Rime (Cavalcanti)/Le Rime di Guido Cavalcanti/Le rime anteriori al 1290: differenze tra le versioni

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Versione delle 15:38, 3 mar 2016

Le rime anteriori al 1290

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Guido Cavalcanti - Rime (XIII secolo)
Le rime anteriori al 1290
Le Rime di Guido Cavalcanti - Il trattato d'amore Le Rime di Guido Cavalcanti - Le rime di epoca incerta
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LE RIME ANTERIORI AL 1290




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AD UN AMICO.1


Certe mie rime a te mandar volendo
     del greve stato che lo meo cor porta,
     amor m’apparve in figura morta
     4e disse: — non mandar ch’i’ ti riprendo;

però che, se l’amico è quel ch’intendo,
     e’ non avrà già sì la mente accorta,
     ch’udendo la ’ngiuliosa cosa e torta
     8che i’ ti fo tuttor soffrire ardendo,

temo non prenda sì gran smarrimento,
     ch’avanti ch’udit’ aggia tua pesanza,
     11non si diparta da la vita ’l core.

E tu conosci ben ch’i’ sono amore
     e ch’i’ ti lascio questa mia sembianza
     14e portone ciascun tuo pensamento. —

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Dante ai Poeti.


A ciascun’ alma presa e gentil core
     nel cui cospetto viene il dir presente,
     a ciò che mi riscrivan suo parvente,
     4salute in lor signor, cioè Amore.

Già eran quasi ch’atterzate l’ore
     del tempo ch’ogni stella n’è lucente,
     quando m’apparve amor subitamente
     8cui essenza membrar mi dà orrore.

Allegro mi sembrava amor, tenendo
     mio core in mano e nelle braccia avea
     11Madonna, involta in un drappo, dormendo.

Poi la svegliava e d’esto core ardendo
     lei paventosa umilmente pascea;
     14appresso gir lo ne vedea piangendo.

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Guido a Dante.


Vedeste, al mio parere, ogni valore
     e tutto gioco e quanto ben om sente,
     se foste ’n prova del signor valente,
     4che signoreggia ’l mondo de l’onore.

Poi vive in parte dove noia more
     e tien ragion ne la pietosa mente;
     sì va soave per sonni a la gente,
     8che’ cor ne porta senza far dolore.

Di voi lo core ne portò, vegendo
     che vostra donna la morte chedea:
     11nodrilla d’esto cor di ciò temendo.

Quando v’apparve che sen’ gia dolendo,
     fu ’l dolce sonno ch’allor si compiea,
     14chè ’l su’ contrario lo venia vincendo.

Dato da i codici primari Ca, Va, Ba, Ms. Quest’ultimo è il solo che mette l’uso del voi nella risposta in confronto del tu e, poi che questo sonetto è il primo scambio di conoscenza fra Dante e Guido, io ritengo Ms più originale, tanto più perchè nell’ultimo verso mette «lo venia» per «la venia» di tutti gli altri, che non dà senso. Gli errori individuali di Ms sono segnati da le differenze del suo simile A.

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a Dante.


Se vedi amore assai ti prego, Dante,
     in parte là ’ve Lapo sia presente,
     che non ti gravi di por sì la mente,
     4che mi rescrivi s’el’ il chiama amante

e se la donna li sembla avenante,
     che sì le mostra vinto fortemente;
     chè molte fiate così fatta gente
     8sol, per gravezza, d’amor far sembiante.

Tu sai che ne la corte là ’ve regna
     e’ non vi po’ servir om che sia vile
     11a donna, che là entro sia renduta.

Se la soffrenza lo servente aiuta
     può di leggier conoscer nostro stile,
     14lo quale porta di merzede insegna.

Anche questo sonetto è dato da Ca e seguaci e da Ms. Alcune forme più arcaiche («s’elli» per «se lo») qualche conservazione di iato fanno propendere per Ms. Le varianti del resto sono minime.

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a Giovanna.


Avete ’n vo’ li fiori e la verdura
     e ciò che luce od è bello a vedere:
     risplende più che ’l sol vostra figura:
     4chi vo’ non vede ma’ non po’ valere.

In questo mondo non à creatura
     sì piena di bieltà nè di piacere;
     e chi d’amor si teme, l’assicura
     8vostro bel viso, e non po’ più temere.

Le donne che vi fanno compagnia
     assa’ mi piaccion per lo vostro onore;
     11ed i’ le prego per lor cortesia

che qual più pote più vi faccia onore,
     ed aggia cara vostra segnoria,
     14perchè di tutte sete la migliore.

Ca soltanto fra i primari con i seguaci suoi.

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a Giovanna.


Chi è questa che ven ch’ogn’om la mira
     e fa tremar di chiaritate l’a’re,
     e mena seco amor sì che parlare
     4null’omo pote, ma ciascun sospira?

O Deo, che sembra quando li occhi gira
     dica’l Amor, ch’i’ no ’l savria contare:
     cotanto d’umiltà donna mi pare,
     8ch’ogn’altra ver di lei i’ la chiam’ira.

Non si poria contar la sua piagenza,
     ch’a lei s’inchina ogni gentil virtute,
     11e la beltate per sua dea la mostra.

Non fu sì alta già la mente nostra
     e non si pose in noi tanta salute,
     14che propriamente n’aviam canoscenza.

Originali sono Va e Ca. Io ritengo, a differenza dell’Ercole, la lezione di Va come quella che appare molto più pura. Ca infatti ha qualche verso contro misura (v. 14). Al v. 5 il «de» è dato dai suoi seguaci come «do» quindi parrebbe riferito al «deo» di Va. Al v. 6 Va dà «savria» in confronto di «poria» che poi sarebbe quindi ripetuto al v. 9. Così al v. 13 è salvata con la versione di Va la ripetizione della rima «vertute» che è in Ca: Guido evitava le rime equivoche simili. Quanto al v. 4 Ca dà una forma contro misura e l’Ercole si servì della correzione molto discutibile criticamente dei codici secondari. La forma invece del verso è completa in Va e l’espressione «null’omo» ha altrettanto valore per testimonianze arcaiche quanto il «om» di simiglianza francese.

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a Giovanna.


Beltà di donna di piagente core,
     e cavalieri armati che sian genti,
     cantar d’augelli, e ragionar d’amore,
     4adorni legni in mar forte correnti,

aire sereno quand’appar l’albore,
     e bianca neve scender senza venti,
     rivera d’acqua, e prato d’ogni fiore,
     8oro, argento, azzurro in ornamenti,

passa la gran beltate e la piagenza
     de la mia donna e ’l suo gentil coraggio
     11sì, che rassembra vile a chi ciò sguarda.

E tanto è più d’ogn’altra canoscenza
     quanto lo cielo de la terra è maggio.
     14A simil di natura ben non tarda.

Li antichissimo è puro contro tutti gli altri. Gli si avvicina soltanto e quasi totalmente Ms; il che ci conferma nella fiducia mostrata a questo codice per le altre rime. Non si comprende come il prof. Ercole, pur ritenendo la lezione di Li, non l’abbia data in tutta la sua purezza, inquinandola con lezioni secondarie di altri codici.

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A Giovanna.


     Fresca rosa novella,
piacente primavera,
3per prata e per rivera
gaiamente cantando,
vostro fin pregio mando a la verdura.

     6Lo vostro pregio fino
in gio’ si rinovelli
da grandi e da zitelli
9per ciascuno cammino.
E cantine li augelli,
ciascuno in suo latino,
12da sera e da matino
su li verdi arbuscielli.
Tutto lo mondo canti,
15po’ che lo tempo vene,
si come si convene,
vostr’altezza pregiata;
18chè siete angelicata criatura.

     Angelica sembianza
in voi, donna, riposa.
21Dio! quanto aventurosa
fue la mia disianza!

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Vostra cera gioiosa,
24poi che passa ed avanza
natura e costumanza,
ben è mirabil cosa.
27Fra lor le donne dea
vi chiaman come siete;
tanto adorna parete
30ch’eo non saccio contare;
e chi porla pensare oltr’a natura?

     Oltr’a natura umana
33vostra fina piagenza
fece Dio, per essenza
che voi foste sovrana.
36Perchè vostra parvenza
ver me non sia lontana,
or no mi sia villana
39la dolce provedenza.
E, se vi pare oltraggio
ch’ad amarvi sia dato,
42non sia da voi blasmato,
chè solo amor mi sforza,
contr’a cui non vai forza nè misura.

Ca solo ha la giusta attribuzione: pure è molto vicino nell’origine a Pe: c’è l’abbandono dell’uso del k disceso da Pe in Va: più alcune specialità ortografiche e glottologiche quali: ck gh e lo scioglimento di e in ie come: arbuscielli.

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a Giovanna.


Io vidi li occhi, dove Amor si mise
     quando mi fece di sè pauroso,
     che mi guardar com’io fosse noioso:
     4allora dico che ’l cor si divise.

E, se non fosse che la donna rise,
     io parlerei di tal guisa doglioso
     ch’amor medesimo farla cruccioso,
     8che fè lo inmaginar che mi conquise.

Dal ciel si mosse un spirito in quel punto,
     che quella donna mi degnò guardare,
     11e vennesi a posar nel mio pensero.

E lì mi conta si d’amore il vero,
     che ogni sua virtù veder mi pare
     14sì, com’io fosse ne lo suo cor giunto.

Originali Va ed Re; più autorevole Va

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a Giovanna.


Li miei foll’occhi, che prima guardaro
     vostra figura piena di valore,
     fuor quei che di voi, donna, m’acusaro
     4nel fero loco, ove ten corte amore.

E mantenente avanti lui mostraro
     ch’io era fatto vostro servidore;
     perchè sospiri e dolor mi pigliaro
     8vedendo che temenza avea lo core.

Menarmi tosto senza riposanza
     in una parte, là ’v’i’ trovai gente
     11che ciascun si doleva d’amor forte.

Quando mi vider, tutti con pietanza
     dissermi: — fatto se’ di tal servente
     14che mai non dei sperare altro che morte. —

Codici originali Va, Ba, con minime differenze e prevalente correzione in Va.

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per Giovanna.


Io vidi donne co’ la donna mia:
     non che neuna mi sembrasse donna,
     3ma sol che somigliavan la sua ombria.

Già no le lodo, se non perch’è ’l vero,
     e non biasimo lei se m’intendete;
     6ma ragionando movesi un pensero
     a dir: — tosto, miei spiriti, morrete. —
     Crude’, veggendo se me non piangete!
     9Chè, stando nel penser, li occhi fan via
     a lagrime del cor, che no la oblia.

Solo Ca originale; avvicino la sua ortografia a quella del Vaticano 3793 e dei più autorevoli testimoni dell’antica grafia.

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Canzone.2


Io non pensava che lo cor già mai
     avesse di sospir tormento tanto,
     che de l’anima mia nascesse pianto,
     mostrando per lo viso li occhi morte.
     5Non sent’i’ pace nè riposo alquanto,
     poscia ch’amore e madonna trovai,
     lo qual mi disse: — tu non camperai,
     che troppo è lo valor di costei forte. —
     La mia virtù si partio sconsolata,
     10poi che lasciò lo core
     a la battaglia ove madonna è stata:
     la qual de li occhi suoi venne a ferire
     di tal guisa, ch’amore
     ruppe tutt’i miei spiriti a fuggire.

15Di questa donna non si può contare;
     chè di tante bellezze adorna vene,
     che mente di qua giù no la sostene

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     sì, che la veggia lo ’ntelletto nostro.
     Tant’è gentil che, quand’io penso bene,
     20l’anima sento per lo cor tremare,
     sì come quella che non può durare
     davante al gran valore ch’io le mostro.3
     Per li occhi fere la sua claritate
     sì, che quale mi vede
     25dice: — non guardi tu? quest’è pietate,
     ch’è posta invece di persona morta
     per dimandar mercede,
     e non se n’è madonna ancòra accorta. —

Quando ’l penser mi ven, ch’io voglia dire
     30a gentil core de la sua vertute,
     i’ trovo me di sì poca salute
     ch’io non ardisco di star nel pensero.
     Ch’amor, ch’à le bellezze sue vedute,4
     mi sbigottisce sì, che sofferire
     35non può lo cor, sentendola venire;
     chè sospirando dice: — io ti dispero;
     però che trasse del suo dolce riso
     una saetta aguta,
     ch’à passato ’l tuo core e ’l mio diviso.
     40Tu sai quando venisti ch’io ti dissi:5
     — poi che l’avei veduta,
     per forza convenia che tu morissi. —

Canzon, tu sai che de’ libri d’amore
     io t’asemplai quando madonna vidi:
     45ora ti piaccia ch’i’ di te mi fidi,
     e vadi ’n guisa a lei ch’ella t’ascolti.
     E prego umilemente a lei tu guidi

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     li spiriti fuggiti del mio core,
     per lo soverchio de lo suo valore
     50ch’eran distrutti, se non fosser volti:
     e vanno soli senza compagnia
     e son pien di paura.
     Però li mena per fidata via
     e poi li dì quando li se’ presente:
     55— Questi sono in figura
     d’un che si more isbigottitamente. —


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Dante a Guido.


Guido, vorrei che tu e Lapo ed io
     fossimo presi per incantamento
     e messi in un vascel ch’ad ogni vento
     4per mare andasse a voler vostro e mio,

sì che fortuna ed altro tempo rio
     non ci potesse dare impedimento:
     anzi, vivendo sempre in un talento,
     8di stare insieme crescesse il disio.

E monna Vanna e monna Bice poi
     con quella ch’è sul numero del trenta
     11con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
     e ciascuna di lor fosse contenta
     14si come io credo che sariamo noi.

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a Dante.


S’io fossi quelli che d’amor fu degno,
     del qual non trovo sol che rimembranza,
     e la donna tenesse altra sembianza,
     4assai mi piaceria sì fatto segno.

E tu che se’ de l’amoroso regno,
     là onde di merzè nascie speranza,
     riguarda se ’l mio spirito à pesanza,
     8ch’un prest’arcier di lui à fatto segno.

E tragge l’arco che li tese amore
     sì lietamente, che la sua persona
     11par che di gioco porti signoria.

Or odi maraviglia che ’l disia:
     lo spirito fedito li perdona
     14vedendo che li strugge il suo valore.

Va più originale dell’arbitrario Md.

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Ballata.


Se m’à del tutto obliato merzede
     già però fede — il cor non abandona;
     3anzi ragiona — di servire a grato
     al dispietato — core.
     E qual si sente simil me’ ciò crede;
     6ma chi tal vede? — certo non persona;
     ch’amor mi dona — spirito ’n su’ stato,
     che figurato — more.
     9Chè, quando lo piacer mi stringe tanto
     che lo sospir si mova,
     par che nel cor mi piova
     12un dolce amor sì bono,
     ch’io dico: — donna, tutto vostro sono.

Ca e vari gruppi di seguaci ed Rb rappresentante altre origini. Uniti nel verso 5 a smentire la lezione dell’Ercole, lezione tarda ed arbitraria di Cb. Il v. 9 esce dal confronto di Ca, cui manca una sillaba, ed Rb, il quale ultimo ha però qua e là qualche variante strana e poco giustificata. Totalmente le differenze sono ben lievi.

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A Dante.


Dante, un sospiro messagier del core
     subitamente m’assalì dormendo,
     ed io mi risvegliai allor, temendo
     4ched elli fosse in compagnia d’amore.

Poi mi girai e vidi ’l servidore
     di monna Lagia, che venia dicendo:
     — aiutami, pietà — sì che piangendo
     8i’ presi di mercè tanto valore,

ch’io giunsi amore ch’afilava dardi.
     Allor lo domandai del suo tormento
     11ed elli mi rispose in questa guisa:

— Dì al servente che la donna è prisa
     e tengola per far suo piacimento:
     14e se no ’l crede dì ch’a li occhi guardi. —

Codici di autorità Va, Mr, Ms. Preferibile quest’ultimo, perchè altra volta se ne vide la purezza e perchè concilia la lezione evidentemente non errata individualmente degli altri due codici.

[p. 122 modifica]

Sonetto dell’Orlandi

che diede origine alla canzone


Onde si move e donde nasce amore?
qual è ’l su’ propio loco ov’e’ dimora?
è sustanzia, accidente o memora?
4è cagion d’occhi o è voler di core?

da che procede suo stato o furore?
come foco si sente che divora?
di che si notrica domand’io ancora,
8come e quando e di cui si fa segnore?

che cosa è, dico, amor? ae figura?
à per sè forma o pur somiglia altrui?
11è vita questo amore o vero è morte?

Chi ’l serve dee saver di sua natura:
io ne domando voi, Guido, di lui:
14odo che molto usate in la sua corte.

[p. 123 modifica]

Canzone.


     Donna mi6 prega perch’io voglio7 dire
d’un accidente che sovente è fero
ed è sì altero - ch’è chiamato amore.
Sì chi lo nega possa ’l ver sentire.
5Ed, a presente8, canoscente chero,
perch’io no spero - ch’om di basso core
a tal ragione porti canoscenza:
che senza - natural dimostramento
non ò talento - di voler provare
10là ove9 posa e chi lo fa creare10,
e qual è sua vertute e sua potenza,

[p. 124 modifica]

l’essenza, - poi ciascun suo movimento,
e ’l piacimento - che ’l fa dire amare
e s’omo per veder lo po’ mostrare.

     15In quella parte dove sta memora
prende suo stato, sì formato come
diaffan da lume, - d’una scuritate
la qual da Marte vene e fa dimora.
Elli è creato ed à11 sensato nome,
20d’alma costume12 - e di cor volontate.
Ven da veduta forma che s’intende,
che prende - nel possibile intelletto
come ’n subietto - loco e dimoranza.
In quella parte mai non à pesanza
25perchè da qualitate non descende:
resplende - in sè perpetuale effetto;
non à diletto, - ma consideranza;
sì che non potè là gir13 simiglianza.

     Non è vertute, ma da quella vene
30ch’è perfezione, che si pone tale
non razionale -, ma che sente dico.
For di salute giudicar mantene,
chè la ’ntenzione per ragione vale.
Discerne male - in cui è vizio amico.
35Di sua potenza segue spesso morte
se forte - la vertù fosse impedita,
la quale aita14 - la contraria via,
non perchè oppost’a naturale sia15;
ma quanto che da buon perfetto tort’è

[p. 125 modifica]

40per sorte - non po’ dire om c’aggia vita
che stabilita - non à segnoria:
a simel po’ valer quand’16om l’oblia.

     L’esser è quando lo voler è tanto
ch’oltra misura di natura torna:17
45poi non s’adorna - di riposo mai.
Move cangiando color riso e pianto
e la figura con paura storna:
poco soggiorna: - ancor di lui vedrai
che ’n gente di valor lo più si trova.
50La nova - qualità move sospiri18
e vol ch’om miri - in non fermato19 loco
destandos’ira, la qual manda foco.
Imaginar non pote20 om che no ’l prova.
Nè mova - già però ch’a lui si tiri
55e non si giri - per trovarvi gioco
nè certamente gran saver nè poco.

     De simil trage complexione sguardo
che fa parere lo piacere certo:
non po’ coverto - star quand’è sì giunto21.
60Non già selvaggio le beltà son dardo,
chè tal volere per temer è sperto:
consegue merto - spirito ch’è punto.

[p. 126 modifica]

E non si po’ conoscer per lo viso:
c’om priso - bianco in tale obietto cade,
65e chi ben aude - forma non si vede.
Dunqu’elli meno che da lui procede22:
for di colore d’esser è diviso,
assiso - mezzo scuro luce rade:
for d’onne 23 fraude - dice, degno in fede,
70che solo di24 costui nasce mercede.

     Tu poi sicuramente gir, canzone,
là ’ve25 ti piace, ch’io t’ò sì adornata
ch’assai laudata - sarà tua ragione
da le persone - ch’anno intendimento:
75di star con l’altre tu non ài talento.

[p. 127 modifica]

A Guido Orlandi.


La bella donna, dove amor si mostra
     ch’è tanto di valor pleno ed adorno,
     tragge lo cor de la persona vostra
     4e prende vita in far con lei soggiorno.

Perch’à sì dolce guardia la sua chiostra
     che ’l sente in India ciascun lunicorno:
     e la vertù de l’arma à fera giostra:
     8vizio pos dir no i fa crudel ritorno.

Ch’ell’è per certo di sì gran valenza,
     che già non manca in lei cosa da bene,
     11ma’ che natura la creò mortale. *

Poi mostra che ’n ciò mise provedenza
     ch’al vostro intendimento si convene
     14far perconoscer quel ch’à lui sia tale.

Ca e Va codd. autorevoli Non intendo perchè l’Ercole sia andato a ricercare un commento tanto strano a questo sonetto. Mi pare sia facile intenderlo. Mantenendo la forma intatta di Ca, io leggo così i versi 7 ed 8, mettendo «arma» per «alma» di Va con il comunissimo scambio delle liquide da «an’ma». Interpreto: «la virtù dell'anima nella vergine sostiene fiero combattimento, ma puoi o posso dire che il vizio non vi fa crudel ritorno».

* Così Va: il «creatura» dà senso più scarso e più facilmente appare correzione di «ma che natura» di non facile interpetrazione, piuttosto che il contrario. Il senso ne acquista così: «Ella ha ogni cosa perfetta, fuor che natura la creò mortale: pure anche in ciò mise una provvidenza».

[p. 128 modifica]

Guido Orlandi rispose con il sonetto:


A suon di trombe anzi che di corno,
     vorria di fin amor far una mostra
     d’armati cavalier di Pasqua un giorno,
     4e navicare sanza tiro d’ostra

ver la gioiosa garda, girle intorno
     a sua difensa, non cherendo giostra,
     a te, che se’ di gentilezza adorno,
     8dicendo il ver perch’i’ ò la donna nostra.

Jesu ne prego con gran riverenza
     per quella di cui spesso mi sovene,
     11che a lo su’ sire sempre stea leale,

servando in sè l’onor come s’avene;
     viva con Deo, che ne sostene ed ale,
     14nè mai da lui non faccia dipartenza.

[p. 129 modifica]

Sonetto.


Amore e monna Lagia e Guido ed io
     possiamo ringraziare un ser costui
     che ’nd’à partiti... sapete da cui?
     4No ’l vo’ contar per averlo in oblio.

Poi questi tre più no v’ànno disio,
     ch’eran serventi di tal guisa in lui,
     che veramente più di lor non fui
     8imaginando ch’elli fosse Iddio.

Sia ringraziato amor, che se n'accorse
     primeramente, poi la donna saggia
     11che in quel punto li ritolse il core:

e Guido ancor che n’è del tutto fore,
     ed io ancor, che ’n sua virtute caggia:
     14se poi mi piacque no ’l si crede forse.

Ca e discendenti ed Ms. Le differenze sono minime: solo al v. 8 Ms: dà per «elle» di Ca un «lui» che non vale come soggetto: ma che però dinota una tradizione favorevole al maschile. E’ facile quindi mutare in «elli» la versione di Ca.

[p. 130 modifica]

Ballata.


Poi che di doglia cor conven ch’i’ porti,
     e senta di piacere ardente foco,
     e di virtù mi traggo a sì vil loco,
     dirò com’ò perduto ogni valore.
     E dico che i miei spiriti son morti
     e ’l cor ch’à tanta guerra e vita poco;
     e se non fosse che ’l morir m’è gioco
     fare’ ne di pietà pianger amore.

Ma per lo folle tempo che m’à giunto,
     mi cangio di mia ferma oppinione
     in altrui condizione
     sì, ch’io non mostro quanto sento affanno
     là ’nd’io ricevo inganno;
     che dentro da lo cor mi passa amanza
     che se ne porta tutta mia possanza.


Ca e Va con differenze minime.

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l’Orlandi a Guido.


Per troppa sottiglianza il fil si rompe
     e ’l grosso ferma l’arcone al tenero:
     e, se la sguarda non dirizza al vero,
     in te forse t’avven, che se ripompe.

E qual non pone ben dritto lo sompe,
     traballa spesso non languendo intero
     . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
     . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Ch’amor sincero non piange nè ride:
     in ciò conduce spesso uomo o fema,
     per segnoraggio prende e divide.

E tu ’l feristi e nolli parla sema.
     Ovidio leggi; più di te ne vide.
     Dal mio balestro guarda ed aggi tema.

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a Guido Orlandi.


Di vil matera mi conven parlare,
     perdere rime sillabe e sonetto
     sì, ch’a me stesso giuro ed imprometto
     a tal voler per modo legge dare.

Perchè sacciate balestra legare
     e coglier con isquadra archile in tetto
     e certe fiate aggiate Ovidio letto
     e trar quadrelli e false rime usare,

non po’ venire per la vostra mente,
     là dove insegna amor sottile e piano,
     di sua manera dire e di su’ stato.

Già non è cosa che si porti in mano:
     qual che voi siate, egli è d’un’altra gente:
     sol al parlar si vede chi v’è stato.

Già non vi toccò lo sonetto primo:
     amore à fabbricato ciò ch’io limo.

Unico Va.

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risposta dell’Orlandi a Guido.


Amico, i’ saccio ben che sa’ limare
     con punta lata maglia di coretto,
     di palo in frasca come uccel volare,
     con grande ingegno gir per loco stretto,

e largamente prendere e donare,
     salvar lo guadagnato (ciò m’è detto)
     accoglier gente, terra guadagnare:
     in te non trovo mai ch’uno difetto,

che vai dicendo in tra la savia gente,
     faresti Amore piangere in tuo stato.
     Non credo: poi non vede: quest’è piano.

E ben di’ ’l ver che non si porta in mano:
     anzi per passïon punge la mente
     dell’omo ch’ama e non si trova amato.

Io per lung’uso disusai lo primo
     amor carnale: non tangio nel limo.

  1. Origini vicine di Ca, Va, Cap1.
  2. Originali Ca e Mart. Quest’ultimo ha una lezione più completa e chiara. Al verso 4 Mart dà «li occhi» per «a li occhi» di Ca con molto maggior chiarezza.
  3. Accetto questa versione di Mart per il senso generale: «Quando io penso bene, sento che l’anima trema, poichè essa non può resistere al grande valore ch’io le mostro con il pensiero».
  4. Ca manca di «ch» iniziale del verso: ommette talvolta la prima sillaba come al v. 46.
  5. Essendo Mart mancante per misura devesi accettare la lezione di Ca, che anche corrisponde meglio al senso dell’intera strofa.
  6. me, eo di Ca sembrano tendenze speciali di questo codice e sono forme estranee a la vulgata toscana (Caix) Eo è forma antiquata de’ tempi di Guittone, ristabilita più tardi nell’uso dei copisti. In Vd e tonico o secondario esce quasi sempre in i.
  7. vollia: Mart mentre in Ba: voglio. L’uso del cong. per l’ind. appare come facile modificazione di una uscita poco comune e che poteva sembrare sgrammaticata. L’uso del doppio l è grafia molto arcaica, prossima a la metà del dugento, specie nel Pal. 418. Il non trovarla mai in Vd porta ad escluderla, poichè sembra anche una specialità di Mart. es: dollia, battallia etc.
  8. Così esce dal confronto di Ca - ed al - Cap1 - ed a - Mart. - ond a ossia dall’unione degli avversi Cap1, Mart, in quella forma non comune a: escludendo l’ond di Mart. che appare correzione nel commento di frate Egidio (Pasqualigo, op. cit.).
  9. Mart. - la ove si: correzione per l’apparente mancanza metrica: lo prova Ba con la ove. Così per evitare l’iato Ca - la dove. Le forme: la ove, là ve sono le più comuni in questa età. (Vedi Caix e Vd) e ben è facile, una sostituzione di dove per la ve.
  10. Mart: criare. È questa una tendenza speciale all’iotazione in questo codice: esempio: baillia, dichi, chieggia, ricomando, troverite, onniora, dimandare, sbiguttiscie, ecc.
  11. Preferibile questa lezione di Ca a quella di Mart: da, che non ha senso ed è in relazione al commento del Colonna, di cui si vide alcuna influenza su Mart per il v. 5.
  12. L’unione di tutti i codici primari fa credere che si ritenesse buona questa rima.
  13. Dal confronto: la gire - Ca, largir - Mart, Cap1, la ire - Ba, essendo il la gire in Ca una conseguenza metrica di po per pote e rivelando Ba la cattiva interpetrazione sua e di Mart sopra un originale comune: la gir o la gire contro misura.
  14. Mart: ita a la contro misura, modificazione di un ita la dato da Ca che non ha senso.
  15. Così io credo dover ricostruire questo verso, tanto martoriato dai copisti, sul confronto di: non perchè opposto naturale sia - Mart - non perchè opposta natural sia - Ca. Con questa sola ricostruzione, che non mi sembra arbitrariamente congetturale, esce il significato.
  16. quanto di Mart è nel commento del Colonna.
  17. Dal confronto:
    Ca: coltra misura di — Ba: choltre misura di — Mart: oltra misura di escludendo la lezione di Cap1: fuor di natura di misura che risente delle modificazioni dei commenti.
  18. a sospiri di Mart, Ba, appare una immissione non razionale, perchè in tutta l’espressione dello stil nuovo i sospiri sono concepiti come viventi di vita propria, escludendo dal soggetto da cui movono.
  19. Così Mart. La lezione di Ca «formato» non assicurata da Cap1 è nel comm. del Colonna. Se quindi Mart, che pur ne risente, mantenne «fermato» vuol dire che così portava la origine sua.
  20. nol po in Ba contro misura fu corretto da Mart con un lom per hom. Ca, ricopiatore esatto anche degli errori, qui è regolare. Pote di Ca evita la cacofonia delle due sillabe po om e trova largo riscontro in Vd. Nè in Ca era consueta la distensione della forma: po in pote. Vedi v. 28.
  21. Dal confronto delle lezioni: quando se gionto - Mart, quand e si giunto - Ba; con le quali si completa, non po’ choverto star si giunto - Ca: che ha la garanzia di Cap1: non po’ choverto star quand’è.
  22. Il perchè di Ba e Mart risente del solito commento. Da quel i meno è evidente errore di Ca, raddrizzato da Cap1 : dunquelli meno: sono probabilmente varie letture di un originale paleografico du queli meno. La forma elli è comunissima in Vd.
  23. Per la tendenza di Vd (v. anche Caix) propendo per onni di Mart: ma poichè Ba, Ca - ongne, data la tendenza a l’iotazione di Mart, ritengo la forma: onne.
  24. Più proprio del da di Ba Mart è il di di Ca, Cap1, come quello che, nell'uso trecentistico, meglio esprimeva una derivazione o provenienza ideale.
  25. Il la vi te di Mart è una evidente cattiva trascrizione di la ve ti che si muta in Ba in dove ti, Ca: ove ti e Cap1: la ove ti. Si deve quindi ammettere che Ca abbia tralasciato quel la che sembrava soverchio a la misura mantenendo l’ove e che Ba abbia letto dove un originale lave.