Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.1.djvu/149: differenze tra le versioni

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filosofia ha diritto di cercarne le prove. E la prova che più gli fa colpo è il consenso di tutti gli uomini, riconoscendo un legame fra lo spirito divino e umano. Ma la religione è per lui ancora uno spediente sociale, cui per altro dee servire di fondamento una certa verità generale, la quale non è bene far conoscere al popolo, giacchè non conduce che al dubbio. L’anima umana è una parte della divina: si manifesta mediante l’attività sua, come la divinità; come questa, dovrebb’essere immortale. Siffatta è la credenza del genere umano; ma le pene del Tartaro sono fole da donnicciuola. Barcollando fra opinioni altrui, conosce l’errore delle vulgari credenze, ma con esse confonde spesso i dogmi più essenziali, fin l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima<ref>La conchiusione del trattato sulla Natura degli Dei è: «Ita discessimus ut Vellejo Cottæ disputatio verior, mihi Balbi ad veritatis similitudinem videretur esse propensior».</ref>. Queste sostiene se il cuor suo ha bisogno di consolarsi della defunta figliuola, o se gli giovano per difendere Rabirio; per difendere Cluenzio invece professa che colla tomba finisce tutto<ref>69</ref>; e dice che agli Dei si domandano i beni esterni, non la virtù, nè alcun mai pensò a ringraziar gli Dei d’esser galantuomo<ref>70</ref>. Tal era lo scetticismo de’ contemporanei suoi. Cesare, pontefice massimo, proferì in pien senato che la morte è il fine dei
filosofia ha diritto di cercarne le prove. E la prova che più gli fa colpo è il consenso di tutti gli uomini, riconoscendo un legame fra lo spirito divino e umano. Ma la religione è per lui ancora uno spediente sociale, cui per altro dee servire di fondamento una certa verità generale, la quale non è bene far conoscere al popolo, giacchè non conduce che al dubbio. L’anima umana è una parte della divina: si manifesta mediante l’attività sua, come la divinità; come questa, dovrebb’essere immortale. Siffatta è la credenza del genere umano; ma le pene del Tartaro sono fole da donnicciuola. Barcollando fra opinioni altrui, conosce l’errore delle vulgari credenze, ma con esse confonde spesso i dogmi più essenziali, fin l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima<ref>La conchiusione del trattato sulla Natura degli Dei è: «Ita discessimus ut Vellejo Cottæ disputatio verior, mihi Balbi ad veritatis similitudinem videretur esse propensior».</ref>. Queste sostiene se il cuor suo ha bisogno di consolarsi della defunta figliuola, o se gli giovano per difendere Rabirio; per difendere Cluenzio invece professa che colla tomba finisce tutto<ref>«Sæpissime et legi et audivi, nihil mali esse in morte, in qua si resideat sensus, immortalitas illa potius quam mors ducenda est; sin sit amissus, nulla videri miseria debeat quæ non sentiatur». ''Ad fam''. V, 16. — Una ratio videtur, quidquid evenerit ferre moderate, præisertiæ cum omnium rerum mors sit extremum» . Ivi, VI, 2. — «Sed de illa.... sors viderit, aut siquis est qui curet Deus». ''Ad Attico'', IV, 10. Poi in piena udienza (''pro Cluentio'', 61) diceva: — Si quid animi ac virtutis habuisset, mortem sibi conscisset. Nam nunc quidem quid tandem illi mali mors attulit? nisi forte fabulis ac ineptiis ducimur, ut existimemus illum apud inferos impiorum supplicia perferre .... Quæ si falsa sunt, id quod omnes intelligunt, quid ei tandem aliud mors eripuit præter sensum doloris?» ''Pro Rabirio'' dice il preciso opposto.</ref>; e dice che agli Dei si domandano i beni esterni, non la virtù, nè alcun mai pensò a ringraziar gli Dei d’esser galantuomo<ref name="p129">Lo mette in bocca a Cotta: «Omnes mortales sic habent, externas commoditates a Diis se habere: virtutem autem nemo unquam accepium Deo retulit. Num quis quod bonus vir esset, gratias Diis egit nunquam?» ''De nat Deorim''. E {{Wl|Q6197|{{Sc|Orazio}}}}, ''Ep''. I, 18:
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(68) (69) «Sæpissime et legi et audivi, nihil mali esse in morte, in qua si resideat sensus, immortalitas illa potius quam mors ducenda est; sin sit amissus, nulla videri miseria debeat quæ non sentiatur». ''Ad fam''. V, 16. — Una ratio videtur, quidquid evenerit ferre moderate, præisertiæ conchiusione del trattato sulla Natura degli Dei è: «Ita discessimus ut Vellejo Cottæ disputatio verior, mihi Balbi ad veritatis similitudinem videretur esse propensior». cum omnium rerum mors sit exlre• raum» . Ivi, VI, 2. — «Sed de illa.. .. sors viderit, aut siquis est qui curet Deus». Ad Attico, IV, 10. Poi in piena udienza (prò Cluentio, 6i) diceva: — Si quid animi • ac virtutis habuisset, mortem sibi conscisset. Nam nunc quidem quid tandem illi • mali mors attulit? nisi forte fabulis ac ineptiis ducimur, ut existimemus ilium apud • inferos impiorum supplicia perferre .... Quae si falsa sunt, id quod omnes inlelli« gunt, quid ei tandem aliud mors eripuit praìter sensum doloris?» Pro Rabirio dice il preciso opposto. (70) Lo mette in bocca a Cotta: Omnes mortales sic habent, externas commo• ditates a Diis se habere: virtulem autem nemo unquam accepium Deo retulit. Num «quis quod bonus vir esset, gratias Diis egit nunquam?» De nat Deorim. E Orazio, Ep. I, 18: IIcCc salis est orare Jovem quae ponit et aufert: Det vitam, del opes: jequum mi animum ipse parabo. Questo sottrarre a Giove la direzione delle coscienze trovasi pure nel devolo Tito Livio, che fa dire a Scipione (XXXVII, 45): — Romani ex iis, quai in Deuni immorCantù — Illustri italiani, voi. I. 9
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Versione delle 17:41, 13 nov 2017


Cicerone 129

filosofia ha diritto di cercarne le prove. E la prova che più gli fa colpo è il consenso di tutti gli uomini, riconoscendo un legame fra lo spirito divino e umano. Ma la religione è per lui ancora uno spediente sociale, cui per altro dee servire di fondamento una certa verità generale, la quale non è bene far conoscere al popolo, giacchè non conduce che al dubbio. L’anima umana è una parte della divina: si manifesta mediante l’attività sua, come la divinità; come questa, dovrebb’essere immortale. Siffatta è la credenza del genere umano; ma le pene del Tartaro sono fole da donnicciuola. Barcollando fra opinioni altrui, conosce l’errore delle vulgari credenze, ma con esse confonde spesso i dogmi più essenziali, fin l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima1. Queste sostiene se il cuor suo ha bisogno di consolarsi della defunta figliuola, o se gli giovano per difendere Rabirio; per difendere Cluenzio invece professa che colla tomba finisce tutto2; e dice che agli Dei si domandano i beni esterni, non la virtù, nè alcun mai pensò a ringraziar gli Dei d’esser galantuomo3. Tal era lo scetticismo de’ contemporanei suoi. Cesare, pontefice massimo, proferì in pien senato che la morte è il fine dei

  1. La conchiusione del trattato sulla Natura degli Dei è: «Ita discessimus ut Vellejo Cottæ disputatio verior, mihi Balbi ad veritatis similitudinem videretur esse propensior».
  2. «Sæpissime et legi et audivi, nihil mali esse in morte, in qua si resideat sensus, immortalitas illa potius quam mors ducenda est; sin sit amissus, nulla videri miseria debeat quæ non sentiatur». Ad fam. V, 16. — Una ratio videtur, quidquid evenerit ferre moderate, præisertiæ cum omnium rerum mors sit extremum» . Ivi, VI, 2. — «Sed de illa.... sors viderit, aut siquis est qui curet Deus». Ad Attico, IV, 10. Poi in piena udienza (pro Cluentio, 61) diceva: — Si quid animi ac virtutis habuisset, mortem sibi conscisset. Nam nunc quidem quid tandem illi mali mors attulit? nisi forte fabulis ac ineptiis ducimur, ut existimemus illum apud inferos impiorum supplicia perferre .... Quæ si falsa sunt, id quod omnes intelligunt, quid ei tandem aliud mors eripuit præter sensum doloris?» Pro Rabirio dice il preciso opposto.
  3. Lo mette in bocca a Cotta: «Omnes mortales sic habent, externas commoditates a Diis se habere: virtutem autem nemo unquam accepium Deo retulit. Num quis quod bonus vir esset, gratias Diis egit nunquam?» De nat Deorim. E Orazio, Ep. I, 18:

                   Haec salis est orare Jovem quae ponit et aufert:
                   Det vitam, det opes: æquum mi animum ipse parabo.

    Questo sottrarre a Giove la direzione delle coscienze trovasi pure nel devoto Tito Livio, che fa dire a Scipione (XXXVII, 45): — Romani ex iis, quæ in Deum immor-

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