Due novelle aggiunte in un codice del MCCCCXXXVII contenente il Decamerone di Giovanni Boccaccio/Al chiarissimo signor cavaliere Salvatore Bongi: differenze tra le versioni

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Al chiarissimo signor cavaliere Salvatore Bongi

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Novella di Giovanni Cavedone

[p. iii modifica] [p. iv modifica]che per la prima volta vi aggiunse in fine, come appunto ritrovò in uno dei testi a penna di cui ebbe a servirsi. Queste novelle, leggiadre d’invenzione e di stile, si intitolano: Bonaccorso di Lapo GiovanniIl Bianco Alfani — e Filippo di ser Brunellesco. — Comparse senza nome d’autore, si è poi scoperto che la terza, detta altresì Novella del Grasso Legnaiuolo appartiene a Feo Belcari, ed è anche più bella e più solenne composizione dell’altre due. Vennero riprodotte da Aldo Manuzio nel Decamerone, Venezia 1522, e da Vincenzio Borghini nel Libro di novelle e di bel parlar gentile, Firenze 1572, coll’aggiunta di una quarta novella di Lionardo Bruni Aretino; senza toccare delle minori ristampe.

[p. v modifica]La novella del Bianco Alfani ha un prologo che la mostra narrata da Lioncino di messer Gucci de’ Nobili nell’orto de’ Pitti ad un’allegra brigata d’amici per gareggiare di piacevolezza con un’altra novella di Madonna Lisetta che poco prima era stata riferita da Piero Viniziano: e lo scrittore del Bianco Alfani conclude, che non potendosi tutti gli ascoltanti accordare sulla preferenza da darsi ai due novellatori, rimettevano il giudicio a chi leggerà l’una e l’altra. Ma la cosa doveva rimanere indecisa fino all’anno passato in cui potè comparire nella vostra Lucca la novella della Lisetta Levaldini scoperta in due codici Magliabechiani collegata a quella del Bianco Alfani, e allora la Lisetta fu senza meno [p. vi modifica]riconosciuta inferiore; ed anzi a motivo di troppo spudorate magagne ebbe grazia soltanto di trenta esemplari di vita.

Or io avendo egualmente scoperto in fine ad un codice del Decamerone del Boccaccio posseduto nella Biblioteca palatina di Modena la novella inedita di Giovanni Cavedone e madonna Elisa degli Onesti da Ravenna, la quale ha pur essa un prologo che accenna ad altre novelle raccontate da parecchi mercatanti di vari paesi trovatisi all’albergo del Cappello in Pisa, stando tutti d’inverno dopo cena ad uno grande fuoco a sedere; novella a cui fa séguito nel codice stesso l’altra già ricordata di Bonaccorso di Lapo, ma di lezione più larga e dirò anche migliore della [p. vii modifica]stampata; ho creduto di far cosa gradita agli amatori delle novelle mandandole entrambe in istampa. E perchè voi siete così diligente e solerte cultore di questa sorta di studi, che formano uno dei vanti speciali di nostra letteratura, onde basta ricordare le novelle del Lando e del Doni che illustraste in ogni più degna maniera, le ho a voi per effetto di stima e di simpatia indirizzate, nella persuasione che unendo esse all’interesse dell’intreccio ordinato e naturale una forma elegante e vivace, non disconvengano altresì all’egregio autore della Storia di Lucrezia Buonvisi, uno de’ più cari libri moderni che mercè vostra mi fu dato di leggere.

Ignoro chi abbia dettate queste due novelle, nè dirò tampoco che [p. viii modifica]uscissero d’una penna medesima: che la prima è più sciolta e tutta ispirata al Decamerone, partecipando purtroppo anche dell’immoralità del soggetto, sicchè tenni necessario affidarla a pochi e numerati esemplari; la seconda move più in pieno, e continentemente tratta di burle singolarissime che meglio s’accostano al genere di quelle del Bianco Alfani e del Grasso Legnaiuolo: però scritte a quanto pare da mano diversa, sebben sempre toscana e di un tempo medesimo, e ad imitazione l’una dell’altra. Così la novella di Marabottino Manetti mandata al magnifico Lorenzo de’ Medici (che il Passano ritiene a cura vostra pubblicata in Lucca nel 1858), narrando le burle fatte ad un pievano perchè liberasse [p. ix modifica]certa mona Tessa del debito seco lui contratto di alcuni fiorini, venne forse intesa per un contrapposto e rivalsa alle burle più forti architettate maestrevolmente dall’arcidiacono Giovanni affine di carpir denari a Bonaccorso di Lapo e suoi aderenti: onde s’intreccia la novella che qui riproduco in secondo luogo conforme al codice modenese.

La quale novella avendo io confrontata sull’edizione del Borghini e sopra una copia del codice Marucelliano A, 221, 2, offertami dal ch. nostro presidente cav. Francesco Zambrini (che tanto fa e tanto aiuta gli altri a fare), debbo avvertire che detto codice fiorentino ha un testo eguale a quello del Borghini, e che portando la data del 1419 è pure il più antico ch’io mi conosca.

[p. x modifica]Il codice modenese da cui estrassi la materia del presente libretto è segnato col n. 346 della classe ital., e Decamerone che vi è contenuto si chiude colle seguenti parole:

»Qui finisce il libro chiamato Decameron, cogniominato Principe Galeotto, compilato e composto per lo venerabile poeta messere Giovanni De’ Boccacci da Ciertaldo, a cui Iddio abbia fatto e faccia veracie perdono; e scritto questo dì XXIII d’agosto MCCCCXXXVII a ore ventiquattro.

     Tu che con questo libro ti trastulli,
Rendimel tosto, e guardal da’ fanciulli;
E fa con la lucierna non s’azzuffi,
Se tu non vuoi che nell’olio s’attuffi.»

Si direbbe che questi versi fossero stati fatti espressamente dal[p. xi modifica]l’amanuense, vago, com’altri, di lasciare un motto di speciale raccomandazione o ricordo della propria fatica; ma non siamo abbastanza certi che comparissero per la prima volta nel detto codice per indi acquistare alcun poco di popolarità, trovandoli in parte ripetuti e acconciati anche in fondo ad un codice della Commedia di Dante appartenente al secolo XV e posseduto nella Trivulziana di Milano al n. 27, senza che possano dirsi di mano eguale; giacchè il copiatore del Dante si appalesa nella grafia per lombardo e quello del Boccaccio per toscano, a meglio dire senese, oltre di essere assai più diligente e corretto.

Dopo la sottoscrizione medesima, e all’oggetto, io credo, di [p. xii modifica]occupare alcune carte rimaste in bianco nel codice, seguono le due novelle di Giovanni Cavedone e di Bonaccorso di Lapo Giovanni, come qui leggerete. Mi permisi mondarle dell’antica buccia ortografica, sperando che un po’ di fresca apparenza avesse loro a giovare nel comparire al cospetto di tante azzimate compagne. Paragonatele voi dunque se non colle più belle almen con quelle che hanno cera più allegra e accostevole, nè dubito che le troverete meritevoli delle tenui cure che attorno vi spesi.

Abbiatemi sempre e di tutto cuore.

Modena, 10 aprile 1866.

Vostro aff.mo amico

A. C.