Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799/Rapporto fatto da Francesco Lomonaco patriota napoletano al cittadino Carnot Ministro della guerra/Colpo d'occhio su l'Italia

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Colpo d'occhio sul l'Italia

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COLPO D’OCCHIO SU L’ITALIA


L’Italia, non essendo divisa né per mezzo di grossi fiumi né di gran montagne, godendo la stessa bellezza di cielo, presso a poco la stessa fertilitá di suolo, racchiudendo in sé tutte le umane risorse, bagnata dal Mediterraneo, dal Ionio, dall’Adriatico, e separata dagli altri popoli da una catena di monti inaccessibili, sembra che dalla natura sia destinata a formare una sola potenza. I suoi abitanti, che parlano la stessa lingua, che hanno la medesima tinta di passioni e di carattere, che godono di un egual germe di sviluppo morale e di fisica energia, che non sono separati né da interessi né da opinioni religiose, sono fatti per essere i membri della stessa famiglia.

Il fatto annunzia la possibilitá. Scorrete la storia, e vedrete che sotto la repubblica romana l’Italia riposò all’ombra di un solo governo e di una sola costituzione politica; fu libera ed indipendente; si elevò al disopra della linea orizzontale di tutte le nazioni del globo, a cui dettò la legge della vittoria, e giunse ad essere la regina dell’universo. In quell’epoca l’italiano, appartenendo ad una gran societá, orgoglioso di star assiso su’ trofei ed i trionfi, di decidere della sorte de’ re, di vedere i fiumi delle ricchezze della terra venire a colare sul suolo ch’egli abitava, qual orgoglio nazionale doveva avere! quali sentimenti magnanimi di superioritá e di grandezza! come il suo cuore dovea dilatarsi innanzi all’attitudine imponente delle forze, di cui egli facea parte!

Un cittadino romano, sia che fosse nato in Roma, sia che vi avesse diritto alla cittadinanza, era un essere privilegiato, con cui un altro non potea entrare in parallelo. Ognuno, che non era italiano, era barbaro. [p. 324 modifica]

Roma cadde nell’abisso del dispotismo; e gl’italiani, perché formavano una nazione, non perdettero interamente la loro dignitá. Relativamente agli altri popoli, furono i piú fortunati. Se essi cessarono di esser liberi, furono almeno indipendenti; se fecero discapito della libertá politica, conservarono almeno la civile; se diventarono schiavi nel proprio paese, non cessarono di essere i padroni nelle regioni le piú remote, non mancando di arricchirsi delle spoglie dell’antico continente: in una parola, se al di dentro vennero conquistati dal dispotismo, continuarono ad essere conquistatori al di fuori.

Per gli cangiamenti insiti alla materia, la grandezza romana scomparve. Molte cagioni influirono a rovesciare l’edificio che i secoli aveano eretto. I boreali popoli, rifluendo nelle parti meridionali dell’Europa, assalirono l’impero di Occidente, che giá era invecchiato e languiva sotto l’enorme massa da cui era oppresso. Lo fecero a brani, dividendolo in tanti frammenti; e l’Italia fu la prima a soggiacere alla divisione. Onde i suoi abitanti, separati d’interessi, di governi, di leggi, di costumi e di usanze, come di monete e di dialetti, furono esposti alle sciagure della invasione, e presero tutt’i vizi de’ barbari, senz’averne le virtú. Che divenne allora la dignitá italiana? Che ne fu de’ monumenti delle arti e delle scienze? Appena se ne conservò una languida memoria: tanto la caligine dell’ignoranza aveva ottenebrato lo spirito umano!

Carlo magno procurò di accozzare gli atomi e formarne un corpo, il quale si sperava che non fosse caduto in dissoluzione. Ma i discendenti di Carlo non ereditarono coll’impero i di lui supremi talenti; onde la loro imbecillitá distrusse l’opera del genio.

Il papato poteva ovviare a cotesto gran male; ma gl’istrioni di Roma, lungi di pensare alla prosperitá italiana, per assicurarsi l’impero ch’esercitavano sugli spiriti, per fondare la grandezza temporale, mentre predicavano la chimerica felicitá dell’ altro mondo, per accumular tesori a spese della bigotteria, non badarono ad altro che a spandere il talismano dell’errore, perseguitare la virtú ed il sapere, combattendo cosí i sacri interessi delle nazioni. [p. 325 modifica]

I mali non si arrestarono qui. I preti di Roma si proposero di abbattere non solo il culto esterno del paganesimo, ma di opporsi anche al suo spirito. La religion pagana facea l’apoteosi del coraggio, della forza, dell’industria, de’ piaceri, della virtú; e ’l cattolicismo, distruggendo la morale e ’l buon senso, deificò la povertá, l’ozio, l’ubbidienza, il celibato, le pratiche le piú micidiali, le favole inette, gli assurdi misteri. L’idea dell’immortalitá dell’anima, che vagava ne’ libri de’ poeti e ne’ romanzi della Grecia e dell’antica Roma, divenne un dogma che rese della Chiesa un mercato, in cui si tassava il prezzo dell’ingresso negli elisei.

A quest’oggetto, oltre le tante altre assurditá, s’inventa eziandio un inferno di corta durata, da cui se ne può essere sottratto dalla magica arte del prete impostore. Si stabiliscono le indulgenze, mediante le quali si perdonano a’ benemeriti della Chiesa, che vai quanto dire a’ pii malvagi, non solamente i peccati commessi, ma anche i delitti a venire. Si fonda l’Inquisizione, che sotto il nome di «Santo ufficio» innalza gli altari a’ fanatici, i quali covrono di cadaveri la terra, mentre distrugge e rovina i proseliti della virtú.

La religion papista, assisa sulle basi della menzogna, della falsitá e de’ miracoli, doveva essere naturalmente nemica non solo delle scienze politiche, ma di tutte le altre eziandío. Sicché abbrutire gli spiriti nell’ignoranza, avvilire e snervare i cuori nella mollezza, presentare all’immaginazione gli spettacoli del vizio e della sensualitá, tal è stato il segreto della politica sacerdotale e l’oggetto fisso della teocrazia romana.

Per conseguenza i pittori, che dipingono bene nella tela una Danae; gli scultori, che animano sul marmo o sul bronzo le seducenti attrattive e le carezze di Venere; i poeti, che presentano in metro la tazza di Circe o i giardini di Armida, sono coronati; mentre Federigo secondo è escluso con replicati anatemi dal commercio degli uomini; Giordano Bruno, ingegno di prim’ordine, è bruciato vivo in Roma; Galileo è rinchiuso in una torre; Sarpi è pugnalato, per essere gli organi della veritá e del sapere. Da per tutto i proclami della ragione umana sono [p. 326 modifica]soffocati dalle fiamme e dalle armi dell’intolleranza religiosa. Da per tutto i diritti dell’uomo son calpestati, la santa libertá annichilita, le leggi della natura vilipese. Da per tutto un’occulta forza di ripulsione politica genera la diffidenza e l’odio tra’ cittadini; ed, invocando spesso l’aiuto delle potenze straniere, colla leva del fanatismo, che trova il punto d’appoggio ne’ cieli, inabissa le popolazioni ne’ precipizi della schiavitú.

Cosí il gran lama di Occidente, per assicurarsi il trono della opinione, non avendo altro arsenale che quello dell’impostura, altro esercito che preti e frati, ed altre armi che la discordia e la lite, praticò senza interruzione la massima: «Divide et impera». Cosí quella religione, che influí sulla decadenza dell’impero romano, fu il principale strumento della corruzione, della debolezza e della totale caduta della nazione italiana.

È vero che tutte le popolazioni del mondo cattolico soggiacquero alle sciagure che produceva la corte di Roma; ma l’Italia, ch’era il centro della superstizione, ne sentí maggiormente il peso. L’errore, simile all’attrazione, è in ragion inversa de’ quadrati delle distanze.

Sicché gl’italiani, degradati e snaturati dal peggiore e dal piú esecrando de’ culti, isolati fra loro da muri di separazione, non hanno avuto piú né governo né morale né patria né nazione; non sono stati piú né uomini né cittadini: ed i settentrionali popoli, da schiavi ch’erano, si hanno disputato il dominio di questo delizioso paese, ch’è dimorato in uno stato puramente passivo. A’ Camini, agli Scipioni, a’ Pompei sono succeduti i compassionevoli marchesi, duchi, conti, ecc., i quali colle loro denominazioni grottesche hanno imposto tanto a’ popoli, quanto i primi avevano de’ titoli alla gloria ed alla pubblica stima coll’ascendente delle loro gesta. Da per tutto preti e frati, devoti ed ipocriti, oppressori ed oppressi, poveri in gran numero e pochi opulenti, vassalli e baroni, uomini corruttori e corrotti1 [p. 327 modifica]hanno coverta la superficie di cotesti luoghi sí rinomati: e l’Italia ha inteso con dolore l’amaro rimprovero:

     Dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa
ch’ora di questa gente, ora di quella,
che giá serva ti fu, sei fatta ancella!

Qual riparo a tanti mali? Qual rimedio a piaghe sí profonde? Come imprimere alle depresse ed avvilite fisonomie italiane il suggello dell’antica grandezza e maestá? Uno de’ principali mezzi, secondo me, è l’unione. Perché termini il monopolio inglese, e i vili isolani cessino di arricchirsi su le rovine del continente; perché si oppongano argini all’ambizione dell’Austria, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’impero russo stia immobile ne’ ghiacci del nord, la Spagna divenga stabile amica della gran repubblica; perché, in una parola, vi sia in Europa bilancia politica e si disecchi la sorgente delle guerre, è d’uopo che l’Italia sia fusa in un solo governo, facendo un fascio di forze.

Realizzandosi questa idea, gl’italiani, avendo nazione, acquisteranno spirito di nazionalitá; avendo governo, diverranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertá e di tutt’i beni che ne derivano; formando una gran massa di popolazione, saranno penetrati da’ sentimenti della forza e dell’orgoglio pubblico, e stabiliranno una potenza che non sará soggetta agli assalti dello straniero; giacché guai a quella nazione, che per dirigere i suoi affari domestici ha bisogno del soccorso altrui!

Questo è il progetto ch’esce dal fondo del mio cuore. Se le attuali circostanze, se lo spirito di vertigine che agita il dispotismo europeo, lo fanno restare per ora nel mondo delle chimere, mi auguro almeno che verrá un giorno in cui sará realizzato. E questo pensiero, questo dolce pensiero, è il piú gran tributo che un ardente patriota, martire delle persecuzioni, possa porgere in seno dell’oscuritá al benessere dell’Italia, come l’abate di Saint-Pierre, nel suo progetto di pace perpetua, lo ha offerto alla prosperitá del genere umano. [p. 328 modifica]

Questo pensiero, nell’atto che riempie l’animo della gioia la piú pura, lungi di porgere al mio spirito la rimembranza de’ mali individuali, lo consola, presentandogli la prospettiva de’ futuri progressi della coltura, de’ lumi e dell’indipendenza italiana; lo consola nel fargli considerare che l’uomo istruito nella scuola delle disgrazie, dopo aver atterrat’i suoi nemici, rientrerá nel possesso de’ suoi diritti e nella nobiltá delle sue prerogative. Possano aver ben presto un tal degno prezzo le mie meditazioni ed i miei voti sulla perfettibilitá del genere umano e della mia nazione!... Possa l’effusione de’ miei sentimenti, come la scintilla elettrica, comunicarsi, da una estremitá del pianeta all’altra, a’ miei simili, e massime a’ miei concittadini, che sono il principale oggetto delle mie affezioni!

Popolo futuro d’Italia! a te io dedico questo mio travaglio, qualunque si sia, giacché a te è riserbato di compiere la grand’opera. L’esperienza de’ tempi scorsi, le lezioni dell’infelicitá de’ tuoi avi, le cure de’ tuoi piú cari interessi, i lumi sempre crescenti della filosofia e della ragione, che ti faranno sentire il ridicolo e l’odio de’ re selvaggi, la memoria di essere stato il proprio paese spesso esposto alle conquiste, ma non mai interamente soggettato, dandoti il sentimento delle tue forze, ti spronerá a rovesciare le barriere che la mano del delitto ha innalzate, ed a solennizzare la gran festa del patto della confederazione, la quale fisserá l’èra della tua grandezza. Popolo futuro! se noi travagliamo in seminare nel campo della felicitá, tu, profittando de’ nostri sudori, ne riporterai un’ampia messe; se noi ci troviamo in mezzo alle spine della libertá, tu gusterai la soave gioia di coglierne le rose nel giardino della morale, del costume e della virtú. Addio.

Note

  1. «... corrumpere et corrumpi saeculum vocatur» è d’applicarsi alla nostra maniera di vivere passata e presente.