Seconda parte del Re Enrico VI/Atto secondo

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Atto secondo

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ATTO SECONDO


SCENA I.

Sant'Albano.

Entrano il re Enrico, la regina Margherita, Glocester, il Cardinale e Suffolk con falchi e in abiti da caccia.

Mar. Credetemi, signori, da sette anni non ridi più bella caccia, sebbene il vento fosse fortissimo, e vi fosse dieci a porre contr’uno che il vecchio falco del re, infiammato dal suo ardore, avrebbe preso il volo senza far ritorno.

Enr. Ma con quale impeto, Glocester, il falco vostro si è avventato! A quale immensa altezza è rapidamente giunto al di sopra di tutti gli altri! Soggetto di riflessione è questo, vedendo quale istinto il Dio del Cielo ha posto in tutte le sue creature! L’uomo e l’uccello aspirano del pari ad innalzarsi.

Suff. Nulla è meno meraviglioso, se Vostra Maestà mi concede di dirlo, che di vedere i falchi del lord Protettore andare sì insù. Essi sanno che il loro signore ama le superne regioni e porta i suoi pensieri al di là di ogni limite.

Gloc. Milord, ignobile è quella mente che non sa elevarsi al disopra del volo di un uccello.

Car. Io pure lo credo; egli ama le nubi.

Gloc. Sì, milord cardinale; che vorreste dire con ciò? Non sareste voi lieto di potervi innalzare sino al Cielo?

Enr. Al soggiorno dell’eterna gioia!

Car. Il tuo Cielo è sulla terra: i tuoi occhi e i tuoi pensieri si aggirano sopra una corona, delizia del tuo cuora Terribile Protettore, pari pericoloso, che sai piaggiare il re e ingannare il popolo.

Gloc. Oh! un cardinale si lascia travolgere da tanta collera? Tantae ne animis coelestibus irae? Gli ecclesiastici sono sì ardenti? Buon zio, cela la tua malignità; come la concilii tu col tuo santo carattere?

Suff. Non v’è malignità, signore; ei non fa che ciò che si addice in sì giusta contesa contro sì odioso pari.

Gloc. Qual pari, milord?

Suff. Voi stesso; così piaccia alla sovranità del lord Protettore. [p. 90 modifica]

Gloc. Tutta l’Inghilterra conosce la tua insolenza, Suffolk.

Mar. Ed anche la tua ambizione, Glocester.

Enr. Taci, te ne prego, buona regina; e non incitare questi furiosi; perocchè benedetti son solo coloro che esercitano un ministerio di pace in terra.

Car. Ch’io sia benedetto dunque per la pace che fo con questo superbo Protettore, colla mia spada!

Gloc. È egli vero, santo zio, ne vorreste voi venire a ciò?

(a parte al cardinale)

Car. Sì, se tu l’osi. (sempre a parte)

Gloc. Non suscitare allora alcuna fazione; rispondimi solo del tuo oltraggio.

Car. E come, se non ardisci mostrarti? Se lo ardisci, vieni questa sera sul canto orientale del bosco.

Enr. Ebbene, miei lordi?

Car. (forte) Credetemi, cugino Glocester, se il vostro scadere non avesse così di subito richiamato il falco, saremmo ancora alla caccia. — (sommessamente) Vieni colla tua spada a due mani.

Gloc. Sì, zio.

Car. Lo prometti? Al canto orientale del bosco?

Gloc. Cardinale, son con voi.

Enr. Che dunque, zio Glocester?

Gloc. Parliam di falchi, e non d’altro, milord. — (a parte') Ora, per la madre di Dio, il mio prete, io vi tenderò il capo, o tutti i miei colpi andranno a vuoto.

Car. Medice, cura te ipsum; Protettore, badate a ben protegger voi stesso. (a parte)

Enr. I venti aumentano; e così le ire vostre, miei lòrdi. Come incresciosa è tal musica al mio cuore! Quando tali corde vibrano, quale speranza v’è d’armonia? Ve ne prego, signori, lasciate ch’io componga questa contesa.

(entra un abitante di Sant’Albano gridando miracolo)

Gloc. A che accenna questo romore? Amico, di che miracolo parli?

Ab. Miracolo! miracolo!

Suff. Vieni dal re, e digli qual è il tuo miracolo.

Ab. Sulla tomba di sant’Albano un cieco pur mo ha riacquistata la vista; un uomo che mai veduto non ci avea per lo innanzi.

Eur. Dio sia lodato! alle anime credenti codesta è luce che squarcia le tenebre, conforto che toglie ogni disperazione! (entra [p. 91 modifica]il prefetto di Sant’Albano co’ suoi colleghi; e Simpcox portato da due persone sopra una sedia; sua moglie e una gran moltitudine lo seguono)

Car. S’avanzano i cittadini in processione per presentare a Vostra Altezza l’uomo meraviglioso.

Enr. Grande dev’essere il suo giubilo in questa valle terrestre, sebbene mercè la vista, accresciuta si sia la sua facoltà di peccare.

Gloc. Ritiratevi, signori, e appressatelo al re; Sua Altezza desidera d’intrattenersi seco.

Enr. Buon amico, dinne il tuo caso, onde insieme con te possiamo glorificare il Signore. A lungo adunque tu fosti cieco, ed ora ci vedi?

Simp. Nacqui cieco, milord.

Moglie. Vero è.

Suff. Chi è costei?

Moglie. Sua moglie, così piaccia a vossignoria.

Gloc. Fossi tu stata sua madre, meglio lo avresti potuto affermare.

Enr. Dove nascesti?

Sim. A Berwick nel Nord, sia detto col vostro beneplacito.

Enr. Povera anima! la bontà di Dio è stata grande per te: non fare che di notte trascorra mai senza che tu lo santifichi, e ti rimembri di quello che egli ha operato.

Mar. Dimmi, amico, venisti tu qui eventualmente, o per una divozione a queste sante reliquie?

Sim. Per pura divozione, e Dio lo sa. Cento volte fui chiamato, e per lo più ne’ miei sonni, dal buon sant’Albano, che mi diceva: Simpcox, vieni; vieni ad adorare le mie reliquie ed io ti aiuterò.

Moglie. È vero, è vero; e molte volte io stessa ho udita una voce che lo chiamava così.

Car. Che, sei anche zoppo?

Sim. Si, così l’onnipotente Iddio mi aiuti!

Suff. Come lo divenisti?

Sim. Caddi da un albero.

Moglie. Da un susino, signore.

Gloc. Quanto tempo fosti cieco?

Sim. Nacqui tale, lo ripeto.

Gloc. E ti arrampicavi sopra gli alberi?

Sim. Una sola volta in mia vita, e quando era giovine.

Moglie. È vero, e pagò il suo ardire ben caro.

Gloc. Per la messa! tu amavi i susini assai, per avventurarti in tal modo. [p. 92 modifica] Sim. Oimè! buon signore, mia moglie desideraya qualche frutto, e mi faceva salire a rischio della vita.

Gloc. Scorto malandrino, le tue arti non ti gioveranno. — Lasciami vedere i tuoi occhi. Chiudili... aprili... parmi che tu non ci vegga ancor bene.

Sim. Sì, milord, e ne ringrazio Dio e sant’Albano.

Gloc. A me lo dici? Di che colore è questo mantello?

Sim. Rosso, milord, rosso come il sangue.

Gloc. Ti apponi: ma di che colore è il mio abito?

Sim. Nero, nero come i carboni, come i corvi.

Enr. Tu sai dunque di qual colore sono i corvi?

Suff. E nondimeno io credo che egli non mai ne vedesse.

Gloc. Ma mantelli ed abiti ne avrà veduti in copia prima d’oggi?

Moglie. Non mai prima d’oggi, in tutta la sua vita.

Gloc. Dimmi, mariuolo, qual è il mio nome?

Sim. Oimè! signore, nol so.

Gloc. Qual è il suo nome?

Sim. Nol so.

Gloc. Nè il suo tampoco?

Sim. No, in verità.

Gloc. Qual è dunque il tuo?

Sim. Saunder Simpcox, così vi piaccia, signore.

Gloc. Siedi dunque qui, Saunder, il più insigne impostore di tutta la cristianità. Se tu fossi nato cieco, avresti così bene potuto conoscere i nostri nomi, come distinguere i vani colori che portiamo. L’occhio avrebbe ben potuto discernerli; ma nominarli era impossibile. — Signori, sant’Albano ha fatto un miracolo; ma non istimereste egualmente miracoloso il rendere a questo zoppo l’uso delle sue gambe?

Sim. signore, così il poteste.

Gloc. Magistrati di Sant’Albano, non avete uffiziali di giustizia nella vostra città, e strumenti chiamati scudisci?

Pref. Sì, milord, così vi piaccia.

Gloc. Mandate dunque a prender d’entrambi.

Pref. Amico, adempi all’ordine. (esce uno del seguito)

Gloc. Ora mi si trovi uno sgabello. — Amico, se vuoi sottrarti alle sferzate, mestieri ti è il saltare questo sgabello, e correr via.

Sim. Oimè! signore, io non posso stare in piedi: mi crucierete invano. (rientra quello del seguito cogli ufficiali)

Gloc. Ebbene, vi farem trovare le vostre gambe: ufficiali, sferzatelo finchè egli abbia saltato lo sgabello. [p. 93 modifica]

Uff. Obbedisco, milord. — Malandrino, deponi cotesta giubba.

Sim. Oimè! messere, che debbo io fare? Io non posso reggermi. (dopo che l’Ufficiale gii ha dato un colpo, ci salta lo sgabello e corre via: il popolo lo segue gridando: miracolo!)

Enr. Oh Dio! tu vedi ciò e rattieni le tue folgori?

Mar. Mi muove a riso il veder correre sì celeremente quel malandrino.

Gloc. Seguitelo; e ponete in carcere questa sciagurata.

Moglie. Oimè! lo facemmo per puro bisogno.

Gloc. Siano sferzati pei mercati di tutte le città, finchè giungano a Berwick, di dove vennero.

(escono il pref., gli uff., la moglie, ecc.)

Cor. Il duca Umfredo ha fatto oggi un miracolo.

Suff. È vero: fe’ raddrizzare e correre uno zoppo.

Gloc. Ma voi operaste più miracoli di me: in un giorno, milord, voi lasciaste fuggire venti città di Francia. (entra Buckingham)

Enr. Quali novelle, cugino Buckingham?

Buck. Tali che il mio cuore trema a palesarvele. — Una frotta di vili mendichi, di scellerati avvezzi ad atti empii, sotto la protezione della duchessa Eleonora, donna di Sua Grazia, complice e capo di una lega odiosa..... ha ordite trame infernali contro Vostra Maestà. Noi li abbiamo sorpresi in flagrante, in mezzo a streghe e maghi, evocanti dal fondo dell’abisso spiriti nefandi, che interrogavano poscia sulla vita e la morte di Enrico e di altri pari del consiglio segreto di Vostra Maestà. I particolari di tanti orrori verranno sottoposti ai vostri occhi

Car. (a parte a Glocester) Ebbene, milord Protettore, con questi mezzi la vostra sposa diventa sicura in Londra. Queste notizie, io credo, avranno tolto il filo alla vostra spada: è probabile che ora non verrete al ritrovo.

Gloc. Ambizioso ecclesiastico, cessa di straziare il mio cuore. Il dolore e l’ambascia mi han tolte tutte le facoltà. Vinto sono: ti cedo, mi arrendo a te... o anche all’ultimo dei paltonieri.

Enr. Oh Dio! quali malefizi vagheggiano i perversi! Ma tu fai ricadere i loro delitti sopra le loro teste!

Mar. Glocester, mira la corruttela nel tuo nido, e di’ che felice saresti potendo chiarir innocente te medesimo.

Gloc. Signora, quanto a me, ne attesto il Cielo che ho amato sempre il mio re e lo Stato, senza aver nulla da rimproverarmi. Della mia sposa mi sono ignoti i falli; e la mia anima è afflitta per ciò che ha inteso. — Eleonora è nata di un sangue illustre, [p. 94 modifica]ma se ha posto in non cale l’onore e la virtù tanto da contaminarsi col commercio di empi vagabondi, io la ripudio; e abbandono all’obbrobrio delle leggi colei che disonora l’immacolata nome di Glocester. (esce)

Enr, Sia qui fine al nostro viaggio, e in questo luogo passiamo la notte. Dimani riprenderemo la strada di Londra, per approfondire questo mistero, e far subire ai colpevoli un rigoroso esame. La bilancia della giustizia non vacillerà nella mia mano: il delitto peserò con braccio fermo ed equo: così possa trionfare la verità!

(squillo di trombe; escono)


SCENA II.

Londra. — Giardini del Duca di York.

Entrano York, Salisbury e Warwick.

York. Ora, i miei buoni lòrdi di Salisbury e Warwick, dopo un pasto semplice e frugale, all’ombra romita di questo luogo, lasciate ch’io vi interroghi sui titoli miei alla corona d’Inghilterra, che credo incontestabili.

Sal. Desidero di udirvi esporre i vostri diritti.

War. Parlate, nobile York; e se la vostra pretesa è fondata, contate sui Nevil e vedete in essi altrettanti vassalli agli ordini vostri.

York. Uditemi dunque. — Eduardo III, lo sapete, miei lòrdi, fu padre di sette principi. Eduardo, detto il principe Nero, signore di Galles, nacque avanti ogni altro; il secondo fu Guglielmo di Hatfield, morto adolescente: Lionello, duca di Clarenza, il terzo a cui seguì immediatamente Giovanni di Gaunt, duca di Lancastro: il quinto, col nome di Edmondo Langley, ricevè il titolo di duca di York: il sesto fu Tommaso Woodstock, duca di Glocester, e Guglielmo di Windsor fu l’ultimo. Eduardo, il principe Nero, discese nella tomba prima di suo padre, e lasciò un Riccardo, suo figlio unico, che, dopo la morte di Eduardo il Grande regnò in pace sopra quest’isola, fino al giorno in cui Bolingbroke, figliuolo maggiore ed erede di Giovanni di Gaunt, si fece incoronare sotto il nome di Enrico IV, s’impadronì del regno, depose il legittimo re, mandò la sua sconsolata regina in Francia, sua patria, e lui al castello di Pomfret, dove, come a tutti è noto, il misero inerme fu barbaramente assassinato.

War. Mio padre, vero è quello che il duca ne dice: fa appunto così che la casa di Lancastro ebbe la corona. [p. 95 modifica]

York. Che oggi per forza e non per diritto ritiene; perocchè dopo l’estinzione della schiatta di Riccardo, la posterità di suo fratello maggiore doveva succedere al trono.

Sal. Ma quel fratello Guglielmo Hatfield mori, come voi pur dite, senza lasciare eredi.

York. Il duca di Clarenza, che veniva dopo di lui per ordine di nascita, e per linea del quale io assumo i miei titoli alla corona, ebbe dal suo imeneo una figlia che sposò Edmondo Mortimero, conte della Marca, e diede vita a Ruggero, padre di un secondo Edmondo e delle principesse Anna ed Eleonora.

Sal. Quell’Edmondo, sotto il regno di Bolingbroke, come si legge nelle cronache di quel tempo, fece valere i suoi diritti alla corona, e sarebbe forse giunto a detronizzare l’usurpatore senza l’opposizione di Owen Glendower che lo tenne prigioniero fino alla morte. Ma procediamo.

York. Anna, sua sorella e mia madre, essendo erede della corona, si unì a Riccardo, conte di Cambridge, che scendeva da Edmondo Langley, quinto figlio di Eduardo il Grande; è pel fatto di lei ch’io reclamo lo scettro: perocchè ad essa toccava il retaggio di Ruggiero, conte della Marca, solo frutto essendo del matrimonio di Edmondo Mortimero colla figlia unica di Lionello. Se dunque la generazione del maggiore deve succedere a quella del minore, io sono il re.

War. Qual diritto più vero di questo! Enrico tragge i suoi titoli da Giovanni di Gaunt, quarto figlio di Eduardo. York li trae dal terzo figliuolo. Fino a che il ramo di Lionello non si estingua, i Lancastri non possono nulla pretendere, e tale ramo, lungi dall’essere in estremo di morte, fiorisce in voi e ne’ vostri nobili figli, magnanimi rampolli di sì bella pianta. Qual motivo mi farebbe indugiare ancora? A che esitiamo, padre mio Salisbury!

Sal. Cadiamo entrambi alle sue ginocchia, e in questa unione solitaria e sacra, siamo i primi degl’Inglesi che, ristabilendo l’ordine della natura, salutano il loro legittimo signore con tutti gli onori dovuti ai successori dei re.

Tutti e due. Viva sempre il nostro sovrano Riccardo, re d’Inghilterra!

York. Grazie ve ne siano, miei lòrdi, ma non sarò vostro re, se prima non vengo coronato, e la mia spada tinta non si è nel sangue della casa di Lancastro; l’una e l’altra cosa non possono compiersi in un giorno così avventatamente. Quest’opera richiede tutta la lentezza della meditazione, e il silenzio più profondo. Comportatevi come io fo in questi tempi procellosi. Chiudete gli [p. 96 modifica]occhi sull’arroganza di Suffolk, sulla scelleratezza intrepida di Beaufort, sull’ambizione di Sommerset e la viltà di Buckingham, non che su quella turba oscura che trama sordamente sotto gli ordini loro per avvolgere nel laccio il guardiano dell’armento, il virtuoso e nobile Umfredo: è la sua spoglia ch’essi cercano: ma cercandola troveran morte, se York può prevedere l’avvenire.

Sal. Milord, usciamo: ora ci son noti i vostri diritti e le vostre intenzioni.

War. Il mio cuore mi assicura che il conte di Warwick farà un giorno del duca di York un re.

York. Ed ecco, Nevil, quello che mi dice il mio: Riccardo vivrà per fare del conte di Warwick l’uomo più potente d’Inghilterra, dopo il sovrano. (escono)

SCENA III.

La sala di giustizia.

Squillo di trombe. Entrano il re Enrico e la regina Margherita; Glocester, York, Suffolk e Salisbury; la duchessa di Glocester, Margery Jourdain, Southwell, Hume e Bolingbroke, in mezzo alle guardie.

Enr. Avanzatevi, Eleonora, sposa di Glocester. Agli occhi del Cielo e ai nostri il delitto che compieste è ben grave. Ricevete la sentenza della legge per opere che il libro di Dio ha giudicate degne di morte. — Quanto a costei e a questi tre profanatori convinti, essi ritorneranno nella loro prigione, e di là verran tradotti al campo di Smithfield, dovei loro corpi saranno dati alle fiamme, e le loro ceneri saranno disperse al vento. — Voi, signora, in contemplazione della vostra nascita, spogliata d’onori durante la vita, dopo tre giorni di pubblica penitenza, sarete condotta fuori della vostra patria, e vivrete in perpetuo bando, insieme con sir Giovanni Stanley, sulle scogliere dell’isola di Man.

Duch. Accetto volentieri l’esilio: avrei del pari accettata la morte.

Gloc. Eleonora, lo vedi, la legge ti ha giudicata: io non posso redimere quelli che la legge condanna. — (escono la duchessa e gli altri prigionieri fra le guardie) I miei occhi sono pieni di lagrime, il mio cuore d’affanno. Ah! Umfredo, questo disonore alla tua età farà scendere il desolato tuo capo nel sepolcro! Chieggo [p. 97 modifica]a Vostra Maestà il permesso di uscire; il dolore esige distrazione, e la vecchiaia libertà.

Enr. Fermati, Umfredo, duca di Glocester: anzichè te ne vada, cedimi il bastone del comando; Enrico sarà protettore di se stesso, e Dio mi diverrà guida, faro e speranza. Esci ora in pace, Umfredo: non meno amato sarai di quando eri protettore del tuo re.

Mar. Non veggo motivo, perchè un re adulto debba essere tutelato come un fanciullo. — Dio e il re Enrico stanno al timone dell’Inghilterra: cedete il vostro bastone, signore; date al re il suo regno.

Gloc. II mio bastone? Eccolo, nobile Enrico; e così volentieri lo rinunziò, come volentieri lo accettai dal vostro padre Enrico. Io Io depongo ai vostri piedi, dove altri ambiziosi verranno a prenderlo. Addio, buon re: allorchè io sarò morto, possa una onorevole pace circondar sempre il vostro trono. (esce)

Mar. Alfine, Enrico è re, Margherita regina, e Glocester non è più che un’ombra di se stesso, che il vestigio di una grandezza scomparsa. Due assalti terribili, l’uno al suo cuore col bando di sua moglie, l’altro al suo orgoglio, gli han fiaccate le braccia. Ecco ripreso alfine questo bastone di onore. Oh ch’ei rimanga qui nel suo posto naturale; nè esca mai più dalle mani di Enrico.

Suff. Come cade un superbo pino colpito dalla folgore, così la saperbia di Eleonora spira nel fiore de’ suoi giovani anni.

York. Signori, lasciamoli nell’obblio. — Ecco intanto il giorno che avete eletto per un’altra giustizia e fermato pel combattimento. Già l’appellante e lo sfidato aspettano il segnale per entrare in lizza, se le Maestà Vostre perseverano nel disegno di essere presenti allo spettacolo.

Mar. Sì, mio buon lord: ho abbandonata la corte per vedere appunto la decisione di questa contesa.

Enr. Oh! in nome di Dio, visitate il campo e le armi: l’affezione si tacia, i giudici siano neutrali, e Dio difenda il giusto!

York. Non mai vidi uomo peggio armato, o più timoroso di combattere dell’appellante, domestico del suo accusato.

(entrano da un lato Horner e i suoi vicini beventi a lui e con lui tanto ch’ei ne rimane ubbriaco, ed entra portando il suo bastone e un sacco di sabbia; un tamburo lo precede: dall’altra parte Pietro pure con un tamburo, e armato di una gran mazza, viene scortato da’ suoi amici che egualmente bevono, e lo fanno bere)

Vicino. Amico, vicino Horner, bevo alla vostra salute: non abbiate timore, combatterete a meraviglia. [p. 98 modifica]

Vicino. Eccovi una tazza di vino dolce.

Vicino. E questa è di ottima birra: bevete e non temere.

Hor. Date qui, berrò tutto; morte a Pietro!

Amico. Pietro, bevo alla tua salute, non temere.

Amico. Statti lieto, Pietro, nè aver paura del tuo padrone; combatti pel credito degli amici tuoi.

Sal. Vi ringrazio tutti: bevete e pregate per me, ve ne supplico; poichè credo di aver preso il mio ultimo sorso in questo mondo. — Qui, Robin, se muoio, ti lascio il mio grembiule; a te, Guglielmo, il martello; a te, Tommaso, tutto il denaro che avrò. — Oh! Iddio mi benedica, lo prego: perocchè io non sono atto a combattere col mio signore che tanto è perito nelle armi.

Sal. Animo, lasciate il bere, e venite allo scontro. — Qual è il tuo nome?

Piet. Pietro.

Sal. Pietro, a che indugi?

Piet. Andiamo.

Sal. Vedi d’aggiustare per bene il tuo padrone.

Hor. Signori, son venuto qui a istigazione del mio domestico per provargli che è un malandrino, ed io un onest’uomo. In quanta al duca di York, giurerò in morte che non gli volli mai male, nè al re, nè alla regina. Perciò bada a questo colpo ch’io ti vibro, col furore che provò Bevis di Southampton contro Ascapart.

York. Affrettati: la lingua di questo miserabile comincia a balbettare. Squillate, trombe, e date il segnale ai combattenti.

(allarme. Combattono, e Pietro atterra il suo padrone)

Hor. Fermati, Pietro, fermati! Confesso, confesso il tradimento. (muore)

York. Prendi le sue armi, e ringrazia Dio e il buon vino, che stava nel ventre del tuo signore.

Piet. Oh! Dio, ho io dunque abbattuto il mio nemico alla presenza di sì augusto consesso? Pietro, la ragione ti ha fatta prevalere!

Enr. Va; sia trasportato lungi di qui il corpo di quel traditore; la sua morte ci fa travedere il suo delitto. Dio nella sua giustizia ci ha rivelata l’innocenza, e la sincerità di questo tapino ch’ei sperava di far cadere sua vìttima. — Vieni, amico, vieni a prendere la tua ricompensa. (escono) [p. 99 modifica]

SCENA IV.

Una strada.

Entrano Glocester e i suoi domestici in corrotto.

Gloc. Così talvolta il giorno più splendido si estingue entro nube; e alla state tien dietro sempre lo sterile inverno, orribile di ghiacci e di nebbie. E come le stagioni si succedono, così conseguono i beni e i mali. — Amici, che ora è?

Dom. Dieci ore, signore.

Gloc. È l’ora che mi fu indicata per aspettare il passaggio della mia sposa punita. Trascinata essa viene senza pietà per le strade, a ogni selce del pavimento strazia i suoi piedi teneri e delicati, e le fa mandare un grido di dolore. Sfortunata e cara consorte, come mai la tua anima soffre ella un popolo abbietto, che dappresso con insolenza ti guarda e ti irride, esso che non ha guari ancora correva dinanzi alle veloci ruote del tuo carro, allorchè passavi in trionfo per le vie di Londra! Ma odo le grida: ella giunge; ed io preparerò i miei occhi oscurati dalle lagrime a vedere le sue miserie. (entra la duchessa di Glocester colla tunica bianca; una carta in cui sta scritto il suo delitto attaccata alla vita, i piedi nudi e un torchio acceso in mano; sir Giovanni Stanley, uno sceriffo, e ufficiali)

Dom. Così piaccia a Vostra Grazia, noi la libereremo dalle mani dello sceriffo.

Gloc. No, non vi muovete, se v’è cara là vita; lasciatela passare.

Duch. Venite voi, milord, per contemplare la mia vergogna? Ora voi fate penitenza con me, e dividete il mio supplizio. Mirate come i loro sguardi s’affiggono in noi. Mirate come questo stolto popolo vi accenna a dito, e scrollando il capo vi commisera. Ah, Glocester, celatevi ai loro sguardi odiosi, e nella vostra solitudine, deplorando il mio obbrobrio, andate a maledire per sempre i vostri e i miei nemici.

Gloc. Datevi pace, gentile Eleonora, obbliate questo oltraggio.

Duch. Oh! Glocester, insegnatemi ad obbliare la mia esistenza, piuttosto; perocchè quando penso che sono vostra sposa, e voi un principe e il protettore di questo regno, parmi che non dovrei essere così condotta e avviluppata in questo sacco ignominioso, con cartelli infami sul dorso, seguita da una vile moltitudine che [p. 100 modifica]gioisce de’ mie! pianti e dei miei gemiti profondi. I sassi spietati squarciano i miei deboli piedi; e quando fremo di dolore, il popolo crudele ride de’ miei mali e mi ammonisce d’esser canta nell’andare. Ah! Umfredo, poss’io tollerare tanta infamia? Credi tu ch’io vorrò mai più gittare uno sguardo su questo mondo, o chiamar felici coloro che godono della luce dei dì? No: l’oscurità sarà la mia luce; la notte il mio giorno; la memoria della mia grandezza passata l’inferno mio. Qualche volta ricorderò che son moglie del duca Umfredo, principe e sovrano legislatore di questo paese. Nondimeno tale è la sua volontaria dipendenza, tale la pazienza di questo principe, ch’ei tace e riman placido, intantochè la sua compagna piangente beve a larghi sorsi nella tazza del disprezzo, e si vede oggetto degli sguardi e bersaglio alle offese della più villana plebaglia. Continua, aderisci a’ tuoi voti, non arrossire della mia ignominia, non fiatare, finchè la scure della morte non si alzi sopra il tuo capo, come, te ne fo fede, in breve farà; perocchè Suffolk, quell’uomo assoluto e tiranno a cui nulla è impossibile, otterrà tutto da colei che ci abborre; e York e l’empio Beaufort, prete senza fede, steso hanno il laccio in cui resterai avvinto. Vorrai allora invano fuggire; essi ti stringeranno sempre di più ma continua, continua senza sospetti, senza diffidenza; non adottare alcuna cautela contro ai tuoi nemici, fino a che il tuo piede non sia nell’abisso.

Gloc. Ah! cessa, cessa, Eleonora. Forza è che io sia colpevole, prima d’esser convinto. Avessi venti volte tanti nemici, e ognun di loro mi apparisse con centuplicate forze, tutti insieme non potrebbero farmi provare il più lieve corruccio, mentre fossi leale, fedele e mondo di rimproveri. Tu vorresti che il mio braccio si fosse opposto alla tua punizione? Credimi, la tua vergogna non ti sarebbe stata tolta pel mio attentato, e reo io sarei divenuto per l’infrazione della legge. Eleonora, la rassegnazione è il solo e il più gran rimedio a’ tuoi mali. In nome del Cielo e della mia tenerezza, sii in calma! questi giorni di pena e di umiliazione verranno in breve obbliati. (entra un Araldo)

Ar. Invito Vostra Grazia a comparire al parlamento di Sua Maestà, che sarà tenuto a Bury il primo del prossimo mese.

Gloc. Non mai la mia presenza fu richiesta con tanta solennità! A meraviglia; verrò. (esce l’Araldo) Mia Eleonora, addio: voi, sceriffo, se la vostr’anima è sensibile, non fate che la sua pena ecceda la sua sentenza.

Scer. Il mio ufficio si compie qui, milord; e sir Giovanni Stanley deve ora condurla nell’isola di Man. [p. 101 modifica]

Gloc. Vorrete voi, sir Giovanni, addolcire colà la sorte della mia infelice sposa?

Stan. Per quanto mi sarà dato di farlo, mio signore.

Gloc. Siatele cortese, ve ne prego; la fortuna può ancora volgersi a me, ed io posso vivere abbastanza per compensarvi della vostra bontà. Addio, sir Giovanni

Duch. Voi partite, milord, senza pure abbracciarmi?

Gloc. Le mie lagrime ti dicano ch’io non posso fermarmi di più. (esce coi Dom.)

Duch. Tu ancora sei partito? Ogni conforto svanisce con te! Nulla più mi rimane; la mia sola speranza è riposta nella morte; nella morte, al di cui nome tante volte ho fremuto, perchè io desiderava l’eternità di questo mondo. — Stanley, te ne prego, partiamo; non vale dove sarò condotta; non chieggo grazia: guidami dove ne hai comando.

Stan. È all’isola di Man, signora, dove avrete il trattamento che vi si debbo.

Duch. Duro ei sarà, perocchè ignominioso è il mio stato: mi li userà dunque tanto rigore?

Stan. Non più di quello che si addica al vostro grado ed alle vostre nozze.

Duch. Sceriffo, addio: sii più felice di me, quantunque questo giorno ti abbia veduto presiedere alla mia onta.

Stan. Fu l’ufficio mio, signora: vogliate perdonarmelo.

Duch. Va, addio; quell’ufficio è compiuto. Partiamo, Stanley?

Stan. Signora, ora che avete subita la vostra pena, gittate via quella tonaca, e venite ad indossare panni più dicevoli.

Duch. Deponendo quest’abito non mi laverò del mio disonore: questo rimarrà sempre sopra ogni mio vestito, qual che ne sia la ricchezza. Andate, precedetemi; desidero di vedere la mia prigione. (escono)