrafo annunziò ai romani che a Saint-Moritz, nell’Engadina, si era spenta la duchessa Eleonora Torlonia, conscia della sua fine, tenendo sul letto di morte la sua bimba maggiore, e stringendo a sè il marito, dal quale erale così doloroso il distacco.
La povera signora era stata uccisa dalla tubercolosi e neppure le iniezioni della linfa Koch, nella quale allora tanto si sperava, fattele da un medico di Berlino, avevano potuto salvarla. La salma fu portata a Roma e di qui a Frascati, dove venne tumulata; le esequie della giovine duchessa furon fatte a San Lorenzo in Lucina e la stessa folla elegante che pochi anni prima aveva assistito al matrimonio di lei, al quale pareva la felicità dovesse lungamente arridere, assistè comniossa alle funebri preci. Bellissimi fiori ornavano il catafalco della povera morta e fra le corone se ne vedeva una ricchissima di Michele Lazzaroni «alla benefica patronessa del Tiro a Segno».
In quei primi giorni di gennaio, nei quali ricorre l’anniversario della morte di Vittorio Emanuele, Roma ha sempre un aspetto di lutto.
In quell’anno il Bonghi invitato dal Circolo Monarchico Universitario, fece all’Argentina una bella commemorazione del defunto Re, tratteggiandone la vita pubblica e la privata, le azioni e i sentimenti per dimostrarne la perfetta armonia.
In quel triste mese di gennaio un fatto doloroso contristò Roma. Achille Gori-Mazzoleni, che aveva avuto parte nell’amministrazione della città, si suicidò nella sua casa in piazza SS. Apostoli si dice per le noie che gli procuravano gli affittuari del palazzo Ruffo, palazzo che egli voleva restaurare, senza riuscirvi appunto per la loro opposizione.
I funerali del Mazzoleni si fecero a SS. Apostoli e all’accompagnamento presero parte il Municipio, la cittadinanza e una gran quantità di parenti e amici del defunto.
E tanto per non uscir dalla cronaca della città citerò un’altro fatto: S. E. Miraglia, primo presidente della Corte di Cassazione, aveva raggiunto i 95 anni, termine d’età assegnato dalla legge ai funzionari. Il Re, dopo firmato il decreto con cui era collocato a riposo, scrivevagli una lettera affettuosissima nella quale dicevagli di volersi addossare ogni spesa per l’educazione di un pronipote del venerando presidente.
Lasciamo ora la cronaca e veniamo ai fatti più importanti. Il 20 gennaio si riapri la Camera e subito gli on. Bonghi e Ferdinando Martini presentarono una proposta di legge per abbandonare lo scrutinio di lista e ritornare al collegio uninominale.
Viva era in quel tempo la discussione del problema bancario e frequenti le polemiche sui giornali rispetto alla Banca Unica e alla pluralità delle Banche.
L’on. Bernardino Grimaldi nel fare l’esposizione finanziaria accenno alla riforma degli istituti d’emissione e disse che da essa sperava una economia di quattro milioni, che uniti a quelli che avrebbe fruttato all’erario il rimaneggiamento delle tasse, e a quella sugli spiriti, che chiedeva il Governo fosse autorizzato subito ad applicare, avrebbe raggiunto il pareggio nel bilancio.
Il presidente del Consiglio aveva promesso nel discorso di Torino economie e non imposte nuove, e quella domanda del ministro Grimaldi produsse effetto non buono.
La sera in cui era stata fatta alla Camera l’esposizione finanziaria, l’on. Crispi adunò la maggioranza dimostrando l’urgenza dei provvedimenti finanziari per rafforzare il credito all’interno e all’estero, e quella della legge per le prefetture, che doveva semplificare i servizi amministrativi. L’on. Fortis ne propose la sospensiva, ma quella proposta contraria ai desiderii dell’on. Crispi, non fu approvata dalla Camera. Il Governo ebbe una notevolissima maggioranza e nulla faceva preveder prossima una crise ministeriale: Ma nella discussione sul catenaccio degli spiriti gli umori della Camera cambiarono, e il temporale si addensò a un tratto sulla testa dell’on. Crispi, il quale rispondendo a certe critiche che gli venivano da Destra accusò quel partito, che avea governato fino al 1876, di non aver saputo amministrare il pubblico denaro e di aver seguito una politica servile verso l’estero. Il ministro dei lavori pubblici, on. Finali, il quale aveva fatto parte dell’ultimo Gabinetto Minghetti, scorgendo in quella frase un biasimo per l’opera propria e degli antichi colleghi uscì dall’aula, tra gli applausi della Destra. Intanto l’on. di Rudinì vivamente apostrofava il presidente del Consiglio. L’on. Luigi Luzzatti era pure molto applaudito, perchè rivolgendosi al Crispi diceva aver egli offeso ciò che di più caro aveva nella vita.
Questo avveniva il 31 gennaio. Se in quel giorno il presidente della Camera, come già aveva fatto tante volte in favore dell’on. Depretis, avesse rimandato il voto sul catenaccio al giorno successivo, gli animi si sarebbero calmati e la burrasca dileguata. Invece sotto l’impressione delle intempestive parole del Crispi, e delle risposte degli avversari si aprirono le urne e il ministero ebbe 63 voti di minoranza.
Il presidente del Consiglio annunziò subito alla Camera che il Ministero avrebbe rassegnate le dimissioni, e ritornato perfettamente calmo dopo quella sfuriata vulcanica, assistè la sera al primo grande ricevimento dato dall’ambasciatore Billot, al palazzo Farnese.
Senza quella sfuriata l’on. Crispi avrebbe potuto conservare lungamente il Governo, ma essa fu la sua rovina, e fu un male anche per il paese. L’ex-presidente del Consiglio ebbe subito una grande soddisfazione che lo compensò in parte della sconfitta patita: lord Dufferin, ambasciatore d’Inghilterra, gli comunicò a nome di lord Salisbury, capo del gabinetto di Saint-James, i ringraziamenti per le prove d’indiscutibile amicizia date all’Inghilterra durante il suo Ministero.
Il 9 febbraio fu annunziata alla Camera la composizione del nuovo gabinetto. L’on. di Rudinì ne assumeva la Presidenza e gli Esteri, Giovanni Nicotera l’Interno, Luigi Luzzatti il Tesoro, l’on. Colombo le Finanze, il senatore Ferraris la Grazia e Giustizia, il senatore Pasquale Villari l’Istruzione Pubblica, l’on. Branca i Lavori Pubblici, l’on. Chimirri l’Agricoltura e Commercio e aveva pure l’interim delle Poste e Telegrafi. Alla Guerra andava il generale Luigi Pelloux. Qualche giorno dopo l’ammiraglio Saint-Bon era nominato ministro della Marina e sceglieva a sottosegretario di Stato l’ammiraglio Corsi; nella stessa qualità il conte d’Arco andava alla Consulta, e l’onorevole Pietro Lucca a palazzo Braschi.
Appena insediato il nuovo Ministero, scoppiarono disordini a Palermo, e si vide allora verificarsi un fatto abbastanza curioso. In seguito a quei disordini il prefetto Winspeare e il sindaco, marchese Ugo delle Favare, avevan dato le dimissioni. Il Nicotera pregò il Crispi d’invitarli a rimanere al loro posto. L’on. Crispi annuì a quel desiderio e telegrafò ai due funzionari, i quali non seppero negargli il favore richiesto.
Appena il nuovo Ministero si presentò alla Camera, l’Imbriani disse che esso aveva tutti i colori dell’iride, come già l’on. Nicotera aveva detto al Crispi quando presentava il suo.
Il Ministro dell’interno ritirò subito il progetto sulle prefetture, il catenaccio sugli spiriti e altre leggi di minore importanza, e quindi la Camera si prorogò per dar tempo ai nuovi ministri di preparare il lavoro.
In quell’inverno ebbero una singolare importanza le conferenze che illustri oratori facevano ogni anno a cura della «Società per l’istruzione della Donna». Con felice pensiero era stato stabilito dalle signore patronesse di quella società, che le conferenze, affidate ad uomini insigni, benchè indipendenti fra loro, svolgessero tutte il grande quadro dell’antica vita di Roma. Cosi parlò il Lanciani dei Re; il senatore Pierantoni tratteggiò la figura dell’avvocato; il Barzellotti fece una conferenza su Virgilio; due il Bonfadini su Giulio Cesare; due il Bonghi, una sul Paganesimo e l’altra sul Cristianesimo; una il Villari, prima di salire al ministero, e una l’Helbig.
Queste conferenze si facevano il giovedì; e l’aula del Collegio Romano non è stata mai più affollata che in quell’anno di un pubblico intelligentissimo. Altre se ne tenevano la domenica, su argomenti varii, e gli oratori erano il Panzacchi, il Masi e il Fredaletto.
Conferenze meno dotte, ma efficacissime, tenne pure in quell’inverno monsignor Scalabrini nella chiesa di Sant’Andrea della Valle, sulle nostre colonie d’America. Lo Scalabrini aveva fondato a Piacenza un istituto per istruire i missionari da spedirsi in quelle colonie, e un altro per gli emigranti, e qui cercava di raccogliere offerte per la benefica opera sua.
Il carnevale fu assai animato in quell’anno per i balli, per i divertimenti in piazza del Popolo, dove era stato eretto un anfiteatro greco-romano e si facevano corse di cavalli romani, che appassionavano il popolo, e per i molti veglioni. Nel posto ove sorgeva prima il palazzo Piombino sul Corso, era stato edificato un padiglione, detto dell’Allegria, che suscitò le satire dei romani; ma bene o male, il carnevale ebbe un fittizio risorgimento e dette un po’ d’aiuto alle classi povere.
A Tor di Quinto in quel tempo vi furono le corse militari, che riuscirono belle e attirarono la folla elegante.
Nel seno della Società fra i Cultori e Amatori di Belle Arti, fino dall’anno precedente, si era verificata una profonda scissura per il criterio che guidava molti artisti nell’ammettere alle mostre annuali le opere di pittura e scultura, ma di pittura specialmente. Diversi artisti, più rigidi nella scelta, si staccarono dal gruppo principale, e formarono la società della «In Arte Libertas» e fecero una esposizione separata al palazzo delle Belle Arti. Fra i secessionisti vi erano Giovanni Costa, l’Hébert, il conte Lemno Rossi-Scotti, Nino Carnevali, il Sartorio e altri, e la loro mostra, benchè più ristretta, riuscì più importante dell’altra.
Fra divertimenti carnevaleschi, esposizioni e conferenze, si pensava poco alla malattia che affliggeva Roma, ma essa così alla chetichella empiva gli ospedali, teneva a letto molta gente e quando presentavasi in forma acuta e trovava organismi indeboliti, mieteva pure molte vittime, come aveva fatto l’anno precedente.
La chiamavano i medici col nome generico «d’Influenza», ma prendeva forme varie e attaccava ora i polmoni, ora gl’intestini, ora altra parte del corpo, producendo anche paralisi. Essa fu fatale all’ammiraglio Ferdinando Acton, già Ministro della marina, che soccombè nel palazzo Odescalchi, e ad Agostino Magliani, già ministro delle Finanze, che spirò nel palazzo Berardi. I funerali di questi due uomini, che avevano occupato cariche così alte nel governo del paese, furono fatti a spese dello Stato e con molta pompa.
Morì anche il professor Lignana, che era una delle illustrazioni dell’Ateneo romano, della fatale malattia.
Andato appena Nicotera al potere ricominciarono i comizii. Uno di operai disoccupati fu tenuto in piazza Dante, all’estremità del quartiere dell’Esquilino, confinante con quello di San Lorenzo, dove si era rifugiata tanta miseria fecondatrice d’idee sovversive, ma in quel comizio non avvennero disordini. Però la città non era tranquilla, perchè si sapeva che il presidente del Consiglio era in balia dei radicali e non avrebbe potuto usare all’occorrenza quella severità nell’impedire moti inconsulti, di cui aveva dato prova il suo predecessore.
Il 2 marzo l’on. Luigi Luzzatti fece la nuova esposizione finanziaria. Anch’egli si occupò del problema bancario, accennando alla necessità che gli istituti purgassero il loro portafoglio dai titoli e dalle cambiali, che paralizzavano ogni nuova operazione. Il ministro annunziò 36 milioni di nuove economie sulle spese effettive, 10 milioni di aumento sull’entrata e un alleggerimento di 19 milioni per il bilancio sulle spese ferroviarie.
Il Biancheri, secondo le consuetudini parlamentari, aveva date le dimissioni da presidente della Camera; l’on. di Rudinì propose che non fossero accettate, e la Camera le respinse.
La guerra contro il Gabinetto fu iniziata subito dall’on. Zanardelli, il quale accusò i nuovi ministri di appartenere a quel partito, che aveva combattuto tutte le riforme, e alla votazione per la nomina dei commissari per il bilancio apparve la debolezza del Ministero.
Sul programma della politica estera si ebbe agio subito di conoscere le idee del presidente del Consiglio. L’on. Luigi Ferrari avevalo interrogato per sapere in qual senso interpretava l’articolo 5° dello Statuto, rispetto all’alleanze. L’on. di Rudinì rispose che i trattati d’alleanza non richiedevano l’approvazione del Parlamento, e accennando alla triplice, aggiunse, che egli intendeva mantenersi fedele a quelle esistenti, e coltivare cordiali relazioni con la Francia.
L’Africa dava sempre da fare all’Italia. Alla fine di febbraio era partito in missione l’on. Menotti Garibaldi per studiare il problema delle colonie militarizzate presso Keren e nell’Asmara, e prima della sua partenza tutti i giornali della penisola erano pieni di rivelazioni contro le autorità militari, di polemiche in favore del tenente dei carabinieri Livraghi, il quale accusava i suoi ex-superiori di avere usato ed abusato della loro autorità. Da quelle rivelazioni pareva che i generali Orero e Baldissera fossero per lo meno due carnefici. Il Livraghi erasi rifugiato in Isvizzera e già le autorità avevano iniziato pratiche per ottenerne l’estradizione. Il Governo, impensierito da tanta onda d’indignazione, volle veder chiaro nelle faccende d’Africa e nominò una commissione d’inchiesta, composta dal senatore Armò, procuratore generale, degli on. Giulio Bianchi, Tommaso de Cambray-Digny, Ferdinando Martini, marchese di San Giuliano, conte Luigi Ferrari, e del general Driquet.
La commissione doveva partire subito alla metà di marzo, ma il general Driquet si ammalò e in quel frattempo il procuratore generale Armò ricusò l’incarico e fu nominato in sua vece il presidente Borgnini. La commissione, così composta, salpò da Napoli e giunta a Massaua intraprese il suo lavoro. Essa visitò l’Asmara e Keren, e se il viaggio riuscì disagioso per i deputati, tanto più ebbe a soffrirne il general Driquet, il quale non era punto rimesso della sua malattia e compiendolo dette prova di vera abnegazione.
Mentre la commissione era ancora in viaggio per i lidi etiopici, fra il Governo inglese e il nostro si riallacciavano le trattative per la deliminazione delle rispettive zone d’influenza, troncate bruscamente nell’ottobre precedente, quando parevano quasi ultimate. Un primo protocollo fu firmato qui il 24 marzo fra il marchese di Rudinì e il marchese di Dufferin.
La linea pattuita rimaneva il Thalweg del Giuba, dalla foce fino al 69 grado di latitudine nord; seguiva il 6° fino al 35° di longitudine est dal meridiano di Greenwich e fino al Nilo Azzurro. L’Etiopia e Haffa, restando dalla parte sud, entravano nella zona d’influenza dell’Italia.
Il 15 aprile fra il ministro degli esteri del Regno d’Italia e l’ambasciatore della Regina Vittoria fu firmato un nuovo protocollo per determinare la frontiera dal Nilo Azzurro a Ras Kasar. In quel quel protocollo era contenuta la condizione, che l’Italia per le esigenze della sua situazione militare, potesse occupare Kassala e il territorio interno fino all’Atbara.
Questa volta le mène francesi non poterono nulla contro la volontà dei governi d’Italia e d’Inghilterra, e fu definitivamente eliminato ogni timore di conflitto nell’Africa orientale fra le due potenze.
Il 14 marzo furono sospese tutte le solite feste per il giorno natalizio del Re, poichè il principe Girolamo Napoleone era gravemente ammalato all’albergo di Russia. Il capo dei Napoleonidi era assistito dal dottor Taussing, ma veduta l’entità del male, fu pregato anche il professor Baccelli di visitarlo. Al capezzale dell’infermo vegliavano sempre il signor Brunet, il principe Carlo e il cardinale Bonaparte, i Primoli, i Roccagiovane, i Campello e i Gabrielli, ma appena le notizie del loro congiunto si fecero più gravi giunsero pure il principe Vittorio, la duchessa d’Aosta e la principessa Clotilde. Questa non accettò l’ospitalità del Re per esser più vicino al marito; il principe Vittorio, che era in rapporti poco cordiali col padre, prese alloggio all’albergo d’Inghilterra; la principessa Letizia nella palazzina di via Venti Settembre, ma si vedeva andar continuamente all’albergo di Russia, e i Romani, che ne avevano già tanto ammirata la fiera bellezza al tempo della feste per Guglielmo II, si affollavano in via del Babbuino e in piazza di Spagna per vederla passare.
Il Re e la Regina andavano spesso dal principe Girolamo, presso il quale la pia moglie aveva introdotto monsignor Pujol e il cardinal Mermillod, che il principe aveva conosciuto molto in Isvizzera. I Sovrani avevano da poco lasciato, la sera del 17, l’albergo di Russia, quando giunse al Quirinale la notizia della morte. Il Re e la Regina tornarono immediatamente presso la principessa Clotilde e vi giunsero pure i figli e gli altri parenti.
Il Re dette tutte le disposizioni per i funerali e ordinò un lutto di corte di 90 giorni. Senato e Camera commemorarono il principe con affettuose parole, il Sindaco in Consiglio disse che Girolamo era stato «il vincolo d’amicizia fra noi e la Francia.»
Il duca di Sermoneta in persona stese l’atto di decesso e i testimoni furono due cavalieri dell’Annunziata: l’on. Crispi e il generale Cosenz.
Il 19 marzo, alle otto di mattina il Re, la Regina, le duchesse di Genova e Aosta, il duca degli Abruzzi, che doveva rappresentare il Sovrano ai funerali, e tutti i Bonaparte, udirono la messa detta da Monsignor Anzino, presente cadavere. Poi il Re e i Principi accompagnarono la salma fino al carro funebre. L’associazione fu data a Santa Maria del Popolo, e da quella piazza fino alla stazione era schierata la guarnigione per rendere gli onori. A mezzogiorno i Sovrani accompagnarono le principesse Letizia e Clotilde alla ferrovia, ed esse salirono nel treno che doveva trasportare a Torino, e di là a Superga, il corpo del principe.
I disoccupati si agitavano continuamente; il 17 fecero una dimostrazione in piazza di Termini con l’intenzione di andare altrove, ma ne furono impediti dalla forza, che fece molti arresti; il 19 si riunirono di nuovo in piazza Dante, ma i funerali del principe Napoleone non permisero che l’assemblea fosse troppo numerosa, perché la solita folla di curiosi, che accresce ogni dimostrazione, era attratta dallo spettacolo del sontuoso corteo funebre.
Più imponente di tutte le precedenti riunioni riusci il Comizio del 5 aprile in piazza Santa Croce in Gerusalemme, ma il Nicotera, che non voleva impedire quelle pubbliche assemblee, spiegava un grande apparato di soldati, per tenere a dovere i dimostranti. Questi trovarono in piazza schierati 1500 uomini di fanteria, 300 cavalleggeri, 100 carabinieri e 50 guardie e se i discorsi dei disoccupati furono violentissimi, la loro volontà di avvalorarli con fatti venne paralizzata da tante baionette.
Il Ministro dell’interno aveva intrapreso un viaggio, e trovandosi a parlare a Milano con i rappresentanti di un circolo di operai, aveva detto che ai rivoltosi avrebbe usato il riguardo di farli caricare dalla cavalleria, per non esporli troppo da vicino alle baionette.
Queste parole dettero animo ai socialisti e specialmente agli anarchici, i quali capirono che il ministro li avrebbe lasciati fare.
Però i moti quasi generali che si annunziavano per la festa operaia del 1° maggio, e forse le pressioni dei suoi colleghi del Ministero, spinsero l’on. Nicotera a diramare ai prefetti una circolare per proibire la solennità operaia. Ma già le intese erano corse, e quella circolare difficilmente poteva trattenere i male intenzionati.
Amilcare Cipriani, che in quel tempo godeva di una popolarità grande fra le turbe dei rivoluzionari, venne a Roma e tenne una prima conferenza agli anarchici nella sala di San Bartolomeo dei Vaccinari e una seconda il 21 aprile nella sala dei Reduci dinanzi a 150 fra anarchici e socialisti. Egli volle rispondere alle parole incautamente pronunziate dal Nicotera a Milano, dicendo:
«Noi non temiamo le minacce d’un ministro dell’interno. Venga pure la cavalleria di questo signor Nicotera, i suoi sbirri, i suoi sgherri, noi faremo inghiottire tanto piombo a chi toglie la libertà.
«Ebbene, andrò io dal signor Nicotera e vedrò se in faccia a me avrà il coraggio di espellermi».
Applausi generali, imprecazioni al ministro, gridi che rivelavano in alcuni degli uditori l’impazienza di mandare subito in effetto le minacce, echeggiarono nella sala. Cipriani, però, che si diceva avesse promesso al Governo di non fare accader nulla, volle rappresentare di frenatore delle popolari impazienze di rivendicazione sociale, e aggiunse:
«Non spingo nessuno alla rivolta, ma se siete minacciati dalla cavalleria, ricordatevi che siete uomini. Non provocazioni da parte nostra, ma calma e tranquillità, con le quali potremo raggiungere i nostri ideali».
Queste parole erano pronunziate la sera del 21, come ho detto; alle 7 e 11 minuti della mattina del 23, cioè appena 36 ore dopo, su Roma passava come una vampa d’incendio seguita subito da uno schianto terribile, che fu udito fino nei castelli.
La gente in sulle prime non capiva nulla e sgomenta dal rumore, dallo scricchiolio dei vetri che cadevano in frantumi, si gettava nelle vie, nelle piazze. Chi credeva fosse scoppiato il gazometro, chi pensava al terremoto.
Roma era avvolta da una nube di fumo densissimo, e per terra si vedevano scheggie di mitraglia, pezzi di cartucce e sugli abiti si notavano le tracce del salnitro. Si capì allora trattarsi dello scoppio di una polveriera e la folla che correva in piazza del Popolo per giungere al gazometro, vedendo che la nube nera diradandosi sulla città, rimaneva addensata in direzione di San Paolo, capì che doveva esser saltata la polveriera di MonteVerde, vicino al forte Portuense, e in quella direzione si rivolse.
Ecco che cosa era avvenuto in quel luogo assai distante dalla città. Alle 6 1|2 la sentinella di guardia alla polveriera, udì nell’interno di essa uno scricchiolio. Essa avvertì il tenente Edoardo Gabrielli del 12° fanteria, distaccato dal forte Portuense, il quale a sua volta dette avviso del fatto al capitano Pio Spaccamela, che insieme con l’ingegnere del genio civile de Romanis, erano andati ad ispezionare i lavori. Il capitano capì subito di che si trattava, cercò nel forte la chiave della polveriera senza poterla rinvenire, tentò di aprire la porta, ma tutto fu inutile. Senza perdere il sangue freddo e conscio del gravissimo pericolo, chiamò allora a raccolta il picchetto composto di 7 bersaglieri, che era a guardia del forte, e gli ordinò di gettarsi un ordine sparso nella campagna per impedire alla gente, che a quell’ora soleva recarsi al lavoro, di avvicinarsi. Egli si allontanò l’ultimo insieme col tenente Gabrielli e col caporale Cattaneo, ed erano appena a un centinaio di metri quando avvenne lo scoppio. Il de Romanis rimase morto, lo Spaccamela orribilmente ferito alla testa, il Cattaneo alle gambe, il Gabrielli più leggermente e nonostante l’avviso dato ai lavoranti, vi furono altri 230 feriti, perché la polveriera conteneva 265,000 chilogrammi di polvere, come si seppe di poi.
I danni fuori e dentro la città enormi. San Paolo, il Mattatoio, il quartiere del Testaccio ne risentirono più direttamente, perché più vicini, ma anche in Roma ve ne furono, e rilevantissimi. In tutte le case volarono in frantumi i vetri e molte pareti precipitarono.
La polveriera, alla quale lavoravano diversi operai, era stata chiusa alle 3 1|2 del giorno precedente, senza che fosse osservato nulla di notevole; da quell’ora nessuno vi era più penetrato, trattavasi dunque di una sventura, di un caso, o lo scoppio era doloso?
Quest’ultima ipotesi era quella generalmente accettata dopo le parole pronunziate da Amilcare Cipriani, dopo quel fermento che si notava fra gli anarchici negli ultimi tempi; e il timore che un altro tentativo si potesse fare nelle polveriere che circondano Roma, teneva tutti agitati.
Il Re era nel suo studio quando avvenne lo scoppio e da quel punto elevato potè subito capire che era saltata la polveriera di Monte Verde. S. M. dette ordine che fosse attaccata la sua carrozza e andò immediatamente sul luogo del disastro. Per via s’imbattè nelle prime barelle, che trasportavano i feriti alla Consolazione; scese e vedendo in una di esse il povero capitano Spaccamela, lo fece adagiare nella carrozza del conte Giannotti, che seguiva la sua, affinché più sollecitamente potesse ricevere le prime cure, e continuò la via fino alla polveriera.
Dell’edifizio non v’era più traccia, il terreno circostante era coperto di sassi, di cartucciere spezzate e nel posto dove prima sorgeva la polveriera, vedevasi una buca profonda più metri.
I feriti furono ricoverati per la maggior parte alla Consolazione, ove il Re andò a visitarli, a San Gallicano, a Santo Spirito e a San Giacomo. Lo Spaccamela e il Cattaneo specialmente facevano pietà. Il primo non dava segno di vita e presso di lui vegliava intento, con gli occhi umidi di lagrime, il suo attendente. Il Cattaneo, che vidi dopo l’amputazione della gamba, non sapeva gli fosse stata tagliata e lagnavasi del dolore delle ferite. Il suo sguardo serbava quell’espressione smarrita di chi è stato esposto a un grave pericolo.
La maggior parte dei feriti erano agricoltori, che si trovavano nel momento del disastro disseminati nelle vigne vicine al forte. Un frate olandese, della Vigna Pia, che era ricoverato a San Gallicano, mi disse di essere stato avvertito da un operaio, poco prima dello scoppio, di fuggire. Le parole del frate mi parve che escludessero assolutamente la disgrazia e ammettessero il dolo, perchè come mai si sapeva prima che la sentinella desse l’allarme, che la polveriera doveva saltare?
Per tutto il giorno fu un continuo pellegrinaggio di gente a piedi e in carrozza a Monte Verde. Tutti volevano vedere, ma ben pochi riuscivano a giungere fino al luogo fatale, perchè i soldati ne impedivano l’accesso a fine di evitare nuove disgrazie. Ma pure ai feriti del primo momento se ne aggiunsero altri, i quali avendo raccolto cartucce, le facevano esplodere incautamente.
Gli on. Siacci e Antonelli interrogarono il Governo sullo scoppio ed ebbero ampie descrizioni del fatto, senza peraltro essere informati delle cause.
La Giunta comunale si costituì subito in comitato di soccorso e i giornali aprirono sottoscrizioni per i feriti e i danneggiati. Il cardinale Hohenlohe andò in persona a portare 1000 lire al ministro della guerra; il viaggiatore Schweinfurth dette un obolo eguale, il sindaco, duca di Sermoneta e il duca di Ceri offrirono 1000 lire, la Regina, dopo aver visitato le donne ferite alla Consolazione, inviò soccorsi per mezzo della marchesa di Villamarina,
La città era ancora sotto l’impressione del tremendo disastro, allorchè la notte del 25 la sentinella del forte Bravetta, a poca distanza da porta San Pancrazio, dette l’allarme per avere udito due colpi di fucile. La gente che abitava vicino al forte fuggì di casa, senza pensare a vestirsi, e andò a picchiare sgomentata alla porta San Pancrazio, che rimane chiusa durante la notte, per esser ricoverata in città. Questo nuovo fatto sgomentò, e corse voce di un vasto complotto anarchico per far saltare tutti i forti di Roma, tanto più che nella notte era stato arrestato il noto fornaio Calcagno mentre portava una bandiera rossa in Campidoglio, altri quattro anarchici la mattina con un’altra bandiera listata di nero, e in via dell’Aquila si faceva scoppiare una bomba di carta, e una seconda in Prati.
Fu dunque con l’animo presago di altre sventure che la popolazione di Roma vide sorgere l’alba del 1° maggio.
In quel giorno dovevano gli operai tenere il grande comizio in piazza Santa Croce in Gerusalemme, e i rinforzi di truppe venuti di fuori, non rassicuravano punto. Fino dalla mattina di quel giorno nelle vie, ove non si trovava una bottega aperta, circolavano in fretta pochissime persone, e nelle ore pomeridiane tutta Roma era avvolta in un silenzio di tomba; e neppure nelle strade più centrali si sentiva il rumore di una carrozza; soltanto lassù nell’estremo lembo del quartiere dell’Esquilino, si addensavano i soldati e la folla irrequieta.
Alle 11, allievi carabinieri, fanteria e bersaglieri cingevano da tre lati la piazza Santa Croce in Gerusalemme; nel centro vi erano altre 4 compagnie e numerosissimi carabinieri, nel fondo della piazza due squadroni di Foggia cavalleria.
Il palco per la presidenza del Comizio era stato eretto quasi nel centro della piazza. Alle 2 su quel palco vi erano gli onorevoli Ettore Ferrari, Maffi, Barzilai, il consigliere comunale Bianchi, Felice Albani, e l’avvocato Lollini, promotore del Comizio. Intanto giungevano, precedute da bandiere, tutte le rappresentanze dei circoli sovversivi «XX dicembre», «Barsanti», «Unione Emancipatrice» ecc. Quest’ultima aveva la bandiera verde spiegata con l’iscrizione «Vivere lavorando, morire combattendo». La «Federazione anarchico-socialista» fu accolta con applausi. Il Garofolo dichiarò aperto il comizio e subito prese la parola l’operaio Latella assicurando che per migliorare le condizioni degli operai era indifferente la forma di Governo. Egli invitò i compagni ad organizzarsi, ma a tenersi lontani dalle idee politiche. Le sue parole calme, che stonavano dopo tutta la propaganda violenta fattasi negli ultimi tempi, furono zittite. Dopo il Latella parlò il Piacentini in senso più accentuato; e per conseguenza fu più ascoltato. In quel momento Amilcare Cipriani fu condotto sul palco fra gli evviva e prese la parola il Liverani, anche più violento del suo predecessore Egli disse:
«Bisogna fare una guerra a coltello a quelli che ci opprimono. È tanto tempo che domandiamo legalmente i nostri diritti: otteniamoli con la forza».
Salì allora sul palco il Bardi, un giovinotto anarchico; e prese a dire:
«Questo giorno desiderato è finalmente venuto; venuto in modo solenne per noi affamati, sfruttati da una classe che tutto ci toglie a viva forza, persino i nostri fratelli, che ci fanno siepe d’intorno armati di baionette. Ma non ci sgomentiamo se questi poveri schiavi saranno costretti scaricare i loro fucili contro di noi: il nostro sangue sarà seme che frutterà.
«Questa classe dominante, frutto della corruzione e della infamia, deve essere abbattuta. Noi operai, oggi riuniti e uniti, sentiamo la forza di questo giorno solenne, non solo per noi, ma per tutto il mondo. Oggi forse qualcuno di noi sari sacrificato per questa causa; a quelle vittime mandiamo un saluto! Alle nostre miserie, per cui imploraste mercè dal Governo, questi rispose inviandoci nuovi reggimenti. Ma non li temiamo. Un ministro disse in Parlamento là dove non si fanno che leggi dannose all’umanità disse che la questione sociale essi si trovavano nella impossibilità di risolverla. Accogliamo quella dichiarazione perchè ci dice che dobbiamo fare da noi».
Dopo essersi scagliato contro la stampa pagata con i fondi segreti, e aver alluso al maggio fiorito, pieno di profumi floreali, esclamò:
«Spandiamo ora il nostro sangue per l’umanità; sacrifichiamoci, e lasceremo un’aureola per le generazioni future. È tempo di farla finita; decidetelo voi!».
La folla scoppiò in unanimi applausi, che si convertirono in fischi appena che il Moschini, altro operaio, volle consigliare la calma. I cavalleggeri, che erano scesi da cavallo, a questo punto, sentendo ripetutamente gridare: «Viva la rivoluzione!», salirono in sella.
Amilcare Cipriani prese la parola per raccomandare la calma:
«Lavoratori, — egli gridò — oggi in questa piazza, circondati dalle baionette del dispotismo, ci siamo riuniti per proclamare insieme ai nostri fratelli del mondo intero la rivendicazione dei nostri diritti, l’emancipazione del lavoro».
È ora di finirla — urlano dalla folla
«Qui convenuti, — continuò — l’oratore animati da una stessa fede, provate, con la presente manifestazione, a coloro che sono al potere, ai padroni, ai capitalisti, che se domani vorrete, sarete i padroni della intera umanità! Oggi siete chiamati a provare quanti siete di numero e quanto tolleranti. Quando sarete stanchi, questa gente pasciuta dovrà cedere dinanzi a voi per amore o per forza».
Il Cipriani concluse così il suo discorso, che parve moderato in confronto degli altri:
«Sentite un uomo che non vi ha mai tradito. Organizzatevi e faremo facilmente sparire la microscopica falange dei neutri pasciuti. Se oggi siete venuti qui inermi, preparatevi a venirvi un’altra volta non con bandiere inutili, ma con qualche altra cosa fra le mani».
L’eccitamento degli animi, dopo questi discorsi, che nessun delegato aveva ordine di far cessare, cresceva sempre fino a divenir frenesia. Un giovane operaio spinse la sua bella moglie, certa Elena Melinelli, sul palco affinchè parlasse, ma essa non seppe emettere altro che un: «Evviva la rivoluzione!» e si ritirò impaurita dagli urli.
Dopo poche parole, pronunziate da due operai, salì la tribuna l’anarchico Venerio Landi: Qualunque momento è buono egli disse per misurare le nostre forze. L’organizzazione è impossibile ad ottenersi e vano sperarlo. Andiamoci a misurare oggi, domani, quando volete!»
«Oggi! oggi!» grida la folla.
«E sia!» urlò il Landi, e fece per iscendere dal palco, mentre la folla alzava le mani urlando. L’ispettore Marchionni a questo punto fece squillare la tromba c ordinò lo scioglimento del Comizio. Tutti si davano a fuggire, il gruppo delle bandiere si sparpagliò, le bandiere furono strappate dall’asta, e intorno i soldati serravano le file; i bersaglieri scaglionati nella piazza si uniscono, formano due linee verso S. Croce in Gerusalemme, e si avanzano a passo di carica verso la folla. A un tratto però si fermano per lasciare il passo a due squadroni di cavalleria Foggia, che si avanzavano a mezzo galoppo.
Tutti fuggivano, una parte della folla si riversava nella strada interna delle mura, un’altra invadeva il palco della presidenza, e intanto le linee dei soldati si stringevano sempre più.
La guardia Raco cade uccisa da una pugnalata. Amilcare Cipriani si getta sui carabinieri che facevano la guardia attorno al palco e ne afferra uno per il bavero; quegli volgendosi lo ferisce; ovunque s’impegnano zuffe; i tumultuanti salgono sulle mura della città per evitare le cariche, e di lassù e dalle case ove molti si sono rifugiati, piove sui soldati una grandine di sassi, di pietroni, di lavagne e di piatti. In via Emanuele Filiberto i rivoltosi formano con carri e con masserizie le barricate, e in altri punti punzecchiano con coltelli, con chiodi, con lime i cavalli dei soldati, che sono riusciti ad asserragliargli. Ad ogni carica fuggono, si sbandano, e subito tornano compatti a insultare e molestare i soldati.
La Camera teneva seduta in quel giorno, e gli on. Sola e Maffi interrogarono sui fatti di piazza Santa Croce in Gerusalemme il Ministro dell’interno, il quale rispose che le provocazioni erano partite dagli anarchici, e che i soldati avevano dato prova di grande pazienza. L’on. Ferrari prese la parola per accusare un ufficiale dei carabinieri di aver fatto inginocchiare l’on. Barzilai e di avergli gridato «vigliacco», dopo averlo ferito con una piattonata alla testa. Il cappello del deputato di Roma fu portato alla Camera ed esaminato, ma dalla vivace polemica che sorse rispetto a quel fatto, si venne ad appurare che l’ufficiale non aveva riconosciuto nel fuggiasco il Barzilai, e tanto meno lo aveva fatto inginocchiare.
Per quei fatti dolorosi furono praticati più di 200 arresti. Anche Amilcare Cipriani, ferito alla testa, era tenuto in arresto in una casa in via Foscolo. Fra gli arrestati vi era il Moscardi, che vantavasi dell’uccisione della guardia Raco; il carrettiere Piscistrelli fu un’altra delle vittime. Tutti gli arrestati erano armati, e certi che avevano il revolver possedevano buona provvista di munizioni, segno certo che la ribellione era stata preparata.
Mentre su all’Esquilino avvenivano questi fatti, e tutto quel quartiere era guardato dai soldati, e le case piantonate, nel resto della città regnava ancora il solenne silenzio del pomeriggio, che aveva infuso tanto pànico nei cittadini, e s’ignorava che cosa fosse avvenuto, nè speravasi di aver notizie nella serata, perchè le tipografie erano chiuse, e nessun giornale poteva pubblicarsi per la vacanza del personale.
Verso le dieci di sera, nelle vie deserte ancora, si udì gridare il Popolo Romano, e tutti si arrischiarono a scender dalle case per aver notizie. Il giornale aveva fatto un supplemento con la narrazione dei fatti, e quella lettura non confortò gli animi, perché si capì che tutta la città, sguarnita di guardie e di soldati, era stata a un punto di essere invasa dalla turba furente, e che i tentativi di ribellione potevano ripetersi.
Nella notte per le vie si udiva solo il passo cadenzato dei pattuglioni, e la mattina dopo la città presentava ancora l’aspetto desolante del giorno prima, con le botteghe e i portoni chiusi, e ogni tanto avveniva un fuggi fuggi dei pochi passanti, motivato dalla notizia che i rivoltosi dal ponte di Ripetta o da un altro punto correvano verso le strade centrali.
Fortunatamente non accadde altro, e i 200 arrestati poterono esser trasportati nella notte alle carceri di Termini.
Peraltro fra essi mancava l’ultimo oratore del comizio, colui che aveva incitato gli adunatí a far l’inconsulto tentativo, quel giovane qualificatosi per Venerio Landi. La polizia si diede a cercarlo con tutto l’impegno possibile e pochi giorni dopo lo scopriva nella locanda della Campana, nel vicolo omonimo, mentre stava per lasciar Roma, e scopriva pure che egli chiamavasi Galileo Palla, già noto nei fasti dell’anarchia, e che era di Aulla, presso Massa.
Già Roma, dopo due giorni aveva ripreso l’aspetto solito, ma dalle discussioni avvenute alla Camera non aveva acquistato maggior fiducia che per il passato nell’opera del Nicotera come ministro dell’Interno. Da quelle discussioni si era pure rilevato che gli altri ministri non dividevano le opinioni di lui sulla politica interna. Però sulla mozione dell’on. di Camporeale esprimente LA COLONNA COMMEMORATIVA A PORTA PIA ammirazione per l’esercito, per la fermezza dei funzionari di pubblica sicurezza e per la condotta del Governo, il gabinetto Nicotera-Rudinì raccolse 112 voti di maggioranza.
La Camera rientrata in calma, come la città, prese a discutere la politica africana e la dichiarazione del Presidente del Consiglio che l’Italia avrebbe limitata l’occupazione al triangolo Massaua-Keren-Asmara, e che le spese non avrebbero superato gli otto milioni annui, fece buon effetto, perché due cose reclamava specialmente il paese: calma ed economie.
Il Re in quel tempo ricevè in udienza solenne il nuovo ambasciatore di Russia, signor Wlangali e il nuovo ministro di Rumenia signor Vacarescu, padre della Elena, che era stata sul punto di divenire principessa ereditaria del nuovo regno nei Balcani.
S. M. in quel mese di maggio pose la sua forma alla legge per l’abolizione dello scrutinio di lista, e il presidente della Camera nominò i dodici deputati i quali insieme con i senatori dovevano formare la commissione incaricata di preparare le nuove circoscrizioni elettorali.
Si tornava dunque all’antico con soddisfazione degli elettori e degli eletti, perchè lo scrutinio di lista, bello in teoria, aveva sostenuto male la prova della attuazione pratica.
il 10 maggio un grave dolore colpi la Corte e specialmente la Regina. Nei palazzo del Quirinale spirava in ancor fresca età il marchese Emanuele Villamarina di Montereno, cavaliere d’onore di Margherita di Savoia fino dal giorno in cui ella, per il suo matrimonio, era divenuta Principessa ereditaria. Il marchese, per la lunga consuetudine e per le doti del carattere e della mente, era divenuto un vero amico della Regina, con la quale divideva il gusto per le arti e specialmente per la musica, di cui era profondo cultore, tanto che l’Istituto di Santa Cecilia avevalo per presidente.
Era un uomo eccellente e colto e sotto ogni aspetto aveva saputo per modo meritarsi la stima dei Sovrani, che quasi non si moveva foglia nei palazzi reali, senza averlo prima interrogato.
Il quella occasione soltanto, e credo per la prima volta, la marchesa di Villamarina prese un congedo e si allontano per alcuni mesi dalla Regina, che aveva pianto con lei la dolorosa perdita.
Alla fine di maggio il Consiglio Comunale, che aveva lungamente ondeggiato fra l’applicazione della tassa di fuocatico o di famiglia, votò quest’ultima, sperandone un sollievo per il bilancio.
Verso lo stesso tempo il Papa pronunziò una notevole enciclica sulla questione sociale e in essa mostrò veramente elevatezza di mente e sentimenti di carità. Egli tenne pure un concistoro nel quale creò cardinali monsignor Gruscka, principe-arcivescovo di Vienna, e monsignor Rotelli, nunzio a Parigi. Quest’ultimo visse soltanto pochi mesi dopo la sua elevazione alla porpora.
Il giorno dello Statuto il Re andò alla Consolazione a consegnare al capitano Spaccamela e al caporale Cattaneo la medaglia d’oro al valor militare. Tutti e due, mercè le cure dei sanitari dell’ospedale, si erano alquanto rimessi dalle terribili ferite. Il Cattaneo era quasi inconscio dell’atto valoroso compiuto con pericolo della vita. Il poveretto stava ancora adagiato sulla poltrona dalla quale non poteva alzarsi ed era confuso di rimaner seduto alla presenza del suo Sovrano. Il Re gli disse che facevasi interprete dell’ammirazione dell’esercito e della patria, consegnandogli il premio dei valorosi.
Il giovane caporale balbettò un ringraziamento e quando il Re uscì, egli, più che mai confuso, disse: «Addio, signora Maestà!»
Ai feriti e alle famiglie delle vittime il Re fece una generosa elargizione di danaro, e al giovane caporale storpio provvide assicurandogli un posto di custode nella Reggia di Torino.
Cattaneo e Spaccamela prima di partire da Roma ebbero banchetti dai loro compaesani e dagli ufficiali e furono calorosamente festeggiati.
In giugno si fecero le elezioni amministrative parziali, che non riuscirono favorevoli nè al partito clericale nè a quello liberale, perché non spostarono la maggioranza del Consiglio.
Prima di chiudersi, la Camera discusse il progetto per la congiunzione delle stazioni di Roma, e lo respinse, perchè contrariamente all’uso, le urne furono chiuse alle 3 1/2, e quei deputati che erano venuti a Roma espressamente, non poterono dare il loro sì. In città si discusse quel fatto con molta acrimonia e nella seduta successiva gli on. Bovio e Ruspoli protestarono, ma inutilmente.
Dalla Camera era sparita la disciplina. Due volte il presidente fu costretto a sospendere la seduta mentre l’on. Brin svolgeva una interpellanza sulla politica estera, e sotto l’impressione di questi spiacevoli incidenti i deputati se ne tornarono a casa loro.
La commissione mista, che era andata in Africa per l’inchiesta, tornò in giugno dopo avere fatto un viaggio faticosissimo e un lavoro non meno arduo, che continuò anche a Roma, dovendo interrogare il tenente Livraghi, che era rinchiuso a Castel Sant’Angelo. Notizie certe sull’esito dell’inchiesta non si ebbero; si seppe peraltro che l’on. Martini riportava nella valigia numerosi appunti per fare un libro sull’Africa, e che già il Treves lo aveva acquistato.
In estate la vita politica tacque lungamente e i giornali, non avendo altri argomenti, si occuparono dello strano fatto che la Presidenza del Consiglio fosse stata stabilita all’albergo Milano. In quell’albergo abitava il ministro delle Finanze, on. Colombo, il quale durante una gita ad Anzio essendosi slogato un piede, dovette rimaner lungamente coricato. Così presso di lui si adunavano i ministri per modo che la politica si faceva tutta in un salotto d’albergo.
In quell’estate fu esumato il corpo di Goffredo Mameli dalla sepoltura in cui giaceva fino dal 1872 e vennegli eretto il monumento che si vede al Campo Verano. La cerimonia riuscì bella e pietosa e insieme con le note dell’inno di lui, si udirono commemorare le forti e gentili virtù del soldato e del poeta.
In una sala terrena del Collegio Romano si compiè nello stesso tempo circa un’altra cerimonia patriotica con la distribuzione di libretti di cassa di risparmio a tutti i nati nel giorno della prima festa dello Statuto celebratasi a Roma. Se i lettori rammentano, nel 1871 si era costituito qui un comitato di cui era anima il cav. Pacifico, per raccogliere un fondo per i nati nella prima domenica di giugno, da erogarsi loro quando avessero compiuto i 20 anni d’età. I venti anni erano passati e i 17 fortunati riceverono dalle mani del Pacifico e di altri membri del comitato il dono promesso.
Il giorno 8 agosto fu scoperta nel palazzo Tanlongo, ove aveva abitato Benedetto Cairoli, la lapide seguente dettata dal prof. Gnoli:
abitò questa casa
ospite venerato
BENEDETTO CAIROLI
il suo nome
porti agli animi
l’eroica poesia della patria
l’austera santità del dovere
s. p. q. r. mdcccxci
Le autorità politiche e amministrative, terminata la cerimonia, alla quale avevano partecipato tutte le numerosissime associazioni di Roma, furono invitate dal comm. Tanlongo a entrare nel suo palazzo e ad accettare un rinfresco. Credo che quella fosse la prima e l’ultima festa in casa Tanlongo.
Nell’anno successivo scadevano i trattati di commercio con l’Austria e con la Germania e la questione del rinnovamento di essi era molto seria, dovendosi aprire nuovi sbocchi ai nostri prodotti, e specialmente al vino, che non era più richiesto dalla Francia. Le trattative con i due Stati si fecero a Monaco fra i nostri delegati, che erano il comm. Malvano, il comm. Monzilli, il commendator Miraglia e lo Stringher, e quelli dei due imperi. Il trattato con la Germania fu presto concluso, ma l’altro incontrò serie difficoltà e i delegati austriaci dovettero andare più volte a riferire a Vienna.
Il 20 agosto, in piena calma estiva, fu pubblicato il decreto di scioglimento delle amministrazioni ospitaliere di Roma e di nomina del comm. Augusto Silvestrelli a commissario. Non giunse come una bomba, ma produsse un certo effetto e suscitò commenti, come ne suscitò pure il fatto che Menelik pagasse in quel tempo il debito contratto per lui da Makonnen con la Banca Nazionale. Si vide in ciò una nuova prova che l’infido non volesse avere nessun rapporto con l’Italia, e si suppose che a riunire la somma necessaria per il pagamento avesselo aiutato una nazione interessata a tenerlo separato da noi.
Il Comitato per l’Esposizione Nazionale da tenersi a Roma, aveva faticosamente raccolto un capitale di 700,000 lire, che era ben lungi però dall’essere stato versato, e in settembre ottenne di costituirsi in ente morale. Anche dopo quel fatto erano più quelli a Roma che non credevano all’esposizione, che quelli che avevano fede di vederla.
Il general Gandolfi, che aveva dato le dimissioni da governatore dell’Eritrea, aveva creato un conflitto di attribuzioni con l’on. Franchetti, inibendogli di alienare terreni per la colonizzazione. S’incontrarono a Roma e si batterono. L’on. Franchetti rimase leggermente ferito.
Una quantità di pellegrinaggi erano annunziati per quell’autunno; pellegrini francesi in gran numero, recrutati per la massima parte dai signori Harmel padre e figlio fra la popolazione operaia, e pellegrini della Gioventù Cattolica. I primi ammontavano a diverse migliaia, ma giungevano a mandate di 600 o 700 ed erano organizzati quasi militarmente. Il Papa li ospitò nel corridoio di Carlomagno e a Santa Marta; ampii refettorj erano destinati per i pasti, preparati in cucine speciali, alle quali presiedevano le suore di carità. I pellegrini più facoltosi abitavano negli alberghi, e appena un pellegrinaggio partiva, un altro giungeva.
Leone XIII li ricevè e si trattenne a parlare specialmente con gli operai, informandosi delle loro condizioni, delle loro aspirazioni con vera carità cristiana. Da più tempo, come lo aveva manifestato nell’ultima enciclica, egli s’impensieriva della questione sociale e provava piacere nel parlare con gente umile. Per dimostrare a quegli operai quanto avesse gradito il loro pellegrinaggio, scese pure il 29 settembre in San Pietro e disse la messa dinanzi a più di 40,000 persone. In città i pellegrini non erano molestati da nessuno, e neppure nella ricorrenza della festa per il XX settembre era avvenuto il minimo disordine, così si supponeva che il pellegrinaggio potesse compiersi pacificamente come nel 1888. Invece la mattina del 2 ottobre, mentre molta gente, come avviene sempre in quel giorno, visitava il Pantheon e andava a iscriversi nell’albo, entrarono pure alcuni pellegrini francesi della Gioventù Cattolica. Tre di essi chiesero al veterano di guardia la penna e scrissero tre volte sul registro «Vive le Pape»; uno di essi poi, in segno di sprezzo, sputò in terra. Il veterano, certo Vincenzo Malacotta, accortosi della cosa, chiamò le guardie, che condussero in questura, con molta fatica, i tre francesi che erano Michele Druse, seminarista, Maurizio Gregoire, avvocato ed Eugenio Choucary, redattore di un giornale clericale del Morvan.
La notizia si sparse subito per Roma; s’improvvisarono dimostrazioni ostili sotto le finestre degli alberghi ov’erano alloggiati i pellegrini, e questi, appena comparivano per le vie, erano accolti a fischiate. Molti a mezzogiorno erano già partiti, ma un’altra carovana giunse nel dopopranzo e questà pure fu ricevuta a fischi e anche con qualche sassata e bastonata.
Intanto una folla enorme di cittadini era andata a iscriversi al Pantheon, e fra le migliaia e migliaia di firme figuravano pure quelle del sindaco, di molti consiglieri comunali e provinciali, e di tutti i deputati presenti a Roma. Sui cancelli del Pantheon erano state legate alcune bandiere, fra cui quella del circolo «Giordano Bruno», e dentro il tempio echeggiavano inni patriottici frammisti a proteste. I dimostranti sapendo che a Sant’Ignazio doveva cantarsi il Te Deum, vi erano andati in massa, ma la chiesa era stata chiusa per ordine dell’autorità.
La sera vi furono lunghe e pacifiche dimostrazioni in piazza Colonna e altrove; tutte le case erano pavesate di bandiere e in maggior numero sventolavano dagli alberghi ov’erano i pellegrini, i quali avevano molta paura delle rappresaglie.
I figli del signor Harmel andarono a palazzo Braschi dal sotto-segretario di Stato, on. Lucca, per esprimere il loro profondo rammarico per il fatto del Pantheon, e il signor Drémont, presidente della Camera di Commercio francese, andava dal questore a manifestargli il rammarico della colonia francese di Roma.
Per buona sorte gli animi si calmarono e non avvenne nulla di grave, ma nelle città per le quali passavano i pellegrini per tornare in Francia, furono accolti ostilmente.
Il Sindaco telegrafò immediatamente a Monza deplorando l’atto inconsulto e proclamando la devozione di Roma alla Dinastia; qui non facevano altro che giungere telegrammi di protesta anche dai piccoli comuni, cosicché si può dire che i tre sciocchi pellegrini provocassero uno spontaneo e unanime plebiscito di devozione al Gran Re e di affetto per il figlio di lui.
Erano appena partiti coloro i quali vagheggiavano l’utopia della restaurazione del potere temporale, che giungevano in Roma i membri della conferenza per la pace, altra magnifica utopia.
Il 2 novembre vi fu la solenne inaugurazione della conferenza al Campidoglio, e il discorso inaugurale fu pronunziato dal Biancheri. Le sedute si tennero al palazzo delle Belle Arti e non furono tutte pacifiche.
I congressisti ebbero qui cordiali accoglienze, senza distinzione di nazionalità. Al Costanzi fu data in loro onore una rappresentazione di gala; il principe Odescalchi e il Duca di Sermoneta li invitarono nei loro palazzi; i musei Capitolini furono illuminati e il Bonghi dette un ricevimento al l’Associazione della Stampa. Ovunque trionfava la bella baronessa Suttner, l’autrice del romanzo «Abbasso le Armi», che fu scritto con l’intendimento di operare in pro della pace ciò che la «Capanna dello zio Tom» fece in pro degli schiavi. Ma l’autrice non ha raggiunto l’effetto voluto.
La Corte tornò qui il giorno 10 e il 13 i Sovrani partirono in forma ufficiale per Palermo, ove doveva inaugurarsi l’Esposizione. Il Presidente del Consiglio accompagnò i Sovrani, ma se le LL. MM. ebbero nella capitale della Sicilia entusiastiche manifestazioni, egli non potè lodarsi delle accoglienze dei palermitani, dove il Crispi godeva ancora una grande popolarità e si faceva quasi un carico all’on. marchese di Rudinì di occuparne il posto.
Era già avvenuto in quell’anno il matrimonio di donna Arduina Valperga di San Martino, bellissima fanciulla piemontese, con don Giuseppe Buoncompagni e in novembre furono celebrate altre due cospicue unioni nel patriziato. L’unica discendente del defunto don Enrico Barberini sposò il figlio secondogenito del marchese Sacchetti, portando al marito i beni e il titolo di principe di Palestrina, e donna Maria Bonaparte sposò un giovane ufficiale dell’esercito, il tenente Goiti. Di questo secondo matrimonio specialmente si parlò molto, perché pareva strano che un’Altezza avesse rinunziato a un grande nome storico per ubbidire a un dolce sentimento, cosa non troppo comune neppure nei nostri tempi di democrazia.
Il trasporto della Galleria Borghese dal palazzo al Museo della Villa, la vendita dei 475 codici della famiglia di Paolo V al Vaticano, suscitarono in città un gran rumore. Si conosceva la rovina di casa Borghese, ma non si credeva mai che fosse così grande. Del trasporto delle opere d’arte si occupò anche il Governo, non già della vendita dei codici, come alcuni chiedevano che facesse. E se ne occupò tanto più che per la rovina di altre grandi famiglie patrizie, i capolavori minacciavano di prender tutti il volo verso paesi più ricchi di denari, ma più poveri dal punto di vista dell’arte.
E quanto fosse in strettezze l’erario e per conseguenza il Governo si trovasse nella impossibilità di accrescere il patrimonio artistico della nazione valendosi dell’editto Pacca, lo provò alla riapertura della Camera il nuovo catenaccio sugli zuccheri.
Prima che i deputati tornassero a Roma era stata pubblicata una nuova lista di 25 senatori e della Camera vitalizia era stato chiamato a far parte anche il conte di Torino, il quale aveva compiuto i 21 anni.
Anche il Papa aveva creato due nuovi cardinali: monsignor Seppiaci e monsignor Ruffo-Scilla, suo maggiordomo e Prefetto dei S. Palazzi Apostolici. Al posto del neo cardinale, come maggiordomo soltanto, era stato nominato monsignor della Volpe.
Il Corso continuava ad abbellirsi, specialmente nel centro, ove il palazzo Fiano e quello Marignoli, ormai terminati mostravano le loro belle linee architettoniche, e sotto quei palazzi si aprivano negozi elegantissimi.
Già era riaperta la Camera, già il novembre volgeva alla fine e mentre il pubblico si appassionava per i dibattimenti del processo di Massaua, non si conosceva ancora il rapporto della commissione d’inchiesta andata in Africa in primavera. L’on. Imbriani presentò una interpellanza su! processo e con la sua solita violenza disse che il general Baldissera «era un reo confesso». Si venne a sapere che non era vero, come asserivano alcuni giornali, che bande intere fossero state soppresse; i giustiziati erano 94 in tutto, e il processo terminò con l’assoluzione del Livraghi, perchè fu riconosciuto che la sola esecuzione non giustificata era quella di Getheon, e non fu provato che l’imputato avesse reclamato la parte di preda di guerra del denaro del giustiziato.
Subito dopo conosciuto l’esito del processo, comparve la relazione della commissione nella Gazzetta Ufficiale. Essa riconosceva anormale lo stato della Colonia Eritrea quando il Baldissera era stato mandato in Africa, e difficile la posizione di lui. Ma riconosceva pure che con gli ordini dati egli aveva ecceduto nei suoi poteri, e che nessuna legge gli dava facoltà di fare quello che fece. Per questo non ne escludeva la responsabilità e riconosceva pure responsabili il colonnello Fecia di Cossato e il generale Orero della uccisione di Osman Naib.
Questi fatti erano lo strascico del periodo brutto della occupazione, ma in quel tempo le cose si presentavano sotto più lieto aspetto, e mentre qua commentavansi ancora e la sentenza del tribunale di Massaua e il lavoro della commissione, il general Gandolfi riceveva il giuramento di fedeltà di Ras Mangascià, di Ras Alula e di Ras Agos e con essi pattuiva il mantenimento dello statu quo, il riconoscimento del nostro possesso di Sara e Okulle Kusai, già ceduto a Masciascià dal trattato di Ucciali, e l’accettazione della linea del Mareb e Belesa in possesso dell’Italia.
I capi tigrini scambiavano inoltre col governatore la promessa di cordiale amicizia e protezione delle reciproche proprietà e sudditi.
Per il momento dunque non v’era più ragione di vivere in ansia per la sorte della colonia, per la quale pareva dovesse incominciare un’èra di pace, tanto che si potè abolire colà lo stato di guerra e il blocco della costa. Ma siccome è ben raro che mentre la Camera è aperta non vi siano sempre nuovi motivi di agitazione, uno potente ne fu offerto dalle dichiarazioni del conte Kalnoky alle Delegazioni Austro-Ungariche. Le sedute di quel consesso sono segrete, dunque facile riesce svisar le parole di un ministro quando si conoscono soltanto per mezzo d’indiscrezioni. 11 conte disse che non si era ancora trovata la risoluzione della quistione del Papato, e aggiunse parole che escludevano l’ingerenza dell’Austria-Ungheria nella quistione, e dimostravano quanto quella potenza fosse unita al nostro paese. Il partito avanzato si fermò soltanto alla prima parte delle dichiarazioni e subito il Bovio credè opportuno d’interpellare il Governo sulla politica ecclesiastica. Il presidente del Consiglio era assente dalla Camera e gli fu telefonato per sapere a quando fissava lo svolgimento dell’interpellanza. Egli la fissò per una seduta successiva. L’on. Nicotera volle aggiungere che credeva interpretare il pensiero dell’on. Rudinì e di tutto il Gabinetto dicendo che non ammetteva possibili le dichiarazioni del conte Kalnoky ed aggiunse: «Per noi la quistione romana non esiste».
Questo pistolotto inasprì la questione e pochi giorni dopo, allorchè il Bovio svolse l’interpellanza, avvenne una specie di battibecco fra l’on. Crispi e il ministro dell’Interno. Il presidente del Consiglio rimise la questione in carreggiata e ottenne un voto di fiducia. Poi tutti si accorsero che alla discussione e alle proteste mancava la base, perché le dichiarazioni del Kalnoky invece di essere ostili, erano più che benevole per l’Italia.
L’on. Luigi Luzzatti, ministro del tesoro, fece in sul finir dell’anno l’esposizione finanziaria, che era complicata quanto mai. Egli annunziò che il bilancio del 1892-93 si sarebbe chiuso con un avanzo di 9 milioni; quello del 1891-92 con un disavanzo di un solo milione, che doveva esser largamente coperto con le economie nei consuntivi. Più che tutte quel cifre sciorinate alla Camera e fra le quali pochi riuscivano a raccapezzarsi, consolò la dichiarazione che l’opera salutare del Governo consisteva nel purgare il bilancio da due peccati capitali: l’eccessive spese e l’eccessiva estimazione dell’entrata.
Il ministero Rudinì-Nicotera aveva inalberata la bandiera delle economie appunto per acquistare popolarità, poiché il paese rimproverava a quello precedente il fasto.
In autunno era morto il senatore Pietro Rosa, direttore degli scavi, che abitava da lunghi anni alla casetta del Palatino; il 13 dicembre si spengeva un altro senatore insigne, Carlo Cadorna, già ministro di Carlo Alberto e presidente del Consiglio di Stato. Il fratello generale, e il nipote lo assisterono amorevolmente fino al momento estremo. Ebbe funerali sontuosi e alla casa in via Monserrato ove spirò, andarono ad iscriversi tutte le notabilità italiane, che erano a Roma. Al Senato e alla Camera gli fu fatta una bella commemorazione lodando l’integrità di lui e la vasta cultura.
Con l’intervento del Re e della Regina, si inaugurò il ponte che porta il nome di Margherita. Era una giornata piovosissima e il sindaco prese tutta la pioggia facendo a capo scoperto dinanzi i Sovrani il discorso inaugurale. Anche il Re camminava con suo gran piacere sotto la fitta acqua di dicembre e la Regina lo seguiva mentre esaminava il ponte e parlava con l’ingegnere Vescovali, autore del progetto, e con i signori Allegri e Lazzari, che avevano eseguito i lavori.
Meno male che quel triste 1891, in cui l’inerzia e lo scoraggiamento paralizzavano ogni iniziativa, potè compiere un lavoro importante come quello del Ponte Margherita!
La questione degli accessi al ponte suscitò lunghe discussioni nei giornali. Chi avrebbe voluto si abbattesse la fontana dei Nettuno con i Tritoni e si facesse una larga strada dritta; chi s’impietosiva per la sorte dell’opera del Valadier e per quella degli alberi che le fanno corona. Fiato e inchiostro buttato. Si fece un accesso provvisorio salvando fontana e alberi, perchè il provvisorio costava meno, e le discussioni si calmarono.
L’opera legislativa, dopo la caduta del Crispi, erasi limitata allo stretto necessario; l’opera del Governo alla ricostituzione delle finanze per modo che gettando uno sguardo su quell’anno 1891 si può dire che non meritò nè infamia nè lode.
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