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356 alle porte d'italia

titano. — Ludri! — gridava Rogelli pien d’entusiasmo; — ragazzi con le gambe d’acciaio e col fegato di bronzo, che cimentan la vita per andar a strappar gli ultimi fili d’erba sull’ultime roccie che pendon sui loro villaggi; lestofanti che, dopo una marcia da ammazzare i muli, domandano un permesso di dodici ore per andarne a passare una e mezza a casa loro, e partiti a piedi a mezzanotte, ritornano al campo a mezzogiorno, a restituire la penna d’aquila che si son fatti imprestare dal compagno per far colpo sull’amorosa. Questo particolare fece sventolare il fazzoletto alla signora Penrith, che s’attirò uno sguardo riconoscente d’un caporale della terza compagnia. Molte persone si levarono in piedi, le grida raddoppiarono. Alcuni gridavano a caso dei nomi sconosciuti di paesetti rimpiattati fra le rupi, — nidi di fabbricatori invernali di sedie e di culle, nei quali il parroco è maestro, medico, oste e scrivano; — e qualche soldato, ai suon di quei nomi, voltava il viso, con una vaga espressione di curiosità e di compiacenza; e allora molte voci e molte mani lo salutavano. E così passò l’ultima compagnia assordata dagli evviva, ricacciando a destra e a sinistra, coi suoi plotoni inflessibili, le onde irrompenti della folla.



Seguirono alcuni momenti di silenzio e poi scoppiò una di quelle tempeste di voci umane, di cui si porta l’eco nell’anima per la vita. Erano i figli della lionessa d’Italia, era il battaglione della valorosa Val Camonica, che s’avvicinava, bello, serrato, superbo; svariato di tipi singo-