Sofonisba (Alfieri, 1946)/Atto terzo

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Atto terzo

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Atto secondo Atto quarto

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ATTO TERZO

SCENA PRIMA

Sofonisba.

Misera me! che mai sará? qual chiude

feroce arcano or Massinissa in petto?
Che mai gli disse il reo Scipione? Ah! sempre,
sempre il previdi, che fatale a entrambi
questo campo sarebbe. — Oh Massinissa!...
Or, di pianto pietoso pregni gli occhi,
me stai mirando, e favellar non m’osi...
Or, con tremanti ed interrotti accenti,
tua pur mi chiami: or, disperati e biechi
ferocemente asciutti gli occhi torci
da me sdegnoso; e su la ignuda terra
ti prostendi anelante; e sole invochi
con grida orrende le furie infernali...
Ah! nel mio petto le tue furie istesse
trasfuse hai giá. — Presagio in cor di quanto
minaccia a noi questo Scipione, io l’ebbi:
tutto antivedo; e in un, di nulla io temo.
Or ch’ei, qual debbe, aperto emmi nemico,
or io Scipion vo’ udire, e far ch’egli oda
di Sofonisba i sensi... Ma, chi veggo
venir ver me? Fors’io vaneggio?... Oh cielo!
Vivo Siface?... in questo campo?... Oh vista!

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SCENA SECONDA

Siface, Sofonisba.

Siface Alto stupor pinto hai nel volto, o donna,

nel rivedermi? — Esser doveva io spento:
benigna in ciò la fama ebbi, ma avversa
la fortuna, pur troppo!
Sofon.   Oh inaspettata
terribil vista! Or mi è palese appieno
l’orrendo arcano...
Siface   Infra te stessa parli?
A me favella. Or, mirami; son quello,
quel tuo consorte io son, che, a te posposto
e regno e onor, privo d’entrambi, avvinto
infra romani lacci, ancor su l’orlo
della bramata tomba il piè rattengo,
per saper di tua sorte.
Sofon.   Oh detti!... Ahi! dove,
dove mi ascondo?...
Siface   Ah! di vergogna, e a un tratto
di morte l’orme (oh cielo) impresse io veggio
sul tuo smarrito volto? Assai mi parla
il tuo silenzio atro profondo: io leggo
dentro al tuo cor la orribile battaglia
di affetti mille. Ma, da me rampogna
niuna udrai tu: benché oltraggiato, e in ceppi,
e da tutti deserto, ancor pur sento
di te piú assai, che non di me, pietade.
Conosci or, donna, s’io t’amai. — Mi è noto,
che il comando del padre, e l’odio acerbo
che per Roma hai nel petto, eran tue scorte
al mio talamo sole; amor, no mai,
tu per me non avevi, lo stesso adduco
le tue discolpe, il vedi. Io so, che d’altra

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non bassa fiamma ardevi tu, giá pria

d’essermi sposa. Amor per prova intendo:
sua irresistibil forza, il furor suo,
tutto conosco: e, mal mio grado, io quindi
amai te sempre. A riamarmi astretta
tu dalle umane e sacre leggi, amarmi
non ti fu pur possibil mai. — Gelosa
rabbia mi squarcia a brani a brani il core:
vorrei vendetta; e, abbenché vinto e inerme,
dell’abborrito mio rival pur farla
quí ancor potrei... Ma, tu trionfi, o donna:
piú che geloso ancora, amante io vero,
col mio morir salva lasciarti or voglio. —
Perdonarti, fremendo; a orribil vita
esser rimasto, odiandola, e soltanto
per rivederti; ardentemente a un tempo
lieta con altri desiarti, e spenta;
or, come sola de’ miei mali infausta
fonte, esecrarti; or, come il ben ch’io avessi
unico al mondo, piangendo adorarti...
Ecco, fra quali agitatrici Erinni,
per te strascino gli ultimi momenti
del viver lungo e obbrobríoso mio.
Sofon. ... Ardirò pur, ma con tremante voce,
l’alma mia disvelarti. — A dir, non molto
mi avanza: in mio favor, troppo dicesti
tu, generoso: a morir sol mi avanza,
degnamente, qual moglie di Siface,
qual d’Asdrubale figlia. — Al suon, che sparse
del tuo morir la fama, è ver, ch’io ardiva
la mia destra promettere; ma data
non l’ho: tu vivi, e di Siface io sono.
Le tue vendette, e in un le mie, null’uomo
contra Roma eseguir meglio potea,
che Massinissa. Di tal speme io cieca,
e presa in un (nol niegherò) del suo

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chiaro valor, toglierlo a Roma, e farlo

di Cartagine scudo ebb’io disegno.
Ma, Siface respira? al suo destino,
qual ch’ei lo elegga, inseparabil io
compagna riedo, e non del tutto indegna.
Siface L’alto proposto tuo, grande è sollievo
a re infelice, e a non amato sposo;
ma ad un amante oltre ogni dire ardente,
qual io ti sono, ei fia supplizio estremo.
Giá da gran tempo entro al mio core ho fermo
il mio destin, cui mai divider meco,
no, mai non dei. Preghi e comandi ascolta,
donna, or dunque da me... Ma Scipio a noi
veggio venirne: a lui soltanto al mondo
bramo indrizzar gli ultimi accenti miei.


SCENA TERZA

Scipione, Sofonisba, Siface.

Siface Odimi, o Scipio. — Innanzi a te, sparisce

il simulare; innanzi a te, di niuna
mia debolezza il vergognarmi è dato:
tu, benché niuna in tuo gran cor ne alberghi,
grande qual sei, tutte in altrui le intendi,
e umanamente le compiangi. — È questa,
(mirala or ben) la cagion prima è questa
d’ogni mio danno; e in lei pur sola io posi
ogni mio affetto. Non mi hai visto ancora
tremar per me; per altri or scendo ai preghi;
a forza io ’l fo...
Sofon.   Non per la figlia al certo
di Asdrúbal preghi. Al par di te, secura
fors’io non sto? — Che puoi Scipion, tu farmi?
Nata in Cartagin io, nemica a Roma,

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e prigioniera entro il romano campo,

io pur secura sto...
Scip.   Noi tutti, o donna,
pone in duri frangenti or la fatale
bizzarra possa della sorte. Io lieto
certo non son dei danni vostri: e indarno
meco fai pompa tu dell’odio innato
tuo contra Roma. Ancor che Annibal crudo
da tutta Italia ogni pietá sbandisca,
non io perciò contro ai nemici atroce
odio racchiudo. Ove con lor mi è forza
a battaglia venirne, io, vincitori,
gl’invidio e ammiro ognor; vinti, gli ajuto,
e li compiango.
Siface   Ed a te solo io quindi,
ciò che a null’uom non avrei detto io mai,
dir mi affido...
Sofon.   Che dir? Tu, per te nulla
certo non chiedi al vincitore; io niego
nulla da lui ricever mai; né pure
la sua pietá: ch’altro havvi a dire? Innanzi
al gran Scipion, chi vile osa mostrarsi?
Ma, s’anco vile io fossi, il sol vedermi
davanti agli occhi il distruttor de’ miei,
l’apportator d’ultimi danni all’alta
patria mia, ciò sol farmi arder potrebbe
or di magnanim’ira. Al par nemica
e di Scipione, ancor che umano ei sia,
mi professo, e di Roma: a farmen degna,
deggio in Scipion piú maraviglia or dunque,
che non pietá, destare.
Scip.   Ogni alma eccelsa,
ch’abbia avversa la sorte, a me fa quasi
abborrir la mia prospera.
Sofon.   Funesta
gioja, ma gioja pure, in sen mi brilla,

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or che mi è dato al fine aprir miei sensi

al primier dei Romani. Intender tutti
i misti affetti, a cui mio core è in preda,
tu solo il puoi, che cittadino ed uomo
del par sei sommo. — A chi in Cartagin culla
ebbe, non men che a chi sul Tebro nacque,
la patria sta, sovra ogni cosa al mondo,
fitta nell’alma. In me, bench’io pur donna,
femminili pensier non ebber loco,
se non secondo. Amai chi meglio odiava
voi, superbi Romani. Un dí nemico
era a voi Massinissa; e al suono allora
di sue guerriere giovanili imprese
io m’accendea. Siface, allor di Roma
era, non so se ligio, o amico. — Or questi
son gli ultimi miei detti: a Scipio parlo,
e a te Siface: il simular non giova;
che il cor dell’uom voi conoscete entrambi. —
Dei primi nostri affetti assai profonde
in noi rimangon l’orme: udendo io quindi,
che l’ucciso Siface intera palma
dava ai Romani; e Massinissa a un tempo
occorrendomi agli occhi; in mio pensiero
disegno io fei (forse il dettava il core)
di distorlo da Roma, e di lui scudo
a Cartagine fare, e a me. Nemica
quí fra l’aquile vostre io dunque or venni:
e l’alta speme, che in mio cor s’è fitta
di ribellarvi Massinissa, in bando
fatto m’ha porre assai riguardi; io ’l sento;
e colpevol men taccio; e ad alta ammenda
son presta io giá. Forse, con possa ignota,
mi strascinava ver voi la mia sorte
a dar di me non basso un saggio: ed ecco,
campo or mi s’apre a dimostrare a Roma,
qual alma ha in sen donna in Cartagin nata.

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Siface L’inaspettato viver mio, ben veggo,

ad ogni mira tua solo e fatale
inciampo egli è: ma un’ombra vana, e breve,
fia il viver mio. Cessò mia vera vita,
dal punto in cui mia libertá cessava:
a che restassi, il sai. Sublimi sforzi,
da te gli apprendo. Ancor che orrenda piaga
sien tuoi detti al mio core, a me soltanto
dovevi aprirti; a vendicarmi degna
io ti lasciava; e lascio...
Sofon.   A vendicarci,
non dubitarne, altri rimane. Ogni uomo
il suo dover quí compia; il mio si cangia,
al rivivere tuo. — Svelato appieno
t’ho del mio core i piú nascosi affetti:
mi udia Scipion; cui vil nemica io fora,
se in altra guisa io favellato avessi.
Scip. Franco e sublime il tuo parlar, mi è prova,
che me nemico non volgare estimi.
Deh, pur potessi!...
Sofon.   Assai diss’io. — Siface,
or ritrarci dobbiamo...
Siface   In breve, io seguo
i passi tuoi...
Sofon.   No: dal tuo fianco omai
non mi scompagno.
Siface   E abbandonarmi pure
dovrai...
Sofon.   Nol voglio; e alla presenza io ’l giuro
del gran Scipione. — Or via; deh! meco vieni:
alle orribili tante atre tempeste
che ci squarciano il core, un breve sfogo
vuolsi conceder pure. Il pianto a forza
finor rattenni, io donna: al tuo cospetto
no, non si piange, o Scipio: ma natura
vuol suo tributo al fine. Egli è da forte

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il sopportar le avversitá; ma fora

vil stupidezza il non sentirne il carco.
Siface Misero me! deh! perché vissi io tanto?...


SCENA QUARTA

Scipione.

Sublime donna ella è costei: Romana

degna sarebbe. — Io ’l pianto a stento affreno.