Sonetti romaneschi/Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola/VI

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Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - VI

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Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - V Prefazione: Da Pasquino al Belli e alla sua Scuola - VII

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VI.


Benché il numero de’ sonetti del Belli sia stragrande (io scrivevo nel novembre del 18771), pure la vita e in parte anche la lingua d’un popolo come il romano, son sempre tanto varie, ricche e mutabili, che è ancora possibile ritrarle da nuovi aspetti, anche continuando la maniera del Belli. Ma, prima di tutto, questa maniera bisogna impararla, ed è cosa difficilissima; poi, bisogna scansare il pericolo che il modello ti faccia violenza e usurpi il luogo delle impressioni immediate e vergini; e infine, quando siano vinte queste due difficoltà, ne resta sempre una terza, vale a dire, che il modello faccia violenza al giudizio de’ lettori, i quali spesso lo vedono anche dove non è. In questi scogli naufragarono fin qui tutti quelli che, dopo il Belli, scrissero in romanesco. [p. cclii modifica]Uno solo accenna di voler arrivare in porto felicemente, e, per una singolare combinazione, è l’ingegnere Luigi Ferretti, fratello della defunta moglie dell’unico figlio, pur esso defunto, del Belli.

Padre del nostro Ferretti fu quel Giacomo, che scrisse una quantità straordinaria di prose e poesie d’ogni genere e più di ottanta melodrammi per il Rossini, il Donizetti, il Coppola, i fratelli Ricci, il Mayr e altri maestri, e che Massimo D’Azeglio2 mette tra gli "alti e belli ingegni„ della società "sveglia, piena di vita e di movimento,„ che fioriva a Roma nel 1814. "Alla generazione di quell’epoca„, dice argutamente il D’Azeglio, "Napoleone aveva fouetté le sang; e non rassomigliava punto a quel tipo lumaca che ha fiorito poi per tanti anni tra noi, all’ombra dei cappelloni dei gesuiti, e dei troni e tronini e tronucci dei principotti austro-borbonico-italiani; che Dio conceda pace all’anima loro. Ed io,„ continua il D’Azeglio, "in quest’ambiente gaio, bevevo avidamente, come dice non so che poeta, l’aura d’una vita nuova tutta immaginosa, e mi pareva finalmente d’esistere.„ In questa gaia società, il Ferretti padre si strinse col Belli in tale amicizia, che durò più di quarant’anni e non finì neppur con la vita. Nato nel luglio del 1784, il Ferretti aveva sett’anni più del Belli, e morì il 6 marzo del 1852, undici anni prima di lui. Poco dopo, il Belli lo rimpiangeva in un sonetto, che è de’ migliori che abbia scritto in italiano, e che lesse in Arcadia, nella adunanza necrologica tenutavi per onorare la memoria del Ferretti:

   È già compiuto il quadragesim’anno
Dacché l’uom ch’io rimpiango e benedico
Tutto di cuor mi si profferse amico,
Non pur con labbra siccome altri fanno.

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   Però fra quanti di sua morte al danno
Vi condolete io qui vengo e vi dico
Che, degli amici suoi forse il più antico,
Più in me risento del comune affanno.
   Nè sol d’amico il santo nome e bello
Corse fra noi, ma per bontà di Dio
Poi mi divenne e lo chiamai fratello,
   Quando con rito venturoso e pio
Entrò sposa nel mio povero ostello
La sua dolce figliuola al fìgliuol mio.


Malinconici versi, ben differenti da altri che in più lieti tempi il poeta aveva composto per la famiglia Ferretti! Quando nacque il nostro LGiggio, la gioconda musa romanesca del Belli accompagnò i suoi primi vagiti. Al rifresco fatto per il battesimo, si vede che intervenne, non invitata, una di quelle matrone ficcanaso e spropositate che abbondano in Roma; e il poeta che era lì a partecipare alle gioie dell’amico, la colse a volo, secondo il suo solito, e ne incorniciò il tipo in uno de’ suoi sonetti (vol. IV, pag. 410). E siccome la puerpera, avendo dovuto mandare il bambino a balia a Frascati, stava, come tutte le mamme, in gran pena; ecco il Belli a rassicurarla e farla ridere con un altro sonetto (IV, 398).3

Nato sotto questi auspici e cresciuto poi nella dimestichezza de’ due poeti, parrebbe che il nostro Ferretti si fosse dovuto mettere a far versi fin dall’infanzia. Eppure non fu cosi. Egli arrivò alla quarantina, quasi affatto immacolato di peccati poetici. Io però avevo notato in lui un gusto veramente squisito, per il modo inarrivabile con cui più volte l’udii recitare i sonetti del Belli, che richiedono mille modulazioni di voce e atteggiamenti di fisonomia e mimica variabilissima, e tutto dal vero. [p. ccliv modifica]Questo modo il Ferretti lo imparò forse dal Belli stesso, il quale era sempre nobile e contegnoso, ma nel recitare i propri sonetti si trasmutava in tante forme diverse, che il barone Achille Sansi, dotto e arguto ingegno spoletino, lo andava assomigliando al cappello d’un pagliaccio.

Dal recitar bene questo genere di componimenti allo scriverli ugualmente bene, non c’è che un passo: e se la ragione non ne fosse per se stessa evidente, lo proverebbe il fatto che nessuno li ha mai recitati con tanta maestria come il Belli medesimo, che perciò era desideratissimo perfino da monsignori e cardinali! Il Ferretti fece questo passo per caso, quasi senza avvedersene: ottimo segno, che indica una vocazione vera e matura. Riferisco, parola per parola, un brano d’una lettera che egli mi scrisse il 4 dicembre del 76: "Accadono giornalmente nel mondo alcune cose che, pur troppo, non si spiegano. Io non avevo, posso quasi dirlo, scritto mai due soli versi nel corso della mia vita. Ma sui primi di luglio, per una faccenda tutta scolastica,, (egli era soprintendente delle scuole municipali di Roma), "e che pareva non potesse dare appiglio a nulla, e nella quale fu causa diretta l’amico comune Santini, mi venne fantasia di rispondere a questo con un sonetto in vernacolo... Be da quer giorno in poi, sor Giggio mio, per dirtela propio talecquale, ho incominciato a scriver sonetti in vernacolo, e scrivendo senza interruzione in tutti i momenti che raccapezzo fra le varie occupazioni scolastiche, ho già fatto, in cinque mesi, un trecento sonetti. Ne vo leggendo di quando in quando al Santini e a qualche altro amico buon intendente; e tutti m’incoraggiano a seguitare. E io séguito. Già seguiterei, quand’anche non mi s’incoraggiasse a farlo; tanto mi ci sento spinto! Mi parrebbe davvero d’aver perduto la mia giornata, se non avessi trovato il modo di buttar giù un paio di sonetti. I primi furon tutti diretti al Santini; ma tentai ben [p. cclv modifica]presto di camminare sopr’altra via, e procurai di trattare argomentini non trattati dal Belli. Un mese fa mi venne in capo un’idea che, se non foss’altro, avrà, come spero, il merito della originalità, e che per ora taccio, poichè dei cento sonetti che svilupperanno questo tema, ne mancano ancora una trentina. Ma ci sto sopra continuamente, e fra dieci giorni, spero, il lavoro sarà compiuto....,,

Infatti, dieci giorni dopo, i cento sonetti erano già bell’e pronti per la stampa, e venivano poi pubblicati in Roma dalla Tipografia Barbèra, sotto il titolo: La Duttrinella.


Che cos’è questa Duttrinella? Un poemetto satirico in forma dialogica, sopra il piccolo catechismo diocesano di Roma, che è un compendiuccio di quello del Bellarmino, e che i Romaneschi chiamano la Duttrina, ma più spesso la Duttrinella, e qualche volta anche er Bellarmino.

Gl’interlocutori del poemetto, ossia Quelli che parleno, sono: Don Ghetano, curato; Caterina, serva der medèmo; Peppe e Pippo, regazzi grannicelli.

Pèppe, che ha quindici o sedici anni, ed è sveglio la sua parte, ma di fondo bonissimo, va in casa del curato a sentire la spiegazione della dottrina cristiana. Pippo si accompagna con lui qualche volta, ma per mera curiosità, e presto si stufa e smette. L’altro invece ci piglia gusto, perchè il libretto della dottrina gli suscita in mente dubbi sopra dubbi, ed egli, per averne la soluzione, tormenta il povero don Ghetano, che . il più delle volte non sa, o non può, o non vuole dargliela. La serva entra in iscena di rado, ma sempre inviperita contro la dottrina cristiana, che fa perder tempo a lei e al curato, e lo tira in casa tanti regazzacci.

Per rendere la finzione affatto verisimile, l’autore ha seguito scrupolosamente l’ordine del catechismo, [p. cclvi modifica]studiandosi di ricavar pensieri e parole sempre da questo; e per fare a meno di note dichiarative, ha stampato addirittura in testa a ogni sonetto il passo del catechismo cui si riferisce. In un sonetto poi, che serve di proemio, dà così ragione, argutamente, dell’opera sua:


A CHI VÒ LÈGGE.

    V’aricordate che da regazzino
Tenévio4 sempre i’ mano sto libbretto,
Che Dio sa quante vòrte avete letto
Fino che séte stato piccinino?

    Be’, arrïècchelo qua sto libbrettino,
Ma... stampato ’gni paggin’un pezzetto,
E sotto poi pe’ soprappiù un sonetto
Che serve a spiega mejo er Bellarmino.

    Ah! quanto costa? Aspettate u’ momento.
Vo’ sapete contà, pe’ cristallina!?
Be’ sti sonetti quanti so’? So’ cento.

    Du’ centèmisi l’uno... e so’ pe’ gnente.
Vo’ direte: — Va be’, ma la duttrina? —
La duttrina nun val’un accidente.

E che la dottrina non valga più che tanto, lo provano le domande di Peppetto e le risposte del curato.

Peppetto, per esempio, vorrebbe sapere che cosa sia il mistero, e il curato risponde:

    Lassa sta ste faccènne, fìjo caro:
E ’na risposta un po’ pericolosa,
E pe’ capilla se’ troppo somaro.

    Ma simmai vòi sape come finisce,
Te posso di ch’er mistero è ’na cosa
Che più se spiega... e meno se capisce.

(Sonetto III.)


Peppetto non intende la Comunione de’ Santi e il curato gli dice:

    Che vói fa, fìjo mio? te compatisco,
Perché se tratta de ’na certa storia.
Ch’io, be’ che prete, poco ce capisco.

[p. cclvii modifica]Prefazione

Ma tu fa' puro come l'artra gente: Daje 'na letta e imparel' a memoria: Si nun capischi, nun importa gnente. (XXV.) Ma il ragazzo si ostina a voler capir quel che legge; e don Ghetano, sebbene qualche volta s'impazientisca e minacci di finirla a sganassoni, perchè D. G. Peppe. D. G. Er tempo è curto e nun è robba questa Da poté fà tutte ste rifressioni, (X.) ordinariamente però prende la cosa per il suo verso: si ristringe, cioè, a ripetere sott'altra forma lo stesso con- siglio, o, per tagliar corto, smette la lezione. Il ragazzo ha letto che Gesù Cristo confermò nella legge nova i comandamenti di Dio, e osserva: D. G. CCLVII Me parerebbe già 'na buggiarata, Che Gesù Cristo ch'er' un bon cristiano Nu'je piacessi quer ch'annava a Tata. ¹ Voi che ne dite? Eh, via! No, ma ste cose è mejo annàcce piano. Per oggi abbasta, che so' stracco morto. (LI.) Fursi ch' ho torto? La dottrinella parla sul serio degli "stregoni e fat- tucchieri, che tengono il demonio per loro Dio; ,, e Pep- petto naturalmente domanda: ma, padre mio, ³ Questi, chi so'? ch'io nu' l'ho visti mai. Tu nu' l'hai visti? E figurete io! ® Forso. A Roma, e forse ¹ Quel che piaceva al Babbo. anche altrove, a tutti i curati si dà il titolo di padre; e credo che ciò provenga dal fatto che una gran parte di essi son frati. - H. BELLI, Sonetti. [p. cclviii modifica]Prefazione Pèppe. Ma dunque, dico io, padre curato, Dite, che so'? CCLVIII D. G. E passa oltre. Arrivato poi alla spiegazione della prima delle virtù teologali, la fede, e del come essa appartenga a Dio, don Ghetano rimette fuori il principe de' suoi argomenti, ma in una forma così comica, che fa del sonetto un vero capolavoro: D. G. Peppe. D. G. Peppe. D. G. Pèppe. Ma, corpo d'un giudio! Ce vò poco a capi che m'hai seccato. (LIV e LV.) D. G. come va Ch'è robba sua de Dio puro la fede? Perché la fede fa che s' ha da crede Nun solo quer che se pò vede, ma Puro l'artro, ch'a di la verità, Nun ciarïèsce mai de poté vede. E tu ce l'hai sta fede? Eh! tanto quanto... Ma si è poca, nun basta pe' sarvàsse. Voi dite be', ma nun so' mic' un santo, E quanno ch'arifrètto... E che? nun sai Si quer che s'ha da fà pe' nu' sbajàsse? Quer che fo io: nun arifrètte mai. (LXXXI.) Quelle crudeli parole della dottrina, in questo caso tutt'altro che cristiana: "i soldati nella guerra giusta [?] non peccano mentre feriscono o ammazzano, " Peppetto le espone così: E nun pèccheno poi manco p'er c.... Li sordati a ammazzà l'artri sordati, Ché tanto quella è carne da strapazzo. (LVIII.) E, un'altra volta, dopo aver raccontata la passione di Gesù Gristo, Sotto quer porco de Ponzio Pilato, [p. cclix modifica] Peppetto, impietosito, esce a dire:

     Ma invece Dio de mannà er fijo a morte
Pe’ curr’appresso ar menno che scappava,
Perchè, dich’io, non l’ha tenuto forte?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 
     Pe’ me, s’a un fijo je volessi bene,
Io nun potrebbe condannàll’a morte,
E mannàllo a suffrì tutte ste pene,
  (xv e xvi.)

E neppure il curato sa dargli torto.

A queste e altre simili considerazioni morali, che si affacciano alla mente di chiunque legga col lume della ragione il catechismo del Bellarmino, e che l’autore ha saputo presentarci, come richiedeva il suo assunto, in modo affatto popolare, altre ancora se ne aggiungono tutte ridicole, che servono benissimo a variare e rallegrar la materia, per sè stessa alquanto monotona. A tal fine, il nostro poeta ha cavato eccellente partito dalle qualità proprie de’ Romaneschi, e particolarmente da quella tanto spiccata in essi, di ravvicinar bruscamente le cose più disparate, senza punto badare ad alcuna legge di luogo, spazio, tempo o convenienza. Cosi, per esempio, Peppetto, leggendo nella dottrina che Gesù "in cielo era nato di padre senza madre,„ ci resta intontonito, e osserva:

  ’Na donna si... nun è ’na cosa rara

Che facci un fijo senz’avé marito,
Com’è successo lì a la sora Sara
Che jeri a l’improviso ha partorito
  Co’ certi strilli...
D. G.   Bada che te tocca!5
Pèppe. Ma un omo, dico io!
B. G.   Dico, Peppetto,
Famm’or piacere, attùroto la bocca...
  (xiv.)

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E sentendo che la cresima “ci fa diventare soldati veri del Salvatore,„ egli domanda, non senza malizia:

     Ma fàmos’a capì:6 sordati veri,
Sordati propio co’ tanto de baffi,
’Na spece insomma de sti bersajeri
     Quanno entròrno er settanta a Porta Pia?...

Onde il povero prete, toccato dove gli duole, risponde brusco:

Si nun t’azzitti, sai, te do du’ schiaffi.
 (lxxii.)

Sugli effetti del sacramento del matrimonio, il quale, secondo il Bellarmino, fa “procreare i figlioli„ e vivere gli sposi con “pace e carità,„ il ragazzo osserva:

  Che facci fa li fiji, oh! questo si;

Questo se vede, ma me pare a me
Che su sta pace ce sarebbe a dì;
A senti mamma e tata . . .
B.G.   Abbad’ate!
Lassa sto tasto, e torna venardì...
(lxxix.)

La fuga di Gesù fanciullo da casa sua per andare a disputar co’ dottori nel Tempio, richiama alla mente di Peppetto una fuga propria per andar a fare il birichino sotto il portico del Panteon, e gli fa avvertire la diversità di trattamento che ebbe dal babbo:

     Furtuna ch’era Cristo!
Chè si era un artro, v’assicuro io
Ch’er padre suo j’avrebbe dato un pisto,7
     Come tata me fece a la Ritonna...
 (xcviii.)

Né queste uscite comiche le ha solamente il ragazzo: [p. cclxi modifica] anche il curato, da buon Romanesco, ci ha le sue. Quando Peppetto gli domanda che cosa significa la parola adulare, egli, conoscendo i suoi polli, dice:

. . . . . . . . . . Eh, questo qui è ’n affare,
     Che nu’ lo so manch’io si sia peccato;
Anzi, si t’ho da dì er pensiero mio.
Qui er Belarmino dev’ave sbajato.
 (lxii.)

E dopo aver detto col catechismo che l’estrema unzione aiuta anche a riacquistare la sanità del corpo, se Dio crede che questa sia utile alla salute dell’anima; siccome Peppetto vuol sapere che cosa accade se Dio crede diversamente, egli, seccato, risponde:

. . . . . . . . . . E allora poi st’untata
Je dà ’na spinta pe’ mori più presto.
 (lxxvii.)

Ad accrescere varietà e ridicolo vengono gli spropositi; giacché, per esempio, il nostro Peppetto muta l’eucaristia in carestia; e leggendo la parola fornicazione, vuol saper dal curato come c’entri er forno. I misteri gaudiosi del rosario sono per lui misteri da ride; sente chiamar novissimi la morte, il giudizio, l’inferno e il paradiso, e afferma con gran sicurezza che qui il Bellarmino ha sbagliato, perchè queste cose so’ più vecchie der brodetto; legge nel catechismo che Dio "ci vuole.... mondi, non solo nell’esteriore, ma anche nell’interiore,„ e lui intende:

     Che nun abbasta do lavasse er viso,
Ma s’ha d’avé pulite le budella,
P’annà, che Dio no scampi, in paradiso.
 (lxiii.)

Come si vede anche da questi pochi saggi, al Ferretti non manca una ricca vena satirica; e se teniamo [p. cclxii modifica] conto delle gravi difficoltà che avrà dovuto superare per comporre cento sonetti sopra un solo argomento, possiamo giustamente salutarlo poeta. Ma io non devo nascondere che nella Duttrinella mi par che ci sia un grave difetto: il personaggio sbiadito e inconcludente di Pippo, il quale, o non doveva entrare in iscena, o, entratovi, doveva farci qualche cosa, e non starci per mero riempitivo. Bello invece per tutti i versi è il carattere di don Ghetano, che si rivela intero in quelle parole: Si sapessi che noja a fà er curato!..., e non si smentisce mai. Bello del pari quello di Caterina, la quale comparisce poche volte, ma è sempre lei fino all’ultimo, la serva padrona e miscredente, appunto perchè serva di prete. E a lei, con felice pensiero, il Ferretti ha riserbato l’onore di chiudere il poemetto. — La spiegazione della dottrina è terminata, e il ragazzo dice:

E mo c’è ’r Fine.

D. G.   Aringrazziam’Iddio,
Che se la séme levata datorno.
Caler, Don Ghetano, è sonai» mezzoggiorno.
D. G. Nu’ l’ho sentito.
Cater.   L’ho sentito io;
Sbrigàteve.
D. G.   Mo vengo. — Fijo mio,
Làssem’annà.
Pèppe.   Ma diteme: aritorno?
D. G. Si, pòi torna sicuro ... un artro giorno.
Cater. Be’, je la famo?8
D. G.   Nu’ la senti? ... Addio.
Saluta Pippo, sai? e ’n’artra vòrta
Poi, t’arigalerò ’na coroncina.
Pèppe. V’aringrazzio.
D. G.   E de che? Chiudi la porta.
Cater. Oh! mancomale!
D. G.   E che c’è, Caterina?

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Cater. C’è ch’er riso se scòce.9

D. G.   E che m’importa?
Cater. M’importa a me. — Accidenti a la duttrina!

Lo scopo del poemetto a molti è parso affatto inutile, perchè, dicono, combatte un morto; ad altri invece dannoso, perchè scalza la fede. Nella contradizione di questi opposti giudizi, l’autore trova giustificata l’opera sua, che a me pare non solo bella, ma anche buona e utile. Se molti se ne sono scandalizzati, è segno che il preteso morto è più vivo di prima; e a queste anime timide che si scandalizzano della verità, che è Dio stesso, e le antepongono la pia impostura, che non può esser che il male, il Ferretti risponderà con l’epigramma di Luciano Montaspro, dove c’è insieme un rimpianto e un rimprovero, entrambi giustissimi:

     La fede è morta! (dice don Clemente);
Si corre all’ateismo di galoppo! —
O preti, è vero! non crediam più niente,
Perchè voleste farci creder troppo.

Ma il pregio principale del nuovo poeta sta, secondo me, nella forma. Egli ha studiato a fondo e conosce perfettamente il suo dialetto, il quale, come ogni altro, per diventar lingua scritta non ha bisogno che d’esser messo in carta; quando per lingua scritta non s’intenda una cosa che, col passare dalle labbra alla penna, abbia da trasformarsi. Essendo dunque una lingua, il dialetto ha parole e locuzioni e leggi grammaticali proprie, le quali, finché durano nell’uso, non si possono violare o alterare impunemente. Dopo il Belli, il Ferretti è il solo scrittore romanesco che abbia inteso bene questa verità, e siasi proposto di conformarvisi a puntino. Tutti gli altri (eccettuato il Chiappini, il quale però, per soverchia modestia, si ostina a rimanere inedito) han creduto [p. cclxiv modifica] di poter trattare il povero dialetto, come i più han trattato e trattano la lingua fiorentina, cioè come una cosa da potersi rimpastare a capriccio, senza avvertire che neppure l’autorità di Dante Alighieri è bastata per mutare il Cosa fatta capo ha in Capo ha cosa fatta.10

“Sarebbe,„ ha detto un valentuomo, il professore Ferdinando Santini, "sarebbe il cómpito più facile del mondo (laddove è difficilissimo) lo scrivere in dialetto, quando ne fosse lecita ogni trasposizione di parole, ogni sorta di aggiunti, d’epiteti, d’accessòri ed ogni piegamento di costrutto; e il vernacolo riponesse tutto il suo carattere nello storpiare delle parole, e nelle uscite da trivio. Il popolo va sempre, e in tutto, diritto a fil di logica, e fa talora qualche trasposizione, ma là solo dove la forza del suo sentire lo richiegga, non dove la rima o il rito e la convenzione rettorica lo voglia e lo conceda. Al primo apparire di questi difetti, il popolo col suo vernacolo sparisce, e vien fuori la meschina rachitica figura dell’umanista, in tanto men sopportabile, in quanto che non parla in quel caso il linguaggio di nessuno.„

Ecco qui, per esempio, il dottor Augusto Marini, che ha pubblicato Cento Sonetti in vernacolo romanesco,11 e che avrebbe eccellenti qualità, specialmente nella satira politica; ma per sua e nostra disgrazia, egli scrive una lingua che, per lo più, non è né il romanesco né l’italiano, ma un’informe mescolanza dell’uno e dell’altro, così nelle parole e nelle frasi, come nella sintassi.

È vero che il Marini ci avverte che “in questi sonetti non ha voluto seguire in tutto e per tutto la [p. cclxv modifica] dicitura antiquata del dialetto romanesco, affinchè anche i non romani potessero più facilmente comprenderli;„ ma la toppa è peggio del rotto. Infatti, se per dicitura egli intende quel che realmente significa, io dico che ha fatto malissimo a seguire, anche solo in parte, la dicitura antiquata, servendosi, per esempio, a tutto pasto dell’antipaticissimo ne eufonico (mene, tene, tune, giune, quane, none, fané, riuscìne, ecc.), che andava già cadendo in disuso fin da’ primi tempi del Belli, il quale non l’adopra che assai di rado. (Cfr. in questo volume la nota 5 a pag. 83-84). Se poi, com’è più probabile, il Marini chiama dicitura antiquata quelle forme particolari che vivono solamente tra ’l popolo, io dico che ha fatto malissimo a scartarle, perchè esse appunto danno fisonomia e carattere speciale al dialetto, e non è lecito svisare un idioma per comodo di quelli che non l’intendono. Se non l’intendono, lo studino: non c’è altro rimedio. Del resto io non vedo che difficoltà avrebbero incontrato i non romani a intendere: addrittura, lezzione, cariera, roppe, fussi, tutt’in un tratto, muntura, forme proprie e vive del romanesco, invece di quelle corrispondenti che il Marini adopra ne’ primi quattro sonetti: addirittura, lezione, carriera, rompe, fossi, tutt’in un tempo, montura. Ciò è tanto vero, che il Marini stesso, due altre volte che gli fa comodo per la misura del verso, scrive addrittura (pag. 65 e 68); ma un’altra volta, per lo stesso motivo, torna a scrivere addirittura (62). Né questa è la sola contradizione in cui cade.

Per comodo de’ non romani egli avrebbe potuto abbandonare, come ha fatto il Ferretti, alcune della forme ortografiche usate dal Belli, per esempio l’sc per c, la z per s, e il frequente raddoppiamento delle consonanti iniziali; quantunque l’ortografia belliana, ch’io seguii scrupolosamente nell’edizione de’ Duecento Sonetti, e che molti non approvano, sia stata giudicata da uno de’ [p. cclxvi modifica] mi filologi d’Europa, la più acconcia a rappresentare il dialetto romanesco, “finché non sorga su fondamenta scientifiche un sistema di scrittura uniforme per tutti i dialetti italiani.„12

Avrebbe anche potuto, come in realtà ha fatto, abbandonare quasi del tutto codesta ortografia; ma non doveva mai e poi mai alterare tanto spesso la sostanza medesima del dialetto.

Egli usa frequentemente voci e maniere che, se non sono inventate da lui senza nessuna ragione d’analogia, sono però certo di quelle che solo qualche volta, per caso o capriccio, escono di bocca a qualcheduno, e che perciò hanno tanto diritto di appartenere al vero dialetto, quanto i forestieri che passano per una città di appartenere alla vera cittadinanza. Per esempio: antipatico (41) in vece di simpatico (i Romaneschi dicono sì, molto spesso, indeggno per deggno, inzalubbre per salubbre, indifficile per difficile, e simili; ma l’equivoco cade sempre sull’affisso in negativo), per cristallino (53) in vece di pe’ cristallina, bizzocchi (57) per bizzochi, arifacémo (79) in luogo di arifàmo, intradettanto (83) per tratanto o intanto, e parecchie altre. [p. cclxvii modifica]

Spesso poi si lascia sfuggire de’ versi così duri e stentati, che a tirarli su ci vorrebbero due paia di bovi:

... Perchè se [si] Cristo, che poi era er Padrone... (3)
... Fece io allora a un che stava tra la gente... (76)

(In quest’ultimo verso c’è anche da notare che il Romano non direbbe mai: a un che stava, ma sempre: a uno che stava.)

Più spesso ancora, anzi nella maggior parte di questi sonetti, s’incontrano costrutti stiracchiati e artificiosi, affatto contrari alle leggi sintattiche del romanesco, come sono i seguenti, che cavo dai soli primi quattro:

........................... e ’no scaccione
De dàje apertamente ha un po’ paura...
... Mai la lezione m’imparavo a mente...
... Incomincio der ladro la carriera...
... Indo ve t’arivòrti di te senti ...
... Ma p’imità de Cristo la passione...
... Traversàmio de Febo er vicoletto...13
...... Sapènno allora, io antico der mestiere,
Che de sarvà l’onore a la montura
D’un sordato fedele era er dovere...

Insomma, il Marini non ha una conoscenza sicura del suo vernacolo. Costretto dal Governo papale a vivere per molti anni lontano da Roma, egli non ha potuto e non si è curato acquistarla, perchè non l’ha reputata necessaria. Ha badato solamente ad aguzzare gli strali [p. cclxviii modifica] satirici contro il nemico suo e della sua patria, non riflettendo che, o si scriva in lingua o in vernacolo, non c’è pensiero perfetto senza forma perfetta. Errore funesto, che io ho voluto combattere, perchè l’esempio del Marini potrebbe essere contagioso; e staremmo proprio freschi se l’artifizio rettorico, che ci ha guastato tanta parte della lingua e della letteratura comune, ci guastasse ora anche i dialetti e le loro letterature, che con l’esempio continuo della verità e naturalezza possono, e in parte già l’hanno fatto, ricondurre anche la lingua e la letteratura nazionale ai loro veri principi.

Devo però dire, e lo dico con tutto il piacere, che alcuni de’ sonetti del Marini, e specialmente di quelli che ha scritto dopo il suo ritorno a Roma, vanno quasi affatto immuni da difetti di forma, e per vena satirica sono in tutto degni di stare alla pari con quelli del Belli. Si veda, per esempio: La vita del Prigioniero, Il miracolo della Madonna in Trastevere, Il Sarto e il Deputato, L’Oste fedele all’indulto del Cardinal Vicario per l’osservanza della quaresima (bruttissimo titolo, ma stupendo sonetto!),14 e La Scomunica. Se la forma de’ sonetti non politici, che il Marini ci promette, corrisponderà a quella di questi cinque (che a me paiono i suoi migliori), come [p. cclxix modifica] è certo che vi corrisponderà la vis comica, egli avrà senza dubbio un bel posto nella storia delle nostre letterature dialettali.15

Tornando al Ferretti, io posso affermare con piena sicurezza, che ne’ molti sonetti di vario argomento composti prima e dopo della Duttrinella, egli continua sì, e fedelmente, la maniera del Belli, della quale conosce tutti i segreti; ma tratta soggetti affatto nuovi, o che il Belli ha trattato sott’altro aspetto. In altri termini, egli si serve dell’arte stessa del maestro, del quale par [p. cclxx modifica] che possieda anche la fecondità prodigiosa; ma non pesca le sue impressioni nelle opere di lui, bensì le riceve dalla vita reale in cui vive e che in tante e tante cose non è più quella de’ tempi del Belli. Vedete, per esempio, che fior di partito ha saputo cavare dalla nova usanza di andar vendendo i giornali per le strade:

ER SERVITORE A SPASSO.

     A me? me pare d’ave vinto un terno
De nu’ sta più a servì quel’assassino
De l’avvocato. ’Na vita d’inferno
Da méttecese a letto ’gnitantino.

[p. cclxxi modifica]

     Quer che m’ha fatto fatica st’inverno!
Manco m’avessi16 preso pe’ facchino.
E po’ ’n’aria, perdio, ch’er Padreterno
Appett’a lui divent’u’ regazzino.
     Adesso?! Già ciò17 quarche cosa in vista,
Ma casomai che fussi un po’ spallata,
C’è la cariera mo der giornalista.
     Le cianche18 ce l’ho svérte, un bèr vocione,
S’ariccapézza ’na bona giornata,
E poi, si nun fuss’artro, la struzzione!

Qui non c’è nulla di rubacchiato al Belli, e c’è tutta l’arte sua. C è l’unità rigorosa del componimento, il quale vi sta davanti come un piccolo tutto, armonico e compiuto, col suo principio, il suo svolgimento, il suo fine. C’è la metà del dialogo felicemente sottintesa, poiché alle prime parole voi capite subito che un amico del servitore, incontrandolo, gli ha domandato se gli sia rincresciuto che il padrone l’abbia cacciato via; e quando il servitore dice: Adesso?!, voi capite del pari, che l’altro deve aver detto: — E adesso, che farai? — Il carattere del protagonista, fuggifatica e presuntuoso, è lampante. Lingua e costrutti perfettamente romaneschi; e romaneschi e bellissimi i particolari che dan vita al quadretto, come il ravvicinamento del Padreterno col regazzino, la gravità comicamente misteriosa di quel Già ciò quarche cosa in vista; il doppio senso della parola cariera; lo sproposito, malizioso per conto dell’autore, ma popolarissimo, del giornalista, che ricorda il piccolo Oreste della Quaderna di Nanni del mio Carrera; e finalmente il tono serio della ridicola chiusa, fatta anche più ridicola dallo storpiamento struzzione, il quale par che derivi non [p. cclxxii modifica] da istruire, ma da struggere, e così ferisce quei giornali che non rispettano nulla.

Tuttavia ne’ versi 3°, 4°, 5° e 6° di questo sonetto, io ci sento qualcosa di superfluo; e credo che il Belli avrebbe trovato altri nuovi particolari, per renderli più variati e concettosi. È vero che qui il difetto si vede appena, coperto com’è abilmente dai differenti modi onde fu toccata la medesima corda; ma io ho voluto notarlo, perchè mi pare visibilissimo in altri sonetti del nostro autore.

Comunque sia, eccone altri otto sopra argomenti vecchi e trattati più o meno anche dal Belli, ma che il Ferretti ha saputo ringiovanire, guardandoli da lati nuovi e pensandoli col proprio cervello senz’ombra d’imitazione:

LA POVERELLA.19

     Oh! be’ levata, signorina mia...
So’ io, nun ve sovviè? So’ propio quella
Che vostra madre, benedetta sia,
Quanno ch’annav’in chiesa, poverella,
     Me dava sempre quarche cosa... Eh via!
M’ajuti un po’, signorina mia bella;
Ch’io pregherò la Vergine Maria
Che nu’ la facci arimané zitella.
     Nun cià gnente? Ma propio nun cià gnente?...
(Va be’, sempre le solite canzone,
Ma io mica ce credo un accidente.
     E sì dura cusì ’na sittimana,
Pe’ me la lasso annà sta professione:
Guadambio più si faccio la roffiana.)

PE' SARVÀ CAPRA E CAVOLI.

     Come? dove se va? Se va in parrocchia.
Da chi se va? Se va da don Cremente,
Che co’ la cosa che poco ce sente
E un omo che co’ gnente s’infinocchia,

[p. cclxxiii modifica]

     Una se mette lì fra l'antra gente,
E quann’una je tocca s’inginocchia;
Lu’ òpre lo sportello, nnaj’ arròcchia
Quarche cojoneria che je vie in mente...
     Je dichi che te penti, lui ce crede,
Pe’ penitenza tutt’ar più è capace
De fatte recita l’atti do fede.
     Poi te ne vai. Cusi fo sempre io,
Pe’ potè fa quer che me pare e piace
E conservammo la grazzia de Dio.


LA REGAZZA MANCIPATA.

     Èccheme qua. Dove so’ annata? Oh bella!
So’ annata cor fratello de Lucia.
Indóve? M’ha portato a l’osteria,
M’ha pagato un quintino e ’na ciammella.
     Po’ ha vorsùto20 pijà ’na carrettella21
E sémo aunati fòr de Porta Pia;
Poi ner torna, verso l’avemmaria,
M’ha vorsùto fa vede Purcinella...
     Ecco le cose come stanno: e voi
Ve la pijate co’ quer poveretto?
Dite ch’or monne s’occupa de noi?
     E che ce trova a di, se pò sapé?
Io m’aricordo sempre de quer detto:
Male nun fà, pavura nun avé.


ER SAPÉ FÀ DE MAMMA.

     Va’22 chi se vede! .. . Che dice? Er permesso?
Me faccio maravija! E chi è ’r padrone?
Nun è lei . . . Favorischi, sor Barone;
È un pezzo...! ce pensàmio23 propio adesso.
     Ma gnente... preparavo quer boccone
Da magna... ma pe’ noi, credi,24 è lo stesso;
E poi già nun succedo tanto spesso
Che viènghino persone accusì bone...

[p. cclxxiv modifica]

     E poi... Mo chiamo Nina25... Indóve sei,
Nina? C’è er sor Barone, tira via,
Viè qua... Co’ l’antri no, ma qui co’ lei,
     Ch’è un omo, se pò sta co’ l’occhi chiusi...
Oh, brava fija!... Tièje compagnia
Finch’aritorno. Arivedélla... scusi!...


TUTTI LI GUSTI SO’ GUSTI.

     Tu l’hai da vede, Sarvatore mio,
LI a la toletta quanno lei s’aggiusta!
La mejo cosa, te lo dico io,
Sarebbe quella de pijà ’na frusta,
     Eppoi dà giù senza timor de Dio
E falla rossa come ’na ragusta26...
Ma quer che me fa spece, è quer giudio
Der tu’ padrone! — Embè, si a lui je gusta,
     Che ce vòi fa? — Ma si je s’avvicina,
Nun vede ch’ò dipinta cór pennello?
Ch’ha er grugno tutto pieno de farina? —
     Lo vede sì, ma t’hai da fà capace
Che qui a sto monno nun è mica bello
Quer ch’è bello, ma è bello quer che piace.


PE’ ACCOMMIDÀ LE PARTITE.

     Si quarche sera lui va a fà bisbòccia27
Fòra de casa, e a te nun te ce porta,
Famme er piacere, di’, cosa t’importa,
Aghita mia? Che te ne viè in saccoccia?
     Lui, se sa,28 nun è più come ’na vorta,
Stà solo a casa, qui co’ te, je scoccia;29
E la tua, fija, è ’n’ideaccia storta
Protènne30 d’addrizzaje la capoccia.31
     Crédeme, sai, pe’ vive in santa pace
Co’ tu marito, c’è ’na strada sola:
Lassàje fa quer che je pare e piace.

[p. cclxxv modifica]

     Quanno ste cose a me me so’ successe,
A lui nu’ j’ ho mai detta ’na parola...
Ma Dio lo sa si quante je n’ho messe!


ER TESTAMENTO DER PADRONE.

     Er mi’ padrone è bono, e te lo giuro.
Fu giusto jeri: lui me fa:32 “Giuvanni
(Dice), venite qua. j, Dico: “Commanni.„ “Co’
voi posso parla.„ — “Parlate puro,„33
     Je faccio io. Lui fa: “Già me figuro
Che sapete ch’ho più de settant’anni,
E che so’ tutto pieno de malanni
Da cap’a piedi.„ E io je fo: “Sicuro
     Che lo so.„ Allora lui: “Voi stat’attento
(Dice) a fa er dover vostro, ch’ho pensato
A voi quanno ch’ho fatto testamento...„
     Ecco... io nun so’ mica interessato,
Ma puro, Tòto,34 nun ved’er momento
De sape un po’ si quer che m’ha lassato.


SU DU' PIEDI

     Si, fu propio accusi, sora Teresa:
Io lui l’ho visto pe’ la prima vòrta
U’ mese fa che stava su la porta
Der forno, quann’entravo a fa la spesa.
     Er giorn’appresso, li pe’ la Ripresa,35
Me dimannò si io me n’ero accorta.
Sicuro, j’ arispose... e a falla corta
Jerammatina avémo dott’in chiosa.
     Eh! a discurre co’ lui, ve par un santo:
Dice che me vò bene com’u’ matto;
Ma io. . . nu’ lo conosco più che tanto.
     Ma mo ch’avria da fa, sora padrona?
Nun e’ ò rimedio; quer ch’è fatto è fatto,
E ch’er Signore me la manni bona!

[p. cclxxvi modifica]

Benissimo poi riesce ne’ soggetti patetici, di cui il Belli ci ha lasciato splendidi ma pochi saggi. — Siamo in Luna povera cameruccia. Una giovane sposa è in letto agii estremi. La madre viene a visitarla, con l’angoscia nel cuore, ma

Dissimulando l’appressar del fato36

alla moribonda. E ne nasce questo commovente dialogo:


PROPIO ALL’URTIMI!

     Bon giorno, Nina.37 — Oh, mamma, mancomale! —
Come te senti, fija, stammatina?
Dimme ... — Sempre accusì. — Povera Nina!
Sempre lo stesso? — Sempre talecquale... —
     Poi guarirai. — Macché, mamma, sto38 male
Nun passa più. Senti, vìemme vicina:
Pijem’un po’ ... — Che vói? — La coroncina ... —
Dove sta? — Ved’un po’, drent’ar zinale...
     L’hai trova? — Ècchela39 qui. — Dammela; senti:
Quanno... Mamma, viè qua. .. quanno so’ morta... —
Ma che discursi! — Eh, artri pochi momenti . . .
     Tu tiella, mamma, e t’aricorderai
De Nina tua... — Sta’ zitta... — Eh, me so’ accorta
Ch’ho da morì ... — Ma no. — Be’ ... lo vedrai!

Anche il titolo di questa impareggiabile miniatura mi pare felicissimo, come, del resto, sono quasi tutti gli altri; poiché il Ferretti, seguendo anche in ciò il suo maestro, vuole che il titolo abbia pur esso una forma artistica e armonizzi con tutto il componimento.

Ma se egli ha saputo appropriarsi l’arte del maestro perfino ne’ più minuti particolari, si tiene però ben lontano dal copiarlo servilmente. Egli, insomma, non è un imitatore, nel senso che comunemente si dà a questa parola; bensì un libero continuatore dell’arte del Belli, [p. cclxxvii modifica] come è anche il Fucini, il quale. ha saputo applicarla al dialetto pisano. Quindi l’opera del Ferretti non è un’inutile ripetizione; ma aggiunge nuove scene all’immenso e pur sempre incompiuto dramma, composto dal poeta romano.

Note

  1. Tutto questo capitolo, pubblicato nella Nuova Antologia del 15 aprile 1878, fu l'anno dopo premesso ai Centoventi Sonetti del Ferretti (Firenze, Barbèra). E il signor Amedeo Roux ne trapiantò poi, senza citarlo, l’orditura e tutte le idee fondamentali nel suo volume: La Littérature contemporaine en Italie; troisième période; Paris, 1883. Lo avverto, perchè qualcuno, non conoscendomi, potrebbe credere che fossi io che avessi copiato dal Roux.
  2. I Miei Ricordi, cap. IX.
  3. Nel quale (me ne accorgo ora) egli sbagliò la data: 2 febbraio 1836; poichè Luigi Ferretti nacque il 21 di detto mese. L’edizione Salviucci la cambiò in 24 febbraio; ma l’autografo dice proprio 2 febbraio, e forse doveva dire 2 marzo.
  4. Tenevate.
  5. Bada ohe ne tocchi! Bada che te le do!
  6. Ma facciamoci a capire, intendiamoci.
  7. Pisto (da pistà, pestare): bastonatura.
  8. Gliela facciamo? Cioè: “ci sbrighiamo, si o no?„
  9. Si scòce: passa di cottura; s’impancòtta, dicono nelle Marche o nell’Umbria; fa la colla, diventa una bozzima, fa bozzimone, in Toscana.
  10.      Gridò: Ricordera’ti anche del Mosca,
    Che dissi, lasso!, Capo ha cosa fatta
    Che fu il mal seme per la gente tosca.
    Inf. xxviii.

    Si vedano a questo proposito le giuste osservazioni che fa lo Zendrini, nel suo Discorso Della lingua italiana (Palermo, 1877).

  11. Roma, E. Ferino editore, 1877.
  12. Schuchardt, nello scritto citato. — Tra coloro che non approvano l’ortografìa del Belli, c’è anche il mio amico Vittorio Imbriani [ahimè, come il Ferretti, perduto così presto egli pure!] il quale se la piglia particolarmente con le doppie consonanti iniziali, e dice che "anche in italiano ci abbiamo queste reduplicazioni delle consonanti iniziali, anche altre lingue le hanno; ma non perchè sono nella pronunzia, s’hanno da indicare nella ortografia, la quale non si propone solo di notare la pronunzia.„ (Appunti Critici; Napoli 1878; pag. 126.) A quest’osservazione io potrei rispondere che non è punto vero ohe l’ortografìa italiana non si sforzi d’indicare il raddoppiamento delle consonanti iniziali; giacché, lasciando da parte gli esempi antichi, spessissimo scriviamo dappoco, sibbene, appiedi, ammodo, e tantissime altre parole di sìmil forma; e anzi, ricordo che una volta lo stesso Imbriani diede dell’asino, o giù di lì, a un povero diavolo che aveva scritto Ce secondo me aveva scritto bene) contradire e contradizione con un d solo. Ma poiché io devo presentar qui ne’ sonetti del Ferretti l’ortografia romanesca dimolto semplificata, mi preme di dichiarare che non lo fo perchè mi abbiano persuaso gli argomenti addotti contro l’ortografia del Belli, ma perchè il Ferretti ha voluto così, e perchè credo anch’io che il dialetto romanesco presentato in questa forma avrà maggior numero di lettori, specialmente tra i pigri. [Del resto, nncho oggi (1889) che il sistema scientifico augurato dallo Schuchardt può dirsi sorto nell’Archivio Glottologico dell’Ascoli, in quanto a’ sonetti del Bolli era mio stretto dovere di pubblicarli come li scrisse lui.]
  13. A pag. 80, lo stesso autore scrive: Passàmo ar vicoletto der Cancello,
    e questo è il costrutto vero.
  14. Eccolo. Ma per gustarlo bene, mi par necessario figurarsi che, sotto il Governo pontificio, in un venerdì di quaresima, che potrebbe anclie essere il venerdì santo, un ferro di polizia (un trommetta, un pi/ero, una minosa, dicono i trasteverini) si presenti a un oste di Roma, e, fingendo di sentirsi un po’ male, gli chieda da mangiare di grasso. L’oste, che sa d’essere in voce di frammassone e ha l’odorato fine, capisco subito chi è l’amico, e risponde:

         Ber fio, io so’ cattolico, e l’editto
    Der Cardinal Vicario parla chiaro;
    Nun sete, pare a me, tanto somaro
    De nun vede da voi quer che c’è scritto.
         Si volete du’ trije, un porpo fritto,
    Er merluzzo in guazzetto, lo preparo;
    Ma la carne nun posso, fijo caro:
    Annerebbe all’inferno dritto dritto.

         Si state male, annate ar Vicariato,
    Fateve fa du’ righe de licenza
    Colla passata dietro der curato.
         E portatela a me, che quanno ho visto
    De potè sta tranquillo de coscienza,*
    Metto in padella puro Gesù Cristo.

    Ecco anche il Miracolo della Madonna in Trastevere, scritto nel 1872:

         A volémme intignà che quell’immaggine
    Della Madonna, drento ar tabbernacolo,
    Che va smovènno l’occhi pe’ miracolo.
    Sia un’impostura, è proprio cocciutaggine.
         Ma er Vicariato doppo tante indaggine,
    Dimme, cià forse trovo quarche ostacolo?
    Maer popilo che approva lo spettacolo,
    Siconno te, lo fa pe’ cojonaggine?
         Ah... mo la stella je se fa contraria
    A sti Tajani, e quanti qui se troveno
    La dovranno pijà l’erba fumaria!**
         Ste smosse d’occhi, Checco mio, te proveno
    Che quarche cosa certo c’è per aria!... —
    Si, ce so’ li filetti che li moveno.

    * Cuscenza, doveva dire; e così, poco sopra, Co’ la passata e non Colla passata; e nel sonetto seguente, De la Madonna e non Della Madonna, propio e non proprio.

    ** Cioè: "dovranno scappar via, scomparire.,, E questo modo dì dire, comunissimo, proviene da un ravvicinamento del fumo di fumaria, che è realmente un’erba medicinale, dai Toscani chiamata anche fumosterno, alle frasi andare in fumo, scomparir come il fumo, ecc.

  15. Queste pagine intorno al Marini (pubblicate, come ho già detto, con le altre del presente capitolo, noi 1878) suscitarono una battaglia critica tra i professori Raffaello Qiovagnoli e Francesco Sabatini; il primo de’ quali preso a difendere il simpatico poeta contro 1 miei appunti, e il secondo a confermarli. (Cfr. Sabatini, Polemica Ro- romanesca; Roma, 18S3, — Giovagnoli, Prefaz. alla 3a ediz. de’ Sonetti del Marini; Roma, 1886.)
      Ora, io ho riletto attentamente la loro polemica, e non ho nulla da aggiungere e nulla da togliere al mio giudizio; per quanto la cortesia adoperata verso di me dal Giovagnoli mi metterebbe addosso una gran voglia di dargli ragione. Ma come potrei dargliela, se egli parte dal presupposto che sia io che abbia inventato il rigore grammaticale e lessicale del dialetto romanesco; e, contro tutte le dichiarazioni e le proteste fatte dal Belli nell’Introduzione e in cento note, crede che il Belli non ci pensasse neppure a uniformarsi a codesto rigore? (Pag. iv.) Come potrei dargliela, se egli asserisce che io ho trovato “otto o dieci„ costruzioni sbagliate “sopra cento sonetti„ del Marini (pag. v-vi), mentre in realtà io le trovai ne’ soli primi quattro? Come potrei dargliela, se arriva perfino ad affermare che il quelo per quello (V. il Glossario), usato dal Ferretti, è “uno sproposito d’ortografia da prendersi con le molle?„ (Pag. X.) Basta questa sola affermazione a provare che il Giovagnoli conosce il romanesco anche meno del Marini. E, infatti, di tutti gli errori sintattici o lessicali ch’egli crede d’avere scoperto nel Belli e nel Ferretti (lasciando anche stare che, a ogni modo, non giustificherebbero quelli del Marini), non ce n’è neanche uno che sia vero. Due soli sarebbero veri: quelli, cioè, notati ne’ sonetti: La prima bbinidizzione papale e La guittarìa (pag. viii-ix); ma, a farlo apposta, il primo di codesti sonetti non è del Belli (Cfr. vol. VI, pag. 348-49), e il secondo è, sì, del Belli (ibid., pag. 54), ma il verso difettoso, censurato anche dal Sabatini (pag. 20), non è suo, ma dell’edizione Salviucci. E al Sabatini che censura (pag. 12) anche due troncamenti usati dal Belli: cucchier (Da soverchià er cucchier d’una Potenza) e segretar (In ne l’uscì ddar Zegretar-de-Stato), dico che sono, in certi casi, comunissimi anche oggi, come è comunissimo l’altro di Madòn (la Madòn de Monti, la Madòn de la Neve, ecc.); e il Belli lo avverte più volto espressamente. (V. vol. IV, pag. 88, nota 7; vol. V, pag. 138, nota 2; ecc.)
  16. M’avesse.
  17. Ci ho.
  18. Le gambe. E l’usano familiarmente anche i Fiorentini.
  19. Si confronti questo sonetto con quello famoso del Belli, vol. II, pag. 116.
  20. Voluto.
  21. Una vettura di piazza, una botte dicono ora. Cfr.
    la nota 6 a pag. 80 di questo volume.
  22. Troncamento della forma varda, la quale s’usa spesso per guarda, come in Toscana il gua’,
  23. Ci pensavamo.
  24. Creda.
  25. Caterina.
  26. Aligusta, specie di gambero di mare.
  27. Baldoria. Far bisboccia, bisbocciare, bisboccione son vivi anche a Firenze. Mancano quindi per mera svista al Giorgini-Broglio e al Rigutini-Fanfani.
  28. Si sa.
  29. Lo secca.
  30. Pretendere.
  31. Testa.
  32. Mi dice.
  33. Pure.
  34. Antonio.
  35. La Ripresa è l’estremità meridionale del Corso; e si chiama cosi, perchè vi si riprendevano i barberi nello corse del carnevale.
  36. Leopardi, Consalvo.
  37. Caterina.
  38. Questo.
  39. Eccola.