Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo XIII: differenze tra le versioni

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==[[Pagina:Opere di Procopio di Cesarea, Tomo III.djvu/202]]==
''Belisario occupa Tudera e Clusio. — Posizione di Ancona. Imprudenza di Conone. Strage degli imperiali. — Venuta in Italia dell’eunuco Narsete.''


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I. Verso l’estivo solstizio Belisario marciò contro Vitige e l’esercito de’ Gotti conducendo seco tutte le truppe, delle poche all’infuori cui venne affidata la custodia di Roma. Ora spedite innanzi a Tudera e Clusio alcune coorti, che avrebbe egli stesso di poi raggiunte per assediarvi unitamente i barbari, ordinava loro di costruire intanto gli steccati. Se non che quelli, avutane la notizia, gli inviarono prima di por mano alla tromba ed alle armi ambasciadori di pace colla promessa di arrendere sé stessi, purché avessero salva lor vita, insieme colle due città; ed al primo comparir di lui tennero la data parola. Il romano duce pertanto fe’ comando a tutti i Gotti ivi a stanza di trasferirsi in Napoli e nella Sicilia, e presidiato Tudera e Clusio procedé colle sue truppe. In questo mezzo Vitige impose all’altro esercito diretto ad Aussimo e capitanato da Uachimo di unirsi ai Gotti colà di guernigione, per quindi muovere tutti ad
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una contro il nemico dimorante in Ancona ed assalirvi il castello.

II. Giace Ancona su di rupe angolare e somigliantissima ad un piegato cubito, donde ebbe il nome<ref>(i) Da [parola in greco], cubito, o piegatura del braccio.</ref>; é distante non più di stadj ottanta da Aussimo città, della quale é porto. Le opere del suo castello, anch’ esse erette sopra una rupe, hanno solidità e sicurezza, ma le fabbriche al di fuori, quantunque moltissime, non erano sino ab antico circondate da muro. Conone comandante del presidio appena ricevuta la notizia della venuta di Uachimo, ned essere lontano, diede gran pruova di sconsideratezza; imperciocché fittosi in capo fosse ben poco il procacciare la conservazione del castello, di quegli abitatori e del presidio, lasciollo quasiché spoglio di truppe, condottane la massima parte alla distanza di cinque stadj, e postala in ordine di battaglia con uno schieramento non profondo ma largo per guisa da circondare tutto il pié del monte, come sarebbe il caso d’ una partita di caccia colla lungagnola. Costoro non appena veduto il nemico assai maggiore di numero voltaron le spalle, e con precipitoso corso camparono entro la rocca. I barbari incalzano quanti erano tuttavia per istrada, e vanno qua e là uccidendoli; altri di essi appoggiate le scale alle mura tentanne l’assalto ; havvi in fine chi appicca fuoco alle case poste al di fuori. I Romani antichi abitatori della città stupefatti alla veduta di sì orribili scene, aperta sin da principio una porticella v’accoglievano gli
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avviliti soldati in fuga. Ma quando presentaronsi agli sguardi loro i barbari alle calcagna de’fuggitivi chiusero di botto l’ingresso per tema non entrasservi alla rinfusa gli uni cogli altri; e calando funi dai merli tirarono in salvo molti de’loro, e tra questi Conone. Vi mancò un nulla che i Gotti saliti per le scale non addivenissero armatamano padroni del forte ; e di vero sarebbonvi riusciti, possessori già dei merli, se due valorosi personaggi, operando prodigj in tale incontro, non fossero giunti a respignerli. L’ uno di essi, trace, avea nome Ulimo; l’altro, massageta, Bulgudu; il primo era guardia di Belisario, il secondo di Valeriano; entrambi poi erano stati tradotti, per non so qual ventura, sopra nave in Ancona. Or dunque in questa lotta e’ salvarono fuor d’ogni speranza quelle mura, colle spade ributtando i barbari che salivano, e quindi ritiraronsi semivivi per le molte ferite di che erano coperti i loro corpi. A que’dì Belisario ebbe la nuova che Narsete con molte truppe era in cammino da Bizanzio, e stavasi allora presso i Picentini. Era costui eunuco, prefetto del tesoro imperiale, d’animo assai crudele e, contro la natura de’ castrati, dotato d’un sommo valore. Egli conduceva seco cinque mila armati divisi in turme sotto altri duci, in ispecie sotto Giustino maestro de’ militi per l’Illirico, e sotto Narsete persarmeno, in altri tempi disertato ai Romani col fratello Arazio<ref>(i) V. lib. I delle Guerre Persiane.</ref>, il quale in epoca da questa non molto lontana avea raggiunto Belisario con fresche truppe. Allo stesso eransi uniti
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gli Eruli, nel numero non maggiore di due mila, aventi a condottieri Visando, Aluet e Fanoteo.

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LIBRO II - CAPITOLO XIII

../12 ../14 IncludiIntestazione 16 agosto 2010 75% Da definire

Procopio di Cesarea - Istoria delle guerre gottiche (VI secolo)
Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
LIBRO II - CAPITOLO XIII
Libro secondo - 12 Libro secondo - 14


[p. 192 modifica]collocatevi numerose guernigioni, di maniera che egli stanziava in Milano con Ennio e Paolo e con trecento guerrieri al sommo, ed i cittadini stessi per turno aveano l’incarico di vegliare alla propria difesa; tale passavano le cose nella Liguria. Terminò il verno e con esso l’anno terzo di questa guerra, che Procopio scrivea.


CAPO XIII.

Belisario occupa Tudera e Clusio. — Posizione di Ancona. Imprudenza di Conone. Strage degli imperiali. — Venuta in Italia dell’eunuco Narsete.

I. Verso l’estivo solstizio Belisario marciò contro Vitige e l’esercito de’ Gotti conducendo seco tutte le truppe, delle poche all’infuori cui venne affidata la custodia di Roma. Ora spedite innanzi a Tudera e Clusio alcune coorti, che avrebbe egli stesso di poi raggiunte per assediarvi unitamente i barbari, ordinava loro di costruire intanto gli steccati. Se non che quelli, avutane la notizia, gli inviarono prima di por mano alla tromba ed alle armi ambasciadori di pace colla promessa di arrendere sè stessi, purchè avessero salva lor vita, insieme colle due città; ed al primo comparir di lui tennero la data parola. Il romano duce pertanto fe’ comando a tutti i Gotti ivi a stanza di trasferirsi in Napoli e nella Sicilia, e presidiato Tudera e Clusio procedè colle sue truppe. In questo mezzo Vitige impose all’altro esercito diretto ad Aussimo e capitanato da Uachimo di unirsi ai Gotti colà di guernigione, per quindi [p. 193 modifica]muovere tutti ad una contro il nemico dimorante in Ancona ed assalirvi il castello.

II. Giace Ancona su di rupe angolare e somigliantissima ad un piegato cubito, donde ebbe il nome1; è distante non più di stadj ottanta da Aussimo città, della quale è porto. Le opere del suo castello, anch’esse erette sopra una rupe, hanno solidità e sicurezza, ma le fabbriche al di fuori, quantunque moltissime, non erano sino ab antico circondate da muro. Conone comandante del presidio appena ricevuta la notizia della venuta di Uachimo, ned essere lontano, diede gran pruova di sconsideratezza; imperciocchè fittosi in capo fosse ben poco il procacciare la conservazione del castello, di quegli abitatori e del presidio, lasciollo quasichè spoglio di truppe, condottane la massima parte alla distanza di cinque stadj, e postala in ordine di battaglia con uno schieramento non profondo ma largo per guisa da circondare tutto il piè del monte, come sarebbe il caso d’una partita di caccia colla lungagnola. Costoro non appena veduto il nemico assai maggiore di numero voltaron le spalle, e con precipitoso corso camparono entro la rocca. I barbari incalzano quanti erano tuttavia per istrada, e vanno qua e là uccidendoli; altri di essi appoggiate le scale alle mura tentanne l’assalto; havvi in fine chi appicca fuoco alle case poste al di fuori. I Romani antichi abitatori della città stupefatti alla veduta di sì orribili scene, aperta sin da principio una porticella v’accoglievano gli [p. 194 modifica]avviliti soldati in fuga. Ma quando presentaronsi agli sguardi loro i barbari alle calcagna de’ fuggitivi chiusero di botto l’ingresso per tema non entrasservi alla rinfusa gli uni cogli altri; e calando funi dai merli tirarono in salvo molti de’ loro, e tra questi Conone. Vi mancò un nulla che i Gotti saliti per le scale non addivenissero armatamano padroni del forte; e di vero sarebbonvi riusciti, possessori già dei merli, se due valorosi personaggi, operando prodigj in tale incontro, non fossero giunti a respignerli. L’uno di essi, trace, avea nome Ulimo; l’altro, massageta, Bulgudu; il primo era guardia di Belisario, il secondo di Valeriano; entrambi poi erano stati tradotti, per non so qual ventura, sopra nave in Ancona. Or dunque in questa lotta e’ salvarono fuor d’ogni speranza quelle mura, colle spade ributtando i barbari che salivano, e quindi ritiraronsi semivivi per le molte ferite di che erano coperti i loro corpi. A que’ dì Belisario ebbe la nuova che Narsete con molte truppe era in cammino da Bizanzio, e stavasi allora presso i Picentini. Era costui eunuco, prefetto del tesoro imperiale, d’animo assai crudele e, contro la natura de’ castrati, dotato d’un sommo valore. Egli conduceva seco cinque mila armati divisi in turme sotto altri duci, in ispecie sotto Giustino maestro de’ militi per l’Illirico, e sotto Narsete persarmeno, in altri tempi disertato ai Romani col fratello Arazio2, il quale in epoca da questa non molto lontana avea raggiunto Belisario con fresche truppe. Allo stesso eransi uniti [p. 195 modifica]gli Eruli, nel numero non maggiore di due mila, aventi a condottieri Visando, Aluet e Fanoteo.

CAPO XIV.

Antica dimora degli Eruli; loro crudeltà verso gl’infermi ed i vecchi. Barbaro costume delle mogli ne’ funerali dei mariti. — Rodulfo re loro armasi contro ai Longobardi chiedenti pace, sfidali a battaglia e v’incontra morte, per divina vendetta, colla massima parte de’ suoi. — Ritirata degli Eruli presso i Gepidi, quindi, imperante Anastasio, presso i Romani. — Sotto il principato di Giustiniano adorano Cristo ed abbandonano lor empie costumanze. Uccidono il proprio re.

I. Ora dirò qual gente sieno gli Eruli, e come venissero a strigner lega co’ Romani. Eglino tal fiata dimoravano di là dal fiume Istro, veneratori di molti Numi, che cercavano rendersi propizj con vittime umane. Differivano assaissimo dagli altri popoli nelle usanze loro, estimando azione iniqua il prolungare la vita ai vecchi ed agli infermi, di maniera che ove alcuno de’ suoi aggiugnesse alla vecchiaia od a malattia, dovea egli stesso pregare i consanguinei che al più presto lo togliessero dal numero de’ viventi. E quelli approntato altissimo rogo e postovelo sopra, inviavangli tale de’ paesani, ma non parente, giudicando empietà il dare morte al proprio sangue, armato di stile e coll’incarico di metterlo a morte. Ritornato l’uccisore di subito incendiavano il rogo sottoponendovi fiaccole accese, ed allo spegnersi della fiamma venivan raccolte le ossa per


  1. Da ἀγκών, cubito, o piegatura del braccio.
  2. V. lib. I delle Guerre Persiane.