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Scorto dal mio pensier fra i sassi e l'onde

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Jacopo Sannazaro

Alfredo Mauro 1530 Indice:Sannazzaro, Iacopo – Opere volgari, 1961 – BEIC 1914951.djvu terzine letteratura Scorto dal mio pensier fra i sassi e l'onde Intestazione 3 luglio 2025 75% Da definire

Se mai per meraviglia alzando il viso La notte, che dal ciel, carca d'oblio
Questo testo fa parte della raccolta Sonetti e canzoni (Sannazaro)


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C

Visione in la morte de l'Ill. Don Alfonso d’Avalo Marchese di Pescara

Scorto dal mio pensier fra i sassi e l’onde,
fermato er’io su la vezzosa falda
3che Pausilipo in mar bagna et asconde.
L’intensa passïon. profonda e calda,
che mi fece alcun tempo amar quel monte,
6bollia ne l’alma ancor possente e salda;
quando, girando il sole a l'orizonte,
invitato dal sonno, infermo e lasso,
9dopo molto pensar, chinai la fronte.
E parvemi veder d’un vivo sasso
un foco uscir, che ’l mondo tutto ardea
12e poi seccava il mar di passo in passo.
E mentre gli occhi in ciò fermi tenea,
vidi nel mezzo suo fendersi il cielo
15e gridando fuggir la bella Astrea.
Per l'ossa mi sentiva un freddo gelo,
vedendo la ruina sì repente,
18et in odio tenea lo mortal velo;
quando sùbito allor mi fu presente
un’ombra, che venia di fulgid’arme
21e de’ suoi proprii rai tutta lucente.
Questa, credo, venia per consolarme,
vedendo in me tanta paura accolta,
24e per li casi suoi notificarme.
Pareami averla già vista altra volta,
ma dove non sapea, come né quando,
27né se da’ lacci uman fusse disciolta.
Così vèr lei mi strinsi, lacrimando:
— Dimmi, chi sei, felice e ben nat’alma? —
30E poi caddi a’ suoi piè, tutto tremando.

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— Mentr’io fui qui con la terrena salma,
che fu poc’anzi già — rispose allora —
33d’ogni eccelso valor portai la palma.
Né molto spazio il cielo è vólto ancora,
poscia che mi lasciasti sì pensoso,
36che mai non devea più veder l’aurora.
Tu ti partisti, et io tutto dubbioso
rimasi, e benché in vista andasse lieto,
39il cor stava sospetto e doloroso.
Ma chi pò gir contra ’l divin decreto?
Io stesso pur sentia tirarmi a morte
42d’un pensier tempestoso et inquieto.
Onde, quando a te ora il ciel sì forte
mostrò d’aprirsi, il colpo allor provai
45de la mia dura, irreparabil sòrte. —
A questi detti suoi gli occhi levai,
ma sì del sonno avea la mente ottusa,
48che per nome chiamar nol seppi mai.
Et egli: — Ov’è fuggita la tua Musa?
c’hai posto in bando la memoria antica,
51come vedessi il volto di Medusa.
Non ti soven che in quella piaggia aprica
stamane il tuo dir saggio mi riprese
54de la pericolosa mia fatica?
Allora io corsi con le braccia stese,
— Ahi lasso me! — dicendo — or ti conosco,
57magnanimo, gentil, mio gran marchese.
Perdona a l’intelletto infermo e losco,
11qual, da tema e da dolor sospinto,
60non ti scorgeva ben per l’äer fosco. —
Tre volte ivi pensai d’averlo cinto;
tre volte mossi, oimè, le braccia in vano,
63e di paura più rimasi vinto.
Parvemi l’accidente orrendo e strano,
e ritirando il piè, gittai un grido,
66qual uom che per dolor diventa insano.

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Poi dissi: — Signor mio diletto e fido,
perché fuggi da me com’ombra o vento? —
69Et ei, che di virtù fo albergo e nido,
rispose: — Amico, io son di vita spento;
ossa e polpe non ho, non prender doglia,
72ché del mio stato io son lieto e contento;
ché quella calda et eccessiva voglia,
che sempr’ebbi in mostrar l’intera fede,
75non mi fe’ mai pregiar la cara spoglia.
Et ora un sol pensier m’offende e lede,
che non perdussi al fin la bella impresa,
78e ’l mio caro signor so ben che ’l crede.
Il qual, vedendo in me tal fiamma accesa,
cercò, sì come tu, di mitigarla;
81ma la voce da me non era intesa.
Et or forse in me pensa e di me parla,
forse dubita ancor ne la mia vita,
84e pur non sa che più non potè aitarla. —
— O anima — diss’io — nel ciel gradita,
qual forza ti ristrinse al duro varco,
87ché sì sùbito sei del corpo uscita? —
— Mira, — rispose, e disegnommi il parco —
la mia animosa fé qui mi condusse,
d’amor, d’affezzïon. di voler carco.
E qui ogni mia gloria si distrusse.
Or pò ben estimare il volgo cieco,
93se le cose di qua son vane e flusse.
E chi nol sa, ripensi questo or seco,
che quel cor, a cui fu sì angosto il mondo,
96or si contenterà d’un breve speco;
e quel animo vasto e sì profondo
iniqua frode in sì brev’ora oppresse,
99col chiaro ingegno, a null’altro secondo. —
Mentre ei parlava, io gli vedea sì spesse
faville lampeggiar sotto la gola,
102che parea c’una stella ivi tenesse.

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Così mirando in quella parte sola:
— Signor mio, — dimandai — che cosa è questa? —
105Et ei così seguì la mia parola:
— La luce, c’ora a te si manifesta,
è ’l segno che lasciò l’empia saetta,
108c’al mio punto fatai volò sì presta.
Questo è l’onor che del ben far s’aspetta:
mostrar per gloria le corusche piaghe,
111poi che non lice in ciel cercar vendetta.
Però prega per me c’omai s’appaghe
il mio signor, e di’ ch’io mi ricordo
114de le parole sue dolci e presaghe.
Ma ’l pensier cieco e ’l desiderio ingordo
tenean la mente mia tanto offuscata,
117che tutto era narrar fabule al sordo.
Diraili ancor che lieta et impensata
vittoria al suo favor spiegherà l’ale,
120quando da lui sarà più desiata:
onde con fama eterna et immortale
alzarà insino al cielo i suoi trofei;
123e fia il gran nome a’ suoi gran gesti eguale.
Così, s’a te non grava, ancor vorrei
pregassi poi la mia bella Costanza
126che col pianto non turbe i piacer miei.
Ferme negli altri duo la sua speranza,
ché, leve e scarco de le umane some,
129chiamato io son ne la superna danza.
Or è ragion c’adempia d suo bel nome,
onde Ippolita mia prendendo esempio,
132le man non ponga in su l’aurate chiome.
Pense che ’n questo eterno, immortal tempio,
che voi chiamate ciel, sarà ’l mio ospizio,
135lontan dal viver basso, iniquo et empio;
ove, rivolto al nostro primo inizio,
volgerò in gioco i miei passati danni,
138non più suggetto a bruma et a solstizio.

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Dunque, in me non contate i giorni e gli anni,
c’assai son visso io già, se ’l viver mio
141da li sudor s’estima e dagli affanni.
Temprate, egri mortai, vostro desio,
ché non la lunga età, ma i chiari gesti
144ne bastan a schermir dal cieco oblio.
Gli anni son a fuggir sì lievi e presti,
c’al fine altro non è c’un volver d’occhi
147questo, che poi vi lassa afflitti e mesti.
Però, pria che l’offesa in voi trabocchi,
armate il petto incontro a la Fortuna,
150ché vano è l’aspettar che ’l colpo scocchi.
Così dicendo, al raggio de la luna,
c’allor del mar uscia, rivolse il viso;
153poi salutò le stelle ad una ad una
e lieto se ne andò nel paradiso.