Novelle orientali/V. Tratto raro di generosità di un Califfo: differenze tra le versioni

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V. Tratto raro di generosità di un Califfo

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V. Tratto raro di generosità di un Califfo
IV. I due Orsi VI. Allegoria
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V.


Tratto raro di generosità di un Califfo.


Nel tempo in cui regnava Abdulmelik1, quinto Califfo della stirpe degli Ommiadi, vivea in Cufa un [p. 219 modifica]ricco mercante, il cui nome era Daber, il quale avea un figliuolo senza più. Non avea l’affettuoso padre altro pensiero che questo fanciullo; e poichè con somma tenerezza ed attenzione l’educò ne’ primi anni come meglio doveva, gli venne desiderio di renderlo felice pel restante della vita, procurandogli compagna degna di essere amata.

Era Daber oltremisura ricco, come detto si è, onde larghissima spesa fece per poter ritrovare fanciulla di compiuta bellezza, di minor età del figliuolo, acciocchè potesse ancora crescere in beltà sotto gli occhi del suo signore, e rendersi in tal guisa degna dell’affetto di colui che dovea essere suo marito. Cadde la scelta, fra molte altre, sopra una Circassa, a fu a lei destinata così rara fortuna. Zeineb, che tale era il suo nome, ne fu veramente degna; la quale alla sua presenza, ch’era una maraviglia ed un rapimento a vederla, aggiungeva soavissimi costumi e molto migliore e più desto ingegno di quello che n’abbiano ordinariamente femmine rinchiuse fra le mura di un serraglio, le quali hanno sempre idee tenute corte e ristrette dalla schiavitù e dal timore.

Zeineb, nata per dare nel genio e per piacere, fu tra poco una dolce malía all’animo del giovanetto Numan, che così chiamavasi il figliuolo di Daber: venivano cotesti due amanti educati sotto gli occhi del padre, ed essi andavano perfezionandosi con quella loro vicendevole affezione. Gli stessi maestri gli allevarono in tutte le arti da diletto, e facevano rapidissimi avanzamenti per quella gara dell’essere cari l’uno all’altro. Avendo gli anni, il carattere e la bellezza loro renduti compiutamente perfetti, deliberò Daber di legarnegli in unione di maritaggio. Erano quasi già pervenuti al cotanto desiderato punto, quando avvenne un dì, che intrattenendosi eglino sotto ad [p. 220 modifica]un albero ch’era in fondo al giardino di Daber, Zeineb prese un liuto per accompagnare la sua voce, si diede a cantar le grazie e le attrattive del suo amante, e quella felicità alla quale trovavasi oggimai vicina. Hagiage2, generale degli eserciti del Califfo [p. 221 modifica]passava allora sotto le mura del giardino, e udì una voce che ne lo fece arrestare a forza, e tratto dall’ammirazione di così dolce armonia, immaginò in suo cuore, e disse: Oh guanto dee costei essere bella e atta a prendere altrui il cuore! Volendo questo Generale fare un presente al suo signore, stimò fra sè, che se colei che cantava e suonava, era così bella come gliela rappresentava la sua fantasia, non avrebbe potuto fare al Califfo dono più caro. Volle Hagiage sapere chi fosse il padrone di quel giardino, e principalmente chi quella bella giovane ch’egli avea udita con tanto diletto.

Gli fu detto che non si era punto ingannato a credere lei bella; imperocchè Zeineb era in effetto una maraviglia di natura, e quella in cui avea posto ogni suo pensiero ed ogni affezione un ricco giovane che l’amava, e fra poco l’avrebbe fatta sua sposa, cara non meno al padre di lui, il quale avea fatto grandissima spesa per comperarla e darle una educazione che degna fosse del suo figliuolo.

Gli ostacoli dal Generale preveduti gli dolsero, ma non perciò si sbigottì, nè si tolse via dalla sua impresa. Uscito da ogni speranza di poter avere Zeineb per prezzo, deliberò di rapirla; ma la casa del mercatante era ripiena di un gran numero di schiavi, maschi e femmine; oltre di che non potea usare la [p. 222 modifica]forza senza timore, perchè ne sarebbero nate querele ed accuse, e non solamente non avrebbe, come voleva, fatta cosa grata al Califfo, ma ne sarebbe stato punito.

Un’astuzia lo rese possessore di colei che non avea ardimento di rapire. Vi sono in Cufa, come anche in altri luoghi, certi vili strumenti del vizio, i quali, dappoichè hanno insieme colla loro giovinezza consumato l’onore, fanno traffico di quello delle altre giovani. Una di coteste sgraziate femmine, più di quant’altre ve n’erano astutaccia e trista, era anche la più posta in opera da’ giovani scapestrati, a’ quali ella faceva pagar caro i servigi che prestava loro. Si rivolse Hagiage a cotesta faccendiera, alla quale era aperto il serraglio di Numan a cagione dell’esercizio che pubblicamente faceva di picchiapetto e di bacchettona, col quale mascherava il mestiere da lei fatto più volentieri. Andò costei davanti a Zeineb colla faccia velata, e tenea nell’una mano una filza di pallottole delle più grosse che si vedessero mai, e si appoggiava coll’altra ad un bastoncello, come donna che fosse dal peso degli anni fatta curva e grave. La giovanetta schiava, d’animo veramente devoto e pietosa, la quale avea fin da piccioletta fanciulla tenute in venerazione tutte le femmine che mostravano in sè onestà e virtù, ingannata dalla ipocrisia esteriore della vecchia, le fece accoglienza con quanti seppe e potè segni di rispetto. Quell’aria modesta e di mortificazione, quegli occhi ora verso il cielo alzati, ora chinati a terra, que’ suoi frequenti sospiri, ogni cosa infine fa credere a Zeineb di possedere per sua gran ventura nel suo palagio una favorita del gran Profeta.

La trista ed accorta vecchia vinse l’animo dell’amante di Naman in poco tempo per modo, che alla poveretta giovane parea di non poter più vivere senza colei.

Quando la gaglioffa si fu bene avveduta del potere che acquistato avea nell’animo della fanciulla, si lasciò uscire di bocca, ch’ella dovea finalmente [p. 223 modifica]partirsi da lei; alla quale Zeineb disse: Oh quanto siete voi crudele, cara madre mia, volendo voi in tal guisa abbandonarmi! qual cagione tanto vi stringe ed obbliga a privarci così tosto della dolcezza della vostra conversazione? Se io, rispose la vecchia, assecondassi la mia sola volontà e la mia consolazione, siate certa che volentieri farei il sagrifizio di tutto il mio tempo a voi; ma ci sono al mondo obbigazioni di tal qualità che vanno al di sopra di tutte le considerazioni umane. In un luogo vicino si trovano donne, le quali furono dalla pietà tratte a raccogliersi per vivere sotto ad un tetto insieme. Esse così ritirate mettono in pratica tutte le musulmane virtù; digiunano non solamente ne’ giorni comandati, ma spesso ancora per mortificarsi; finalmente impiegano tutto il tempo in preghiere, nel leggere l’Alcorano e nelle altre buone opere dalla legge commesse. Il bello esempio della vita che fanno, sostiene e purifica i costumi miei. Coteste buone donne, comechè sieno molto più di me avanzate nella vita spirituale, si degnano talvolta di ricorrere a’ miei pochi e deboli lumi; e appunto appunto stamattina hanno mandato, pregandomi ch’io vada a ritrovarle, perché hanno a chiedermi consiglio sopra un certo caso della legge, nella intelligenza del quale si trovano impacciate. Come posso io negare di andarvi ad un bisogno così pio e saggio? e come posso io tralasciar di ritornare alle amiche mie che mi sono cotanto care?

Si accese incontanente il cuore della non cauta Zeineb di conoscere coteste pie femmine, e scongiurò la sua santessa che facesse per modo ch’ella potesse legare un’amicizia per lei cotanto utile e decorosa. La scellerata vecchia si ostinò a dire che non potea, per mettere maggior fuoco di desiderio nella sua allieva; ma finalmente, facendo le viste di arrendersi alla sua gran voglia, si accordò a condurnela al ritiro delle pie donne. Quando furono giunte alla casa che non era dall’albergo di Daber lontana, la vecchia si spiccò da’ fianchi della [p. 224 modifica]giovinetta amica, per andarsene, le disse, ad avvisarne prima le sante femmine. Era già poco tempo passato che Zeineb era sola nel vestibulo rimasa, quando quattro uomini mascherati la presero, e mettendole un pannolino alla bocca perchè non potesse gridare, la chiusero in una lettiga che prese il cammino alla volta di Damasco.

Qual fosse lo stato della mala avventurata giovane non si può facilmente comprendere: dolevasi a cielo della tristizia degli uomini, ed amaramente piangea l’amante, il suocero e la buona fortuna di che veniva privata. L’orrore dell’avvenire mescolava passione e timore, e quella diligenza e attenzione che si usava nel condurla, altro non faceano che renderle più amara e insofferibile la vita.

Trenta giorni stette in cammino, a capo dei quali giunse a Damasco, dove presentata fu al Califfo l’afflittissima giovane a nome del suo rapitore. La sofferta doglia non potè far sì, che la bellezza della giovane si fosse minorata; anzi quella passione le dava maggior grazia e la rendea più degna dell’altrui affezione. A tutti i travagli ch’ella avea già provati, e che le straziavano il cuore, si aggiunse anche l’ultimo dell’essere giudicata bella a suo dispetto.

Il Califfo, preso l’animo da tanta e così rara bellezza, ebbe in suo cuore speranza di poter fra poco tempo discacciare dal cuore di lei la tristezza. Quasi tutte le belle giovani, ch’erano divenute sua conquista, al primo apparire dinanzi a lui aveano dati segni di malinconia e di doglia; rincrescimenti che imputati da lui agli orrori della schiavitù e al dolore dell’avere abbandonati degli affettuosi parenti, gli rendevano quelle bellezze più care, nè punto temea di non averne ad ottenere vittoria.

La sontuosità del serraglio, gli atti di sommessione di una calca di schiave, sempre rivolte a colei che veniva dal principe alle altre preferita, le premure dello stesso Califfo non furono bastanti a calmare il dolore di lei, che anzi parea aumentarsi col tempo: [p. 225 modifica]onde il Califfo, che cominciava in suo cuore a sospettare di avernela a ritrovar crudele, quantunque fosse presuntuoso e si fidasse di sè, palesò il segreto dell’amor suo e le opposizioni che gli si attraversavano, alla principessa sua sorella.

Abaza, che così chiamavasi la sorella del Califfo, domandò di conoscere quell’orgogliosa bellezza che facea resistenza al padrone; ed al primo vederla non potè far sì, che non si sentisse internamente interessata per cotesta afflitta giovane che nell’aspetto tanta bontà ed ingenuità manifestava.

La principessa, che compassionevole era, si accorse di subito che il cuore di Zeineb non era in libertà, e le piacque di vedernela fedele a tal punto, che anteponesse un amante oscuro ad un principe grande, divenuto suo signore. Divennero le due giovani fra poco tempo amiche; ma non tanto però, che Zeineb si lasciasse uscire di bocca mai il segreto. Abaza, che cominciava a vedere la verità, diè per consiglio al fratello che non le usasse violenza veruna, dicendogli essere il tempo unico rimedio a quel male, da cui trovavasi Zeineb travagliata.

Se grande era la sventura che sopportava la giovane, non meno era degno di compassione il suo sfortunato amante da lei disgiunto, il quale non sapea che fosse di quella ch’era da lui amata più della sua vita. Pieno di maraviglia e quasi stupido nel giorno fatale, in cui vennero separati, per la partenza di lei, l’avea lungamente aspettata con ismania e viva impazienza; finchè oggimai disperato di più avernela a rivedere, desiderò di non più rimanere in vita. Indi a non molti dì la violenta disperazione divenne abbattimento di animo e mancamento abituato di forze: portava il suo dolore dipinto nella faccia, il quale di giorno in giorno faceasi più forte. Non meno di lui n’era dolente il padre, e già ad ogni momento credea di averne a rimaner privo: invano attese a quel giovamento che sperava dall’andare del tempo. Gli parea già di vedere con ispavento, che dolore e mancanza di [p. 226 modifica]spiriti gli avrebbero rapito l’unico suo figliuolo; quando la fama si sparse per la città della venuta di un medico eccellente e famoso. Costui sapea a perfezione la scienza dell’astronomia, della geomanzía a tutti i segreti della cabala. Noi però vedremo che più di ogni altra cosa possedea la scienza del conoscere gli uomini a fondo, e sapea ingannarli assai bene, tanto per l’interesse loro, quanto pel suo proprio.

Il valente medico non istette molto a scoprire il vero: conobbe che il languore del suo infermo non potea da altro derivare, che da una causa morale; e come colui ch’era accorto del pari che addottrinato, non durò molto a trargli il segreto dal cuore. Non era cosa facile il sapere qual fine avesse avuto una giovane, di cui sulla terra non si avea più notizia, e che sommamente importava a’ suoi rapitori di tenere occulta. Ma essendosi alla destrezza del medico combinato un accidente fortunato, sì ch’egli potè intendere quanto era avvenuto, il valentuomo seppe attribuire la scoperta sua alle occulte scienze. Dimorava in quel tempo a Cufa una femmina ebrea, la quale trafficando in giojelli e in galanterie, avea fatto viaggio per tutta l’Asia: era costei stata in Damasco introdotta più volte alla corte di Abaza, ed avea avuta commissione tanto da lei, quanto dal Califfo, di offerire alla giovane Zeineb diversi giojelli di gran pregio, ricevuti sempre da lei con indifferenza.

I segni del dolore impressi nella faccia della bella giovane non erano sfuggiti alla vista dell’Ebrea, e le frequenti sue andate al serraglio l’aveano condotta al caso di scoprire l’amor del Califfo, le ritrosie della bella schiava, e di sospettare anche, quanto la principessa Abaza, le cagioni che la rendeano ritrosa. Zeineb non avea scambiato il nome. L’Ebrea che avea delle relazioni col medico arabo, gli avea parlato di Zeineb, dell’amorosa passione del Califfo, della indifferenza di lei, e della segreta fiamma di che si credea che ardesse. Non si dee punto maravigliarsi che cotesto creduto filosofo e cotesta [p. 227 modifica]mezzana mantenessero corrispondenza insieme: queste due professioni hanno più somiglianza fra sè di quel che si crede. Il nostro chiromante e la nostra vecchia ebrea traevano tutti e due il vitto dal gabbare gli uomini, e spesso si accordavano insieme per ben riuscirvi.

Il filosofo, assicuratosi che il giovane infermo stavasi per morire d’amore di una schiava chiamata Zeineb, e che cotesta Zeineb era in Damasco, pose in ordine tutti gli apparati della geomanzía. Disegnò un globo del mondo; molti e molti punti vi segnò; e dappoich’egli ebbe consultato il sole e la luna, e articolati molti e molti barbari vocaboli, profferì con somma gravità che non sarebbe guarito mai, se prima non avesse fatto un viaggio a Damasco, nella qual città era il termine de’ suoi mali. Il cortese medico si offerì di quivi condurlo, accertandolo che gli sarebbero abbisognati i suoi consigli e l’ajuto. Il padre, a cui più grande di ogni altra disgrazia parea quella del perdere il suo figliuolo, acconsentì a tutto, colla speranza di salvargli la vita. Fece partire l’infermo giovane col suo Esculapio, e diede loro tutti que’ danari che la sua ricchezza e l’amor paterno gl’inspiravano che spendesse senza ritegno.

Giunto a Damasco il medico, meno ignorante e più ardito degli altri suoi confratelli; ebbe in breve tempo maggior concorso di tutti gli altri. Prese a fitto una bottega (perchè in Oriente i medici sogliono ad un tempo esercitare medicina e farmacia), e la guernì di molte medicine utilissime per sè e da poter nuocere a coloro che ne aveano a fare uso. Numan che passava per suo discepolo, dispensava i rimedj, e la maravigliosa bellezza del giovane allievo accresceva lo spaccio nella bottega.

La riputazione del dottore poco stette a distendersi fino al serraglio. Avea il Califfo fatta esperienza di quanti medici erano nella città per guarire dalla sua malattia la bella schiava, e per procurare di risanarla da que’ mali che non aveano che fare co’ medici. Volle l’innamorato principe un consulto anche [p. 228 modifica]da cotesto uomo che avea fama di cotanta capacità; onde mandò a lui la Kahermanè, che tanto è a dire quanto soprantendente alle donne del serraglio, detta Raziè, che ne andò al dottore, facendogli per parte del sovrano una lunga e articolata esposizione dello Stato della sua favorita. In effetto l’Arabo avea appresso di sè quella sola persona che potea risanare Zeineb. Commise al giovane Numan che andasse per una certa ampolla, e sopra una cartuccia appiccata ad esso vaso gli fece scrivere di sua mano in qual forma si avesse a fare uso del liquore in esso contenuto.

Si può ben credere che Zeineb conoscesse il carattere di Numan, nè si potrebbe mai dire quanta fu la confusione di lei alla vista di quello; e ben crebbe in doppio quando intese che lo scritto era di mano di un giovane di Cufa, bello a maraviglia, e che parea malinconico. A tali particolarità Zeineb svenne, e quando richiamò a sè gli spiriti pel soccorso prestatole da Raziè e più ancora per la virtù di quel divino liquore, tante furono le lagrime dell’amante giovane, tante le sue affrettate domande l’una dietro all’altra, e l’allegrezza che mal suo grado le si vedea in faccia, che il suo segreto fu manifesto.

La compassionevole Kahermanè deliberò di salvare Zeineb da lei veduta sempre infelice, ed a favor della quale trovavasi grandemente interessata. Ritorna Raziè alla bottega del valente speziale, ed avendo lungo tempo parlato della sua giovane inferma, del sollievo che trovato avea nel medicamento, della bellezza, della malinconia, delle grazie che fra tutte le sue compagne la rendeano distinta, del Califfo, dì cui egli non avea potuto mai riceverne il pregio, Numan che si divorava con gli orecchi quanto udía dire, svenne anch’egli dal suo lato.

Raziè che avea voluto leggere nel cuore del giovane, fu contentissima di ritrovarlo così affettuoso. Dappoichè ella ebbe ajutato il medico a soccorrerlo, gli fece comprendere di averlo inteso; e per [p. 229 modifica]raddolcire la sua doglia e dargli coraggio, gli promise quella protezione che il giovane avrebbe volentieri pagata col proprio sangue, e le si offerse di pagargliela con quante possedea facoltà al mondo.

Il primo di tutt’i beneficj dovea essere quello dell’introdurre Numan a’ piedi di colei ch’era da lui detta sua sposa. Raziè vi si accordò; la cosa fu facile con un travisamento. Numan venne vestito da fanciulla. Benchè belle e regolate fossero le fattezze di lui, non potea però la faccia, già interamente formata, essere creduta di donna: un velo che avea a coprirlo, accreditava l’impostura.

Quando giunse alla porta del serraglio, la soprintendente spianò le difficoltà che venivano fatte dagli eunuchi per ammettere colà dentro una forestiera. Passò per moglie del medico, e l’una e l’altra salirono verso una lunga sala, e Raziè, la quale per discrezione non volea essere testimonio del primo abboccamento fra i due innamorati, additò alla creduta moglie del medico le stanze di Zeineb: erano prossime a quelle della principessa Abaza. Numan tutto sossopra, essendo entrato in una fila di stanze, tutte più magnifiche l’una dell’altra, si avvide che nell’ultima eravi una donna superbamente vestita, la quale orgogliosamente domandò donde le fosse venuto l’ardimento di entrare nelle sue camere non chiamata.

Numan pieno di spavento volle proferire alquante parole, ma fu dalla voce tradito. La principessa in sospetto che il velo coprisse un maschio, glielo strappò e venne in chiaro della verità. Le crebbe in doppio lo sdegno, e già era pronta a far perire il temerario; quando egli cadendo davanti inginocchioni, le chiese per grazia di poter morire alla presenza di Zeineb ch’era la vera cagione della sua colpa: e già uscito fuori di ogni speranza di salvezza, le raccontò in breve la sua storia con ingenuità e dolore del pari, e senza mai spiccarsi dalle ginocchia della principessa, quelle tenea strettamente abbracciate.

Abaza, di animo naturalmente buono ed umano, [p. 230 modifica]prestò attentamente orecchio al racconto delle sue disgrazie, e si compiacque di avere indovinata la cagione della malinconia di Zeineb. Fece incontanente venire a sè l’innamorata giovane, presentando a lei colui che le avea fatto spargere tante lagrime. Tralasceremo di dipingere la sorpresa, il trasporto e l’allegrezza dei due giovani innamorati, i quali dappoi che ebbero passate così in compagnia molte dilettevoli ore, la principessa fattasi loro protettrice, volle apprestare loro un picciolo convito, a cui ministrassero tutte quelle schiave che a lei servivano. Numan velato a quel modo sempre, fu creduto una femmina forestiera, chiamata quivi dalla principessa per suonare un liuto da lui soavemente tocco, che era un dolcezza ad udirlo. Dopo una delicata cena, la principessa fece cantare a Zeineb certe canzonette affettuose che la malinconia le avea fatte più volte ripetere mentre che avea il suo desiderio tutto al suo lontano e caro Numan rivolto; questi accompagnava col liuto la voce della sua diletta; onde un concerto eseguito da attori che sapeano cosi bene accordarsi, parea una delizia anche a quelli che non sapeano punto nè poco quanto cotesti due virtuosi di musica provavano diletto nell’accordare in tale guisa le loro capacità di canto e di suono.

La voce soavissima di Zeineb si fece sentire di là dell’appartamento della principessa; il Califfo che passava sotto la finestra, venne arrestato da que’ tuoni che gli aveano trovata sempre la via nel cuore: entrò, e fece un piacevole rimprovero alla sorella, ch’ella nelle stanze sue si godesse sola piaceri, ai quali non volesse ammettere lui ancora.

La benefica Abaza colse 1’occasione di fare due felici ad un tratto, e di guarire il principe di una passione che a lui non potea essere altro che disgrazia. Accolse il Califfo con tutto quel rispetto che al suo sovrano dovea, e con tutta quella affezione che avea pel fratello: ella stessa colle proprie sue mani gli versò soavi liquori, e fece che dinanzi a lui le donne guidassero più danze vive e leggiadre per [p. 231 modifica]intrattenerlo e renderlo di buono umore. Poscia chiedendogli licenza di variare i divertimenti, volle che fossero narrate alcune storie da quelle delle sue femmine che aveano miglior garbo nel narrare, e vedendo Abaza che il principe prendea diletto nell’udire quelle ingegnose novelle, cominciò anch’ella, quando venne la volta sua, a raccontare in tal forma:

Signore, io sono ora per narrare alla Maestà vostra una storia, i cui strani ravvolgimenti fanno del pari orrore alla umanità ed all’amore. Un ricco mercatante di Agra avea un figliuolo ch’egli desiderava di rendere felice; gli scelse sposa che gli parve degna di lui, e la simpatía de’ giovani amanti fece fra poco vedere la buona e giusta elezione fatta dal padre. Tutti e tre si sarebbero goduti di una stabile fortuna, se un visir, uomo malvagio, il quale di altro non si curava che di appagare i desiderj di un padrone per farlo dormire fra le morbidezze, non avesse spiccata a forza la giovane sposa dal padre e dal suo amante per donarla come schiava al Sultano. Il principe di così raro tesoro possessore, se ne innamorò di subito; ma non potò mai tanto fare, che dell’amor suo avesse corrispondenza: la sua schiava, a poco a poco presso di lui resa dal dolore più morta che viva, altro non facea che desiderare quello sposo, a cui era stata rapita, nè rispondea a’ vezzi del suo signore, con altro, che colla più fredda ritrosia. Finalmente cotesto sposo che l’adorava, ritrovò la via di penetrare nella prigione dell’amata donna (imperciocchè non vi ha cosa che non sia possibile ad amore), e si godea del bene del vedere e dell’ascoltare colei, a cui avea egli consacrata la vita; quando il geloso Sultano gli colse tutti e due insieme. Non si può dire quale accesa collera gli entrasse nell’animo, vedendo in tal modo dispregiati il suo potere e l’amore: non volle giustificazioni udire, nè altro considerando in cotesti due sposi, che una schiava infedele ed uno sfacciato che avea il suo serraglio violato, sguainò il pugnale e sagrificò l’uno e l’altro alla sua vendetta. Io confesso [p. 232 modifica]che la disgrazia di queste due innocenti vittime, ricordandomela, mi empie sempre di orrore; nè credo già io che il potere di un Sultano sia superiore a quello di Amore e d’Imeneo.

Della stessa opinione sono ancor io, rispose il Sultano intenerito: noi non abbiamo legittimo potere sopra due cuori che si amano e congiunti sono da sagri legami. La moglie è del marito prima che sia di qualsivoglia altra persona, e sia qual si vuole la passione di un Sultano, essa dee cedere ad un vicendevole amore.

Imperadore de’ credenti, esclamò la principessa, voi avete pronunciata una sentenza degna della sapienza e della bontà vostra. Eccovi il marito e la moglie, de’ quali abbiamo parlato, e voi siete quel benefico principe che riparate quella ingiuria che altri volle far loro. Questa schiava, a cui non avete potuto dare nel genio, è moglie legittima di colui che vedete in un vestito che poco si affà col suo sesso. Amore e dolore gli fecero rompere le leggi del serraglio: gli perdonerete voi s’egli fu appassionato e fedele, e dell’aver creduto voi il più generoso di tutt’i principi dell’Oriente?

Numan e Zeineb tremanti e smarriti si gittarono a’ piedi del Califfo, il quale infiammato dalle lodi anticipate della sorella, non pensò più ad altro che a rendersene meritevole, facendo trionfare la fedeltà, il coraggio e la virtù di coloro che venivano dalle leggi orientali condannati a morte. Ne gli rimandò carichi di ricchi doni, senza imporre loro altra obbligazione, fuorchè quella dell’amarlo sempre, alla quale finchè vissero furono ubbidienti. Quel valente dottore che avea saputo trovare così bene la medicina alla loro malattia, fu stimato per tutta l’Arabia il medico delle anime, quanto quello dei corpi; anzi più delle prime che dei secondi.

Note

  1. Abdulmelik, figliuolo di Mervan, quinto Califfo della reale prosapia degli Ommiadi di Oriente, regnò 21 anni, e fu cognominato il Sudore della pietra, per contrassegnare la sua avarizia estrema. Era nel castello della città di Cufa, quando gli venne arrecato il capo di Masaab ribellatosi da lui. Uno de’ suoi cortigiani gli disse: Io vidi già in questo stesso castello arrecare la testa d’Hussein ad Obeidallah che lo avea vinto; quella d’Obeidallah a Moktar vincitore di lui; quella di Moktar a Masaab, e quella di Masaab alla Maestà vostra. Abdulmelik colpito e confuso da questo discorso, comandò sul fatto che fosse demolito il castello per distornare il cattivo augurio.
  2. Questi fu uno de’ più eloquenti e maggiori capitani che avessero gli Arabi. Era generale degli eserciti d’Abdulmelik, quinto Califfo della casa degli Ommiadi. Questo principe debitore del trono a lui, quando Hagiage ebbe sconfitto e fatto morire il ribelle Abdallah Zobeir che avea preso il titolo di Califfo, gli diede per premio il governo dell’Itaca arabica. Viene tassato di essere andato nella severità sì avanti, che desse nel crudele. Si accerta ch’egli avesse fatto morire centomila persone, e che quando venne a morte, ne avea cinquantamila nelle carceri. Hagiage, per iscusarsi del rigore da lui usato contro ai sudditi suoi, solea dire queste parole: Rigore non solo, ma violenza eziandio, quando si tratta di reggere popoli, si dee preferire alla debolezza: perchè quella interessa il solo particolare, questa l’universale.
         Con tutto che fosse di così rigida natura, una risposta ardita o ingegnosa gli toccava tanto il cuore, che facea grazia al reo: e molti tratti di lui in questo proposito si possono leggere nella Biblioteca orientale. Uno è questo. Kumeil, bello spirito di quei tempi, fra le molte imprecazioni che fatte avea contra Hagiage, avea detto: Diventi la sua faccia nera; espressione che in arabico significa: sia di vergogna coperto, abbia tronco il collo; spargasi il suo sangue. Vennero tali parole riferite ad Hagiage, il quale avendo domandato a Kumeil se vero fosse che proferite le avesse, questi gli rispose: Sì, ma io era allora in un giardino sotto un pergolato di viti, e considerando con dolore certi grappoli non maturi ancora, io desiderava che si affrettassero a farsi neri, perchè fossero tagliati e se ne facesse vino. Tale dichiarazione piena di prontezza, tanto diede nell’umore ad Hagiage, che annoverò Kumeil fra gli amici suoi. Non così felice fu uno strologo da lui consultato nell’ultima infermità. Avendogli costui detto per cosa certa che un gran capitano, detto Kolaib, era, secondo le sue osservazioni, minacciato di morte fra poco, Hagiage gli rispose: Ecco appunto quel nome che solea darmi la madre mia quando era fanciullo (questo nome significa cagnolino). Se al tempo della vostra puerizia aveste così fatto nome, ripigliò zoticamente lo strologo, siate certo che il fatto dimostrerà esser vera la mia predizione. Da che, rispose Hagiage, certa è la morte mia, e tu se’ così valente a leggere la cose che debbono avvenire, voglio mandarti prima di me nell’altro mondo per potermi valere di te: e comandò nello stesso tempo che l’incauto astrologo fosse fatto morire.