La Circe/Dialogo terzo: differenze tra le versioni

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Dialogo secondo Dialogo quarto

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deva ogni giorno grazie a gli Dei, era che l'aveven fatto uomo, e non fiera.
Circe.
Egli lo faceva perchè così è l'opinione de la maggior parte de gli uomini, tirati da quelle ragioni che si possono cavare dal discorso ragionevole. Ma e' si debbe molto più credere o costoro, che, avendo provato l'una e l'altra vita, lo conoscono per la esperienza e per la cognizione sensitiva, la quale non solamente eccede e supera di certezze tutte le altre, ma è origine e fondamento di tutte.
Ulisse.
Sì, ma e' non si debbe comparare quella de gli animali a la nostra, essendo ella molto più imperfetta.
Circe.
Questo non credo io già, perchè veggio di molti animali che hanno i sensi molto più perfetti di voi, e che nelle operazion di quegli vi superano di gran lunga.
Ulisse.
Se bene e' ci vincono in qualche senso particolare, come fa, verbigrazia, l'Aquila nel vedere, il Cane ne l'odorare e l'Oca ne l'udire; e' ci sono poi inferiori tanto nel far giudizio de le cose sensibili, per non avere il senso comune tanto perfetto quanto noi, e per mancare al tutto del discorso ragionevole e del poter comparare l'un sensibile con l'altro, che le nostre cognizioni sensitive sono molto più perfette de le loro. Ma fammi favellare con qualcuno altro, ch'io non penso però che tutti ebbino ad aver così perduto il vero conoscimento de la ragione come questi tre ai quali io ho parlato; che certamente non furono senza cagione trasmutati da te in così imperfetta specie d'animali, avendo eglino come uomini sì imperfetto discorso.
Circe.
Io son contenta: parlerai con quella Lepre che tu vedi che pasce a l'ombra di quella quercia: va là, e chiamala, chè io le ho conceduto il favellare.
Ulisse.
Lepre, se gli Dii ti dìeno quel che tu desideri, non ti fuggire, ma aspettami e dégnati dì rispondermi, chè Circe mi ha detto che tu puoi.
Lepre.
Ohimè, che vuol dir questo? io ho riavuto l'intendere il significato de le parole umane: oh sorte mia infelice, perchè mi hai tu ricondotto in così fatta miseria?
Ulisse.
Chiami tu però miseria lo intendere il favellar de gli uomini? [p. 41 modifica]
Lepre.
Miseria e infelicità grandissima, se già e' non si son mutati di natura da quel tempo in qua che io era uomo.
Ulisse.
E quale è la cagione, Lepre?
Lepre.
Ohimè, oh! io non sentiva mai, mentre ch'io era uomo, altro che rammaricarsi e dolersi amarissimamente l'un con l'altro.
Ulisse.
Io arò fuggito Scilla e arò dato in Cariddi. Colui era medico; per la qual cosa e' non praticava mai se non con malati e con malcontenti; e costui, per quanto io posso penetrare, non dovette praticar mai se non con disperati.
Lepre.
Queste cose mi erano spesso cagione di tanta doglia, che io sarei innanzi voluto stare in un bosco dove io non avessi mai veduto pedate d'uomo: e certamente l'avrei fatto, se la natura umana l'avesse comportato. Ma tu sai che l'uomo ha bisogno di tante cose, che non può vivere solo se non con mille incomodità.
Ulisse.
E che? tu non senti rammaricarsi forse anche de gli animali, eh?
Lepre.
Egli è il vero, che quando quei de la specie mia medesima hanno qualche passione, che io gli conosco a la voce; perchè egli è naturale a ciascuno animale il manifestar con la varietà del suono de la voce se egli ha allegrezza, o dolore: ma queste voci così naturali mi dimostrano solamente il dolor di quegli in generale; il qual modo di dolersi è molto più comportabile che quel de l'uomo, che, oltre al dolersi con sospiri e con accenti maninconici e mesti, accresce, col narrare le sue miserie e la cagione del suo dolorsi, bene spesso a chi lo ode molto più la compassione. Ohimè, oh! io non sentiva mai (oltre ai sospiri che getta naturalmente chi ha maninconia) raccontare altro che omicidj, tradimenti, latrocinj, assassinamenti e impietà sì crudeli che facevano l'uno a l'altro gli uomini, che il più de le volte mi dava maggiore affanno la compassione d'altrui, che non faceva la pietà di me stesso.
Ulisse.
Or dimmi (se ti piace) che stato fu il tuo mentre che tu vivesti uomo?
Lepre.
Io ne mutai tanti, che io non saprei qual ti dire. Ma che ti muove a voler così sapere qual fu lo stato mio? [p. 42 modifica]
Ulisse.
Lo amore che si porta naturalmente a quei che sono de la sua patria. E questo mi ha fatto impetrar da Circe di render l’effigie de l’uomo a tutti i miei Greci. E per avere inteso da lei che tu n’eri uno, voleva farti questo bene; perchè io ancora sono Greco, e chiamomi Ulisse.
Lepre.
A me non le restituirai tu già, se io non sono però forzato.
Ulisse.
O perchè? non è egli meglio essere uomo che animale bruto?
Lepre.
Non già, per quanto io conosca.
Ulisse.
E sei tu però disposto in tutto di voler consumare la vita tua in cotesto corpo di fiera?
Lepre.
Sì; perchè standomi così fiera, mi vivo contento e quieto ne la mia specie; ed essendo uomo, non mi contentai mai in istato alcuno.
Ulisse.
E il caso è se questo per colpa tua e per esser tanto insaziabile, che tu non ti contentassi di quel che è ragionevole.
Lepre.
Io dubiterei di cotesto; se non che io non trovai mai uomo alcuno, in che stato si voglia (e ne praticai pure assai), che fusse perfettamente contento. Ma dimmi un poco, che ha però l’uomo ch’ e’ debba viver contento? Chè o egli è posto da la fortuna in istato che egli ha a comandare e a provvedere ad altri, o egli è comandato e governato.
Ulisse.
In tutti due questi stati (se egli è prudente) ha da contentarsi.
Lepre.
Anzi in nessuno: perchè se egli è principe e signore, e ha a governar altri se egli vuole far quel che gli conviene, e’ non ha mai un’ora di riposo; lasciando stare l’insidie e gl’inganni de’ queali egli debbe tuttavia tenere, e che nascon tutto il giorno da la invidia che gli è portata. Ohimè, non sai tu che un principe tiene nel suo principato il luogo che tiene Iddio ottimo e grandissimo ne l’universo? chè ha con la prudenza sua aver cura a tutte le cose; donde ei si dice vulgarmente, che tutti i sudditi suoi dormon con gli occhi di quello: che piacere vuoi tu adunque che egli abbia?
Ulisse.
Grandissimo, veggendoli viver civilmente e [p. 43 modifica]dicono che il rubare non è male; conciossiacosachè la roba di questo mondo sia stata tante volte rubata, che ella non abbia più i veri padroni, ma sia di chi se la toglie.
Lepre.
Bástiti solamente questo, Ulisse, che la povertà è cosa tanto aspra e tanto grave, che gli uomini per fuggirla si pongono insino a star per servi l’un con l’altro: cosa tanto brutta, che fra noi animali non è alcun si vile che non sopportasse prima la morte che porsi volontariamente a servire L’uno a l’altro de la sua specie medesima per mendicare le cose sue necessarie. Ma la natura ci ha voluto* Unto meglio che a voi, che in fra noi non è conosciuta questa infelicità; anzi, ciascheduno è stato fatto da lei da tanto, che cri si sa reggere per sè stesso.
Ulisse.
E’ bisogna che sia pur altro che la povertà che conduce gli uomini a star per servi l’un con l’altro, perchè si vede farlo a di molti che sono ricchi.
Lepre.
Anzi son più poveri de gli altri, se tu lo consideri bene; perchè sono poveri di nobiltà d’animo, o veramente di consiglio: per il che e’ non sanno raffrenare il loro ingiusto appetito; laonde cercano d’acquistar fama o grado, o di saziar le lor voglie immoderatamente, col farsi servi d’altrui.
Ulisse.
E chi fusse in uno stato mediocre, nel quale e’ potesse ragionevolmente contentarsi?
Lepre.
E dove è questo stato? Io per me non trovai mai nomo alcuno che non dicesse o che gli mancasse qualcosa, o che gliene avanzasse; benchè questi furono rarissimi, e se ne accorsero quando ei si videro pressa al fine de la lor vita, dolendosi de i disagi ch’egli avevano sopportati ne la loro giovanezza per acquistar roba, acciocchè ella avesse poi loro avanzare a la morte.
Ulisse.
Questi sono errori che nascono dal non saper l’uomo raffrenare e moderare le voglie sue; e non da la sua stessa natura.
Lepre.
A me pare che sia tutt’uno; poichè la natura ha fatto che egli può desiderare quelle cose che gli son poi dannose e moleste. La qual cosa, per averci più amati, non ha ella fatto a noi. E mi ricorda che essendo io in quella età ne la quale si comincia aver qualche conoscimento, sotto [p. 44 modifica]la custodia di quel precettore che mi aveva dato mio padre, che fu di Etolia nobilissimo e dotato di molte ricchezze; che insegnandomi egli certe cose di matematica, secondo il costarne dei Greci, io cominciai a considerare come l’uomo non sa cosa alcuna se non gli è insegnato. La qual cosa in quella età ci pare durissima, non tanto e per la diftlcultà de le coso e per la custodia del maestro, quanto per la voglia fanciullesca che arreca seco quel tempo, che io mi viveva molto mal contento e non mi mancava però cosa alcuna.
Ulisse.
Di cotesta età si debbe tener poco conto, perchè ella è molto imperfetta.
Lepre.
Seguitando dipoi più oltre, occorse la morte di mio padre; laonde io cominciai a combattere coi miei fratelli de la eredità, sperando pur sempre, mentre ch’io era in questi travagli, che come egli erano finiti, d’avermi a vivere contento e in riposo grandissimo: del che mi avvenne tutto il contrario. Perchè, come io ebbi la mia parte, che furono parte possessioni e parte danari, i pensieri crebbono; ed essendo uso a esser governato, mi pareva fatica grandissima avere allora a far da me, e d’altri non mi fidava. Perchè, essendomi forza per mantenere le mia facultà praticare è con i contadini e con mercanti, mi accòrsi che ciascuno di loro stava continuamente attento per far le mie cose sue: perchè dare un podere a un contadino non è altro che far compagnia con un ladro, e dare il suo a un mercante con unò che pensi di tòrtelo. E nientedimanco io notai che nessun di loro al contentava de lo stato suo, e non facevano mai altro tutti che continuamente rammaricarsi l’uno de le terre che non rendevano per la indisposizion de’ cieli, e de l'esser poco stimati; e l’altro de’ cattivi temporali, de la mala fortuna, de la poca sicurtà de’ mari, e de la discordia de’ principi, che non lasciavano esercitare la mercatura.
Ulisse.
Ogn’uno ha avere qualcosa che gli dia noja: voi avete pure anche voi de le cose che vi molestano.
Lepre.
Sì, ma per ognuna che ne abbiam noi, ne avete mille voi. Ma sta pur a udire. In questo mentre, e per i bisogni che occorrono a la vita de l’uomo, e per difenderti che non ti aia tolto il tuo (perchè tutti gli nomini son ladri, ma