Satire di Tito Petronio Arbitro/31

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Capitolo trentesimoprimo - Suffumigi ed incantagioni

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Petronio Arbitro - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Lancetti (1863)
Capitolo trentesimoprimo - Suffumigi ed incantagioni
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CAPITOLO TRENTESIMOPRIMO.

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suffumigi ed incantagioni.



Da tutte queste cose agitato io non era a dir vero assai presente a me medesimo, nè sapea giustamente ciò che mi parlassi. A che, diceva io, richiamare alla memoria cose passate, e ancor disgustose? alla fine nulla trascurai onde rimettere i nervi. Volli persino far voti agli Dei: sortii quindi per supplicare Priapo, e comunque andar potesse la cosa, feci apparenza di confidarne, e inginocchiatomi sulla porta così pregai:


Compagno delle ninfe e di Lieo,
    Tu, che la bella Venere fe’ nume
    Delle selve abbondanti: a cui si inchina
    L’inclita Lesbo, e la feconda Taso:
    5Tu che dai Lidj dalle lunghe vesti
    Se’ venerato, e ti sacraro il tempio
    Sopra l'Ipepo: o guardian di Bacco,
    O piacer delle Driadi, qui vieni
    E le timide mie preghiere accogli.
    10Non io cosperso di uman sangue vengo,
    Nè contra i templi l’inimica destra
    Empio vibrai; ma poverino e guasto

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    Tutto il mio corpo a inutil prova esposi
    Sol mezzo è reo chi per bisogno pecca.
    15Deh tu il mio cor per queste preci allieva,
    E la leggiera mia colpa perdona.
    Se l’ora suoni a me della fortuna,
    Non senza onore i’ lascerò ’l tuo culto
    Monton cornuto delle agnelle padre,
    20E di querula troia il figlio, svelto
    Dalla poppa materna, ostie cadranno,
    O Dio, sull’are tue. Di vecchio vino
    Spumeranno le tazze, e intorno intorno
    Al tempio tuo la gioventù vivace
    25Tripudiando girerà tre volte.


Intanto che io orava, e premurosamente teneva d’occhio al mio moribondo, la vecchierella entrò nel tempio coi capegli rabbuffati, e con veste nera che spaventava, e afferratomi fuori del vestibolo mi strascinò tutto tremante e mi disse: quali streghe hanno divorato i tuoi nervi? o quali mondiglie o qual cadavere hai tu di notte pestato ne’ trivi?1 Nè già ti sei rifatto sul tuo mignone, ma languido, debole, affaticato, come un cavallo che arrampica, hai gittato l’opera ed il sudore, e non contento della tua propria mancanza, hai contra me eccitato lo sdegno degli Dei. Ora non ti castigherò io?

Dipoi, senza che io mi opponessi, ella mi fe’ rientrare nella cella sacerdotale, mi rovesciò sur un letto, e staccata dall’uscio una canna, diemmene un buon carpiccio, ed io mi tacea. Che se la canna rottasi al primo colpo non avesse minorata la veemenza delle battiture, costei forse mi avrebbe fracassate le braccia ed il capo.

Io n’era afflittissimo, anche per la noia delle sue manipolazioni, e cadendomi in abbondanza le lagrime, copertami la faccia colla man destra mi abbandonai sul cuscino. Ella egualmente singhiozzando si assise [p. 185 modifica]dall’altra parte del letto, e cominciò a lagnarsi con voce tremante della lunghezza della sua vecchiaia. In quella entrò la Sacerdotessa, e disse: Perchè siete voi venuti nella mia camera, come se foste iti ad un funerale? e ciò pure in un giorno festivo, in cui anche gli afflitti si confortano.

O Enotea, rispose la vecchia, il giovinetto che tu qui vedi nacque sotto un astro maligno giacchè ei non può dispensare le cose sue nè al ragazzo nè alla druda. Tu non vedesti mai più gramo uomo. Uno straccio bagnato ha egli e non un pivolo. Egli è insomma qual vedi che esser deve un che sorte dal letto di Circe senza averne preso piacere.

Ciò udito, Enotea2 venne a sedersi tra noi due, e tentennata per qualche tempo la testa disse: Io son la sola, che possa guarir questo male: e perchè non crediate che io ci metta alcun dubbio tra mezzo, domando che se io prima non glielo rimetto sodo al par di un corno, abbia il giovinetto a dormir meco una notte.


    Quaggiù tutto a me serve. Allor ch’io voglio
La fruttifera terra i sughi addensa,
Inaridisce e langue; e allor ch’io voglio
Frutti produce. Orride balze e scogli
5Mi spillano acqua a paragon del Nilo.
A me sommette il mar l’onde tranquille;
Taciti a’ piedi miei depongon l’ale
I Zefiretti: mi ubbidiscon fiumi,
E draghi e ircane tigri alla mia voce
10Fermano il piè: ma tutto questo è nulla.
In terra scende da miei carmi spinta
L’immagin della Luna, e il Sol per tema,
Poi che trascorso ha della terra il cerchio,
Rivolge addietro i destrieri ardenti:
15Tanto ha forza il mio dir! Dei tori il fuoco
Al parlar d’una vergine si estinse;

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Con i magici suoi carmi i compagni
Circe, figlia del Sol, cambiò di Ulisse:
Sà Proteo figurar ciò che più vuole.
20Tal io, signora di quest'arte, pianto
Gli alberi d’Ida in mezzo all’acque, e posso
De’ fiumi il corso rimontare all’erta.


Io rimasi spaventato e atterrito di sì ammirabili vanti e mi posi a guardar la vecchia con maggior diligenza. Ella sclamò allora: È tempo, Enotea che tu eserciti il tuo potere. E lavatesi minutamente le mani si piegò sul letto, e baciommi una e due volte.

Enotea collocò in mezzo all’altare un’antica tavola, che caricò di carboni accesi, e con pece dileguata racconciò una tazza sdruscita, tanto era vecchia. Rimise poi nell’affumicata muraglia un chiodo, che era venuto dietro alla tazza levatane; dopo cintasi del suo piviale quadrato mise a fuoco un largo orcio, e tolse col forchetto dalla moscaiuola, un sacco di panno, ove stavan rinchiuse le fave per suo uso, ed un rancidissimo boccone di tempia roso in mille luoghi. Sciolto poscia il sacchetto, sparse una porzion delle fave sul tavolo, e mi comandò di mondarle diligentemente. Mi prestai tosto, segregando esattamente i grani che erano ancor coperti di sordide buccie. Ma accusandomi ella di lentezza mi ributtò sgarbatamente, e co’ denti abilmente cavò le scorze, sputandole in terra, dove parean tante mosche. L’ingegno della povertà è al certo mirabile; la fame insegnò più arti singolarissime. Vedevasi così divota di questa virtù la sacerdotessa, che la facea conoscere nelle più piccole cose. Il suo alloggio massimamente era un vero tempio della povertà.


Intersiato nell’or non vi splendea
L’indic’avorio, nè per lisci marmi
Lucicava la terra, in grembo a cui

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Nascon aspri e non lisci. Inetta paglia
5Su graticcio di salci affastellata
Vidi, e d’argilla boccaletti nuovi
Di ruota dozzinal facil fattura.
Dall’altro lato un tino d’acqua, e appesi
Più canestri di vimine ad un tronco
10E un’anguistara sucida di vino.
Di fango e paglie combinate a caso
Era il muro formato, e in quel ficcati
Più cavigli di legno, e un verde giunco
Da cui pendeva la pieghevol canna.
15Le sue ricchezze poi l'umil casuccia
Serbava appese alla soffitta bruna;
Sorbi maturi misti ai feston sacri,
E vecchie timbre, e di zibebbe grappi.
Tal nell’attico suol l’ospite casa
20D’Ecale parve un dì, che poi fu degna
Di divin culto, e che ne’ più tardi anni
Allo stupor de’ posteri trasmise
La vecchia musa del figliuol di Batto.3


Ella frattanto mondate le fave, gustò un cotal poco di carne, e il resto della tempia, sua coetanea, ripose con la forchetta nella moscaiuola, ma salendo per arrivarvi sopra una seggiola tarlata, questa si ruppe, e la vecchia tratta dal proprio peso fece cadere sul fuoco, sicchè la cima dell’orcio andò a pezzi, e il fuoco, omai svanito, si spense del tutto; anzi ella battè del gomito in un tizzo ardente, e si coprì la faccia della cenere sollevatasi.

Dispiacquemi, e corsi non senza ridere a rialzare la vecchia, la qual tosto, perchè nulla più ritardasse il sacrifizio camminò pel vicinato a riaccendere il fuoco. Appena era giunta all’uscio della sua casuccia, quando ecco tre oche sacre, le quali a mio credere, eran solite a venirsi a prendere al mezzodì il loro cibo dalla [p. 188 modifica]vecchia, mi corsero addosso, e con orrido e quasi rabbioso stridore, mi stettero intorno con mia grande paura, e l'una mi lacerava la tonica, e l’altra mi sciogliea i nodi de’ calzari e rapivameli, ed una persino, che guida e capo ne era, non ebbe difficoltà a morsicarmi una gamba con quel suo becco segato, che mi tormentò. Onde, lasciando le corbellerie, afferrai il piede d’un tavolino, e scagliatomi con quest’arma contro il feroce animale, gli diedi una picchiata mortale, e per vendetta l’uccisi.


    I Stimfalidi augei4 così, cred’io,
Da Alcide spinti verso il ciel fuggiro,
Così le Arpie5 profluvianti, poi
4Che le inutili mense di Fineo
Sparse di tosco avean. L’etra atterrita
Tremò pei stridi insoliti, ed uscita
Parve per lo terror dai cardin suoi
8L’empirea reggia, e scorsa oltre il suo cerchio.


Le altre oche aveano intanto raccolte le fave disperse per lo pavimento, e afflitte a parer mio della lor guida ritornarono al tempio. Io contento al tempo stesso e della preda e della vendetta, posi la uccisa dietro il letto, e la piccola ferita della mia gamba lavai di aceto; dipoi per ischivar le quistioni feci disegno di andarmene, e raccolte le cose mie m’avviai per uscire. Ma ancora non era giunto di là dell’uscio, che vidi tornare Enotea con una tegola piena di fuoco. Perciò tornai addietro, e cavatami la veste, in atto di aspettarla mi fermai sul passaggio.

Posò essa il fuoco ammonticchiato sopra cannuccie rotte, e buttatavi su molta legna, si scusò meco del ritardo per averle l’amica sua impedito di tornare, se prima non avessi vuotati, secondo il solito tre bicchieri. E intanto che hai tu fatto? mi disse; e dove sono le fave?

[p. 189 modifica] Io stimandomi aver fatto una bella cosa le raccontai ordinatamente tutta la zuffa, e perchè non fosse lungamente afflitta mi offersi a ricompensarnela. Poi mostrandole l’oca, e la vecchia veggendola, alzò sì grande schiamazzo, che avresti detto che le altre oche volessero rientrare.

Confuso io, e della novità del mio delitto maravigliandomi, la richiesi a che tanto gridasse, e come piuttosto dell’oca le rincrescesse che di me.

Ma ella battendo le mani rispose: hai pur cuor di parlare, o scellerato? Non sai la grave colpa che commettesti? Tu hai uccisa la delizia di Priapo, l’oca a tutte le donne gratissima; or vedi se picciol male hai commesso; che se la giustizia il sapesse ti impiccherebbe; hai polluto col sangue la casa mia fino ad ora inviolata, ed hai fatto sì, che qualunque mio nimico volesse destituirmi dal sacerdozio, il potrebbe.


     Disse, e strappossi le canute chiome
     Dalla tremola testa, e graffiò ’l viso,
     E tanto lagrimò quant’acqua tragge
     Giù per le valli impetuoso fiume
     5Al dileguar delle gelate nevi
     Quando col tuo tepore i ghiacci scioglie
     Austro, e alla terra dà vita novella.
     Tal quel volto coprian gorghi di pianto,
     E mormorando nel turbato petto
     10Udiasi il suon de’ gemiti profondi.


Le dissi allora, non gridare, per dio: io per un’oca ti darò uno struzzo.


Intanto ella sedutasi sul letticciuolo, deplorando la disgrazia dell’oca sua, ed io standomene tutto smarrito, entrò Proselenide col denaro del sagrificio, e vista l’oca ammazzata, e chiestaci la cagione della nostra afflizione, [p. 190 modifica]diessi a lagrimare dirottamente ancor essa, ed a compiangermi, come io avessi ucciso, non un’oca pubblica, ma il padre mio. Finalmente stanco di tal seccatura dissi: Se io vi pregassi caldamente, non potrei per dio pagando espiarmi, quand’anche fossi reo d’omicidio? Eccovi due monete d’oro, acciò vi compriate i Dei e le oche.

E vedendolo Enotea, perdona disse, ragazzo, io sono inquieta per te; abbilo per segno di amore e non di malizia. Perciò faremo sì che nessun sappia la cosa. Ora tu prega gli Iddii acciò ti perdonino quest’azione.


A chi ha danar spiran propizi i venti,
    E la fortuna a’ suoi capricci serve.
    Con Danae si giaccia, ei può sicuro
    4Rendere Acrisio che sua figlia è casta.
    Scriva reciti versi, ei fa furore;
    Tratti ogni causa a suo piacer, le vince;
    È men grande Catone appetto a lui.
    8Giudice sia, decreti, ordini, imponga,
    A Servio, a Labeon6 può gir del paro.
    E’ molto dir: ma col danaro in mano
    Ogni cosa che brami acquisterai;
    12Giove possiede chi lo scrigno ha pieno.


In seguito ella mi pose in mano una scodella di vino, e alquanto distendendomi i diti con porri e con aglio mi purgò, e immerse nel vino alcune noci avellane, e secondo che stavano a galla o discendevano, ella traeva sue conghietture: nè in ciò m’ingannava, perchè naturalmente le noci senza midollo, e colme di aria doveano stare di sopra, e le piene andarsi a fondo.

Dipoi ripresa l’oca e sventratala, ne cavò il fegato sanissimo, e da quello mi predisse i casi futuri. Anzi, acciò orma non rimanesse della colpa, tagliatala a pezzi la infilzò nello spiedo, e imbandì un lauto mangiare a colui, che poc’anzi ella diceva doversi impiccare.

[p. 191 modifica] Spesseggiavano intanto i bicchieri di vino, e le vecchierelle divoravansi allegramente l’oca, oggetto della passata afflizione. Quella finita, Enotea mezzo imbriaca a me rivoltasi disse: or compiremo il mistero onde tu ricuperi i nervi: e al tempo stesso trasse un amuleto di cuoio,7 il qual bagnato nell’olio e sparso di pepe minuto, e trita semenza di ortica, a poco a poco me lo andò introducendo nell’ano; di questo unguento la atrocissima vecchia mi unse dopo le coscie; dipoi mescolando sugo di nasturzio con abrotano, e fattomene bagno ai genitali, prese un mazzo di verde ortica, e mi flagellò leggermente sotto al bellico; allora io scottato dalle ortiche, scappai, e le vecchierelle mi corser dietro ansanti, e benchè fossero disfatte pel vino e per la concupiscenza, pur tennero la mia strada, e seguendomi per molti vicoli gridavano al ladro, dagli dagli. Fuggii tuttavia, ma ebbi in quella scappata tutti laceri i diti.



Note

  1. [p. 312 modifica]Doveva essere considerato quasi uno stregamento il [p. 313 modifica]toccare un corpo umano morto. Questa credenza forse proveniva dal costume degli Ebrei, presso i quali chi toccava un cadavere era dichiarato impuro, e dovea purgarsi, come si ha al primo de’ Numeri cap. 60 v. 9. Le superstizioni sono sempre passate di luogo in luogo e da nazione a nazione più felicemente che le scienze.
  2. [p. 313 modifica]Costei è Sacerdotessa di Priapo come già vidimo esser Quartilla. Le danze dell’una, e le cerimonie di questa, indicano gran parte de’ riti, coi quali esercitavasi il culto del nume di Lampsaco.
  3. [p. 313 modifica]Callimaco cantò della ospitalità di Eiale, donna greca, che albergò Teseo la prima volta ch’ei scese nell’Attica, per cui istituì egli una festa annua, che chiamavasi Ecalesien.
  4. [p. 313 modifica]Questi augelli infestavano l’Arcadia nelle vicinanze del lago Stinfale. Ercole consigliato da Minerva spaventandoli con istrepito di paiuoli e campane li fece allontanare, e li ridusse nell’isola d’Arezia. Perciò è detto Herculea arte, per non confondere questo fatto coi prodigj della forza di Alcide.
  5. [p. 313 modifica]Per ciò che ne hanno scritto Virgilio ed Ariosto, la favola delle arpie è troppo nota. Questi mostri avean corpi di avoltoio, e viso femminile. Esiodo ne ha conservato il nome di tre, Aello, Ocipite, e Celeno. Costoro perseguitaron Fineo re di Francia che gli Dii volevan punire delle barbarie usate ai propri figli per amore di Idea sua seconda moglie.
  6. [p. 313 modifica]Celebri giureconsulti romani.
  7. [p. 313 modifica]Le Tribadi Greche furono le prime inventrici di codesti amuleti, o stromenti suppletori, che chiamavano [p. 314 modifica]Phalloi; onde Phallovitrobuli chiamavano i latini coloro che ne usavan di vetro. Noi Italiani non ne abbiamo, ch’io sappia, nome veruno; i Francesi, presso i quali nello scorso secolo i costumi erano molto licenziosi, seppero acconciamente inventarne un vocabolo.