Saggio sulla felicità/II

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Così dicendo, diede fine il saggio romito al suo ragionamento; ed io, fattagli quella relazione di grazie, che la gratitudine la più calda seppemi in quel punto suggerire, presi da lui commiato, e mi posi in cammino, onde ritornare a casa mia. Intanto la notte sul nero suo carro, accompagnata dal silenzio, e dalla schiera multiforme de’ sogni, lunge non era dalla metà del suo corso. Il turbine erasi del tutto dileguato, ed il cielo brillava della più pura serenità. Io andava ripensando agli uditi insegnamenti, e meco stesso gioiva dell’utile cangiamento, che in me aveano operato. La nera melanconia per cui dianzi andava oppresso il mio cuore, erasi cangiata in gioja verace, e soave, e la smaniosa agitazione in dolce calma, e serena. L’esistenza non mi pareva più un peso insoffribile. La terra mi si era trasformata in delizioso soggiorno. Tutte le mie sensazioni portavano l’impronta della felicità, e per la prima volta fummi accordato [p. 58 modifica]di bere all’invidiato calice della celeste voluttà. La luna tutte illuminava le cose del virginale suo raggio. Un caro, e blando venticello tra fronda e fronda dolcemente susurrava, ed il ruscelletto orgoglioso per le cresciute sue acque, rapido moveva a flagellare le sponde. Le dolci speranze eransi in me ridestate al suono delle sagge dottrine, come i teneri fiori eransi su’ loro steli drizzati al cader della pioggia ristoratrice. Il tumulto della mia anima erasi diradato all’udire i suoi detti, come al soffiare di Borea le nubi procellose eransi dileguate. La mia calma a quella s’assomigliava della natura, e la serenità della mia mente da quella vinta non era della stellata volta de’ cieli.