Delle antiche Relazioni fra Venezia e Ravenna/Capitolo I: differenze tra le versioni

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Introduzione Capitolo II


[p. 38 modifica] Origini di Ravenna. nelle vaste lagune che si stendeano fra il mare libero e le spiagge delle antiche Venezie. Le origini di Ravenna sono ignote: v’ebbe chi la disse fondata 912 anni innanzi che Roma fosse; secondo Dionigi d’Alicarnasso, sorgeva già sette generazioni innanzi alla guerra di Troja; Strabone la dice edificata dai Tessali, ai quali succedettero gli Umbri o Sabini. Certo è che poscia l’ebbero i Galli e che la fecero capitale della Gallia Cisalpina, e finalmente i Romani (187 av. G. C.) i quali le lasciarono libero municipio.

Ma le isolette venete più lontane di Ravenna alla terraferma non furono occupate dai Galli; anzi è da credere che fossero sin d’allora asilo a quanti fuggivano dinanzi alle invasioni barbariche: poscia molti v’accorsero dalle vicine città di terraferma cercandovi guadagno, e così con l’andare de’ tempi divennero popolose e fiorenti.


Origine dei Veneti secondo i Romani E Venezia era per i Romani quella parte d’Italia, che limitata dalla curva spiaggia dell’Adriatico, dall’Istria girava sino a Ravenna. Sub Venetiae nomine, dice Plinio, comprehenditur omnis regio ah Hystria secundum maritumam oram usque ad Ravennam. Era appo i medesimi cosa universalmente creduta che i Veneti fossero discendenti di quegli Eneti che aveano seguito Antenore dopo la caduta di Troja; ed i poeti ai quali tornò sempre meglio di cantare le popolari credenze piuttosto che le contrastate opinioni dei dotti, vi alludevano liberamente. Così Virgilio ripetendolo nel primo libro dell’Eneadi, sapeva di essere inteso da ognuno, così Tito Livio, ritenendo questo fatto come ormai abbastanza provato e già noto ai suoi lettori, lo poneva a fondamento di tutte le sue istorie, Iam primum omnium satis constat etc.

E qui (ponendo fine a questo cenno sulle tradizioni favolose, che non so se palesino o nascondano le origini di Venezia e di Ravenna) mi piace di credere e riferire come la prima relazione fra questi Veneti ed i Ravennati forse risalga a’ tempi in cui molte città d’Italia strettesi alle aquile romane mossero contro Annibale. Che nella rassegna che fu fatta prima della giornata di Canne, le schiere dei Veneti furono vedute seguire quelle dei Ravennati. Ma a provare questo fatto non seppi trovare documento più valido di alcuni versi di Silio Italico, del quale perciò non mi dolgo di leggere in [p. 39 modifica]Plinio che, piuttosto che cantore, su fedele istorico delle guerre Puniche:

Quique gravi remo limosis segniter undis
Lenta paludosae proscindant stagna Ravvennae.
Tum Trojana manus tellure antiquitus orti
Euganea, profugique sacris Antenoris oris
Nec non cum Venetis Aquileja superfluit annis.


Queste antiche tradizioni si accordano adunque nel designare l’origine di Ravenna molto innanzi alla guerra di Troja, e poscia dalle reliquie dei vinti Trojani dicono abitato l’arcipelago veneto. Ma nel discorrere di fatti tanto antichi la storia degli uomini ha poca autorità, se pure il suo racconto non viene corroborato da un’altra istoria che con essa viene svolgendosi lentamente, dalla storia cior; della natura. Cenno geologico. Nella quale si legge come in un tempo da noi oltre ogni umana memoria remoto, l’Adriatico ricoprisse tutta la pianura del Po e con l’estremo suo golfo lambisse le falde delle Alpi, dalle quali i torrenti ed i riunii tante rupi, tante ghiaje e finalmente tante minute arene staccarono, che il mare andò restringendosi poco a poco tinche scomparve: e questo permette la congettura che tutto l’Adriatico possa essere un giorno mutato in terraferma. Ciò posto, essendo le lagune ravennati assai più vicine agli ultimi colli dell’Appennino che non le venete a quelli delle Alpi, è da credere che il Po ed i fiumi poco discosti ricolmassero assai prima le dune e le isolette dove poi fu Ravenna, di quello che le acque dei monti di Belluno potessero formare l’arcipelago veneto. Laonde si può ritenere che le lagune di Ravenna fossero già abitate quando quelle sulle quali dovea sorgere Venezia erano ancora ricoperte da acque tanto profonde, che neppure vi si sarebber potuti infigger que’pali su cui posaronsi poscia le abitazioni lacustri. Così si dimostra che quello che è detto dalla istoria favolosa ed incerta ha pure un fondamento di verità, poichè Ravenna è più antica di Venezia anche secondo le investigazioni geologiche; e la natura ripetendo successivamente un consimile lavoro ne’ dintorni delle due città, le fece in tempi diversi somigliantissime, sì che pur somigliantissimo dovette essere il [p. 40 modifica]tenore di vita de’ loro primi abitatori. I quali, per la natura de’ luoghi ove si posarono è da credere che fossero intenti alle saline, alla pesca ed all’altre arti marinaresche; e se furono mai di schiatta diversa, necessità dovesse tosto condurli alle medesime usanze.

Che più? Perfino quel singolare aspetto che Venezia presenta ancora al dì d’oggi ebbe Ravenna per l’addietro. Tale infatti dovea essere a’ tempi di Augusto e quando la vide Strabone per essere fabbricata sopra palafitte in un arcipelago di isolette, per i ponti che le congiungevano e per le numerose navicelle che tutto dì si aggiravano fra i tortuosi canali.

Ma in questo aspetto non durò lungamente, che l’arcipelago si andava accrescendo per quello ragioni medesime per cui si era formato, ed a settentrione della città prima comparvero le isole di Comacchio, di Pomposa e di Adria, e poscia, continuando i sedimenti dei fiumi, dirimpetto a questo sorsero quelle di Palazzolo Primaro e Volano. E così a mezzodì a quelle di Cesarea, di Classe, dei Campi Candiani, di Sant’Apollinare, sorsero davanti quelle di Pianetolo, di Corezzo, di Corezzolo e l’altre due che furono di Santa Maria in Porto. E mano mano che nuovi ordini d’isole paralleli a’ più antichi s’andavano formando sempre più innanzi nel mare, questo mutavasi in vasta laguna e que’ canali che rimanevano fra le isole e davano accesso al mare libero furono detti i porti di Ravenna. Ma pur continuando i sedimenti e riunitesi le isole, furono chiusi i porti e lo lagune mutate in paludi.

Coll’andare dei tempi i fiumi cangiarono il loro corso, più non si formarono nuove isole, e la terraferma non procedette più avanti, si che lo spazio che oggi è fra Ravenna ed il mare, non ò forse mutato gran fatto dai tempi di Procopio, che lo dice lontano 32 stadj quattro miglia; e bene si intende come l’Agnello ricordi che nell’anno 711 stando sulle mura della città, il mare si scorgeva di lontano.

Le mutazioni avvenute nelle spiagge orientali dell’Adriatico furono profondamente studiate siccome rilevantissime per chiarire l’antica istoria della penisola e dei popoli d’Italia, nè ancora al di d’oggi i dotti hanno cessato dallo investigare la lenta ma costante opera della natura in quelle vaste lagune.

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I lavori del Paoli1 e dello Zendrini2, le prefazioni del Fantuzzi ai volumi dei Monumenti Ravennati3 raccolgono quanto finora è stato argomentato o scoverto intorno a questo tema che, siccome estraneo al mio scopo, ho toccato appena di volo non potendo trascurarlo del tutto, tanto le antiche vicende di Ravenna ch’io imprendo a ricordare furono congiunte alla instabile condizione del suo territorio e delle sue marine.

Diversa indole della storia di Ravenna e di quella di Venezia. Venendo ora a dare un cenno dell’istoria di Venezia e di Ravenna in generale, dirò che una vera istoria degli antichissimi marinari pescatori Veneti non si trova, e forse non ci fu fra loro alcune fatto degno di memoria; nondimeno molti si sforzarono di comporla raccapezzando qualche brano di questo o di quello scrittore che parlando d’altro ne toccò di volo, e poscia di collegare e di reintegrare questi fatti con induzioni ed ipotesi. Per tal modo ognuno riuscì a formarla a suo talento e seppe provare ciò che gli era più a grado. Le parole di Procopio e più quelle di Cassiodoro si mostrarono docili ad esprimere il pensiero di chi le interpretava secondo il suo disegno, come l’umida creta a prendere la forma che è già nella mente dello scultore. Così la sorte che ebbero i Veneziani di mantenere la loro indipendenza, mentre gli altri italiani sperimentavano ogni più dura maniera di servitù, parve singolare e privilegiata per modo, che alcuni a farla comparire anche più meravigliosa si accinsero a dimostrare che l’autonomia degli abitanti delle estreme lagune non era stata mai contaminata nò dalla signoria dei Romani, nè dalla violenza dei barbari. Ma sembra più verosimile che essi rimanessero lungamente soggetti alle città d’onde eran venuti, e per questo ai Romani che poscia le dominarono; che se goderono di libertà, se Odoacre non mosse a soggiogarli, si fu perchè l’oscurità loro li facea dimenticare, non perchè la lor potenza li facesse temere.

[p. 42 modifica]L’istoria dei Veneti incomincia sotto il regno dei Goti: durante l’esarcato, di commerciale diventa politica, ed ai Veneti o Marittimi succedono i veri Veneziani. Allora incomincia quella istoria che tutta scaturisce dall’indole e dalla attività de’ cittadini; e nella quale gli stranieri non hanno che piccola parte, giacchè studiata o tentata in più modi, la storia di Venezia ritorna sempre quella dei Veneziani.

L’istoria municipale di Ravenna incomincia insieme a quella della maggior parte delle altre città italiane, cioè ne’ primi anni del secolo decimoterzo. Se non che essa ha sovra l’altre il vanto speciale d’avere un’altra storia anteriore a quella del suo Comune, una storia tutta grandezza, nella quale l’impero romano, il regno dei barbari, l’impero greco, la Chiesa cristiana, hanno molte gloriose memorie.

Questa è la sua storia ch’io chiamerò esterna perchè indipendente dal fatto de’ suoi cittadini; in essa la si vede metropoli del mondo romano ed ultimo asilo della civiltà latina, in essa si trova Teodorico imperare dalle sue mura a gran parte d’Europa, ed a lei rivolti gli sguardi e le speranze d’ogni gente civile.

E della sua grandezza furono autori i Romani, i quali ne’ più prosperi giorni della repubblica incominciarono a convenirvi ognor più frequenti allettati dalla particolare salubrità dell’aere, alla quale pure accenna Strabone e che attribuisce al rapido avvicendarsi delle maree4, accordandosi in ciò con Vitruvio che spiega ancora più diffusamente come per questo Ravenna, Altino ed Aquileja tuttochè prossime alle paludi incredibilem habent salubritatem5. E questo pareva tanto certo e per lo vigore e la bellezza degli abitanti tanto palese, che a Ravenna si vollero educati i gladiatori, perchè quivi potessero apparecchiare più abbondevoli quelle forze di cui doveano poi far mostra nel circo.

E così fra gli antichissimi Veneti, gente che in saluberrimo aere cresceva laboriosa e frugale, trovasi che abbondavano i vecchi di [p. 43 modifica]nobilissimo aspetto, che bellissime erano le donno po’ loro biondi capelli e pel volto rosato, sebbene pervenute ad oti matura incanutissero di leggieri ed acquistassero soverchia grassezza.

Difficile si è il giudicare al dì d’oggi dell’aspetto che in que’ giorni avea il lido adriatico, del quale si legge che assai prima della venuta dei Romani era sparso delle ville de’ più ricchi abitatori della Venezia.

Le vergini selve che vestivano il lido lambito dall’onda placidissima della laguna, le cento isole che sull’azzurro del mare sorgeano verdissime, per folti pineti che nel verno rattenevano la furia dei venti, faceano i dintorni di Ravenna cotanto deliziosi e salubri che da taluno furono assomigliati a quelli di Baja. Cavato da Augusto un novello porto, e sorta la città di Classe, Ravenna ebbe più ampie mura, templi ed acquedotti per opera d’altri imperadori; e poichò le meraviglie e le delizie dell’arte umana vi furono così aggiunte al benigno sorriso del cielo, Ravenna fu celebrata da’ poeti che ricordano perfino i buoni cibi che in essa si rinvenivano, i mirabili pesci, gli ortaggi squisiti; e Marziale compiange Faustino che Roma ha tolto ai boschi, allo marine, al queto vivere di Ravenna dove steso nel suo letto vedeva aggirarsi le navi pel mare e per i fiumi:

Quos Faustine dies, quales tibi Roma Ravennae
Abstulit, soles, o tunicata quies!

O nemus, o fontes tumidumque madentis arenae
Littus et aequoreis splendidus axis aquis!

Et non unius spectator lectulus undae
Qui videt hinc puppes fluminis inde rates!

E Ravenna era così universalmente tenuta come terra di voluttà e di ricchezza, che nelle monete che vi furono coniate nel secolo quinto volendovi scolpire il suo speciale attributo come altre volte si pose roma victrix, sena vetus, bononia docet, su quelle monete fu scritto: Ravenna felix.

Ma già regnando Onorio dubita vasi da più anni delle fortune del vastissimo imperio di Roma per lo agitarsi dei popoli barbari dentro e fuori da’ suoi remoti confini, ed atterrita Italia tutta per la [p. 44 modifica]calata di Radagaiso e delle sue torme di Goti, l’antica metropoli parve malsicura, e Ravenna capo della Gallia Cispadana, che giaceva tra il Po e l’Apennino, e frequente soggiorno degli imperadori asilo decoroso e sicuro. La vasta palude che l’attorniava toglieva ogni pericolo d’invasione; il mare che bagnava le pinete di Classe le agevolava i soccorsi di milizie e di vettovaglie, ed in ogni estremo caso il prossimo naviglio guarentiva la fuga6. Inoltre meno discoste che da Roma erano da Ravenna le principali Provincie dell’imperio. Che dalle bocche del Po certe navi chiamate cursorie o dromoni, di fiume in fiume portando in poco d’ora a Pavia ed alle falde delle Alpi, più breve riusciva il transito alle Gallio, nè troppo lungo dall’altro lato era quello al Norico per l’Illiria e per la Pannonia con vie non malagevoli.

Ma qui bene osserva il Troya che per questo Ravenna sarebbe stata metropoli acconcia per un imperio tranquillo e sicuro, ma che fu poi men riparata di Roma quasi posta in sul confine quando le genti che abitavano oltre l’Alpi si fecero minacciose e ribelli e tante schiatte discesero ai fertili campi ed ai tepidi climi d’Italia. Infatti il vecchio impero cadde senza contrasto, ma con esso non cadde giù. la giovine metropoli, la quale s’accrebbe più per la rovina de’ Romani di quello che non avesse fatto per la loro prosperità.

Ravenna trasformata da Teodorico E novello splendore ebbe dai barbari e raggiunse l’apice di sua grandezza regnante Teodorico che v’apportò una reggia ed un popolo orientale. Che se Teodorico volle conservate le leggi e le usanze romane, pure Ravenna fu rapidamente trasformata per la gente tanto cresciuta, per le opere pubbliche, pe’ costumi privati e per le regie pompe le quali furono tutte orientali, come rivelano i monumenti e specialmente que’ musaici ove sono figurate le cerimonie, le vesti e [p. 45 modifica]varii arredi sacri e profani. Ed occorrendo libere e continue relazioui al governo, alla corte ed a tutto il popolo de’Goti con le terre d’oriente, Teodorico accordava libertà e favore al ccmmercio con l’impero greco.

Primi viaggi dei Veneti

Allora fu che gli abitatori dello isole e delle spiaggie che da Ravenna si stendevano sin verso l’Istria, già spertissimi del navigare fra le native lagune, si avventurarono più innanzi nel mare e per amore di guadagno arrischiatisi a più lunghi viaggi giunsero sino a’ porti del levante e riportandone alla corte di Teodorico merci e derrate, incominciarono ad arricchire. E così dopo l’esempio de’ primi guadagni moltiplicatisi fra essi i navigatori, questi Veneti divennero quasi anello fra il governo di Teodorico e l’impero greco, fra il novello popolo di Ravenna e le contrade d’onde era venuto. E che i Goti, i quali non erano provveduti di navi, e specialmente della necessaria esperienza nelle arti della marineria, si valessero de’ servigj dei Veneti pe’ lunghi viaggi e pe’ lontani trasporti, chiaramente lo prova la lettera di Cassiodoro ministro di Vitige ai Tribuni dei Luoghi Marittimi, quando durante la carestia dell’anno 528 volle approvvigionare subitamente Ravenna coi vini e cogli olii dell’Istria. «Siate dunque pronti ai brevi voi usati a trapassare spazi infiniti». Estote ergo promptissimi ad vicina quippe spatia transmittitis infinita. Le più antiche cronache mostrano che grande quantità di mercatanzie era portata con navi venete dall’Asia in Europa, e fanno credere che mano mano che il governo de’ Goti mostravasi meno docile all’impero greco, gli imperadori d’Oriente concedessero ospitalità e favore ai mercatanti veneziani, per i quali soltanto poteano esser mantenute relazioni con le remote Provincie d’Italia.

E così per l’ajuto de’ Goti e pel favore de’ Greci, il commercio de’ Veneti, più numerosi dopo le migrazioni nelle isole ai tempi di Attila, s’accresceva nell’oriente, presto sursero stabilimenti e colonie, le quali poi moltiplicarono e prosperarono a segno che la città di Venezia pervenne a quel grado di splendore e di grandezza così durevole che la sua storia rimane meravigliosa fra quelle di tutte le repubbliche del medio evo.

Così da principio ebbero i Veneti una storia commerciale pur mantenendosi fuori dalle brighe e dalle contese altrui; intenti [p. 46 modifica]piuttosto ad arricchire ed a preparare ai nipoti la futura grandezza, che impazienti a far sentire la loro voce fra quelle delle discordi signorie ed a levarsi in altezza di stato. Ma non dovea andar molto che i Veneti fossero chiamati a mostrarsi anche nella storia politica. E come nelle commedie ove ciascun attore parla da sè, ora due a due separatamente conversano, ora tutti insieme vengono ad una sfida dalla quale tutto dipende l’esito del dramma, così la storia ci mostra in alcuni tempi gli uomini divisi per città e fazioni contendere per un fatto diverso, ed in altri tempi tutta l’umana famiglia, al più divisa in due sole parti, travagliarsi e combattere per un’idea, per un principio dal quale sembra dipendere l’avvenire, la prosperità, la pace inalterabile di tutte le genti.

Di questi solenni momenti è un esempio la guerra gotica, la quale più anni fierissima imperversò per l’Italia, difendendo i Goti i frutti della conquista e le speranze di loro giovine regno, e Belisario alla testa de’ Greci l’antico diritto e ’l primato del nome romano.

Con la presa di Napoli, con l’eroica difesa di Roma Belisario rinnovò esempj non più veduti da secoli, ed è noto come riuscisse poi a salvarla facendo minacciare Ravenna, si che i Goti corsi a proteggere la loro metropoli, di assediatori divennero assediati.

I veneti alleati di Belisario

L’arte di guerra per la quale Belisario si insignorì di Ravenna tacendo della resa d’Osimo e di Fiesole, si mostra in questi fatti. Come ebbe conosciuto che la città era munita per natura e per arte e che forse era impossibile prenderla a forza, si dispose a costringerla alla resa riducendola agli estremi della fame. I Veneti che stavano al settentrione, stretti oramai dai vincoli del commercio alle fortune dell’impero si erano alleati a Belisario, il quale com’ebbe ottenuta l’amicizia dei Riminesi e degli Anconitani che stavano a mezzogiorno, potè chiudere ed impedire tutte le vie di terra, guardare tutti i passi per i quali si sarebbero potute condurre vettovaglie, mentre il naviglio imperiale rendeva impraticabile il mare. Ma rimaneva tuttavia libero il porto di Spina o Primaro, e per esso le città dei Goti che erano oltre il Po soccorrevano di viveri l’assediata Ravenna, facendo scendere le navi a seconda della corrente del fiume e poi entrando in un canale che era stato condotto dal Po. Onde impedire questi ajuti Belisario [p. 47 modifica]guerni di buona guardia le due ripe del Po, alla meridionale; propose Manlio, alla settentrionale Vitalio, o chiese ai Veneti suoi fedeli certe loro navi descritte da Cassiodoro, che, per essere agili nè troppo piatte nè troppo profonde, erano acconcie al suo disegno. E fatto disporre sopra ciascuna di esse torri e tavolati per lanciare dardi, quali pose alle foci del Po con ordine di impedire che qualsiasi nave carica di vettovaglie entrasse dal mare, a quali comandò di rimontare il fiume onde incontrare e fermare le navi nemiche che cariche di viveri ne discendevano.

Vitige, vedute le navi in questa nuova forma apparecchiate poste a guardia delle foci del Po, fatto accorto del pericolo e disperando di salute, ne manda avviso ai Goti che navigavano sul Ticino alla volta di Ravenna. E questi radunate il maggior numero di navi che poterono atte a navigare sui fiumi, molte ne armarono a battaglia e mandatene alcune innanzi, altre fattele venire dietro, posero in mezzo le navi da trasporto onde assicurarle da ogni lato. Era stata quella stagione di straordinaria siccità, si che le navi dei Goti appena ebbero lasciato il Ticino, rimasero in secco nelle arene del Po.

S’avanzavano frattanto le navi veneziane armate da Belisario, e giunte presso al naviglio nimico, l’assalirono con si impetuosa tempesta di dardi girando da ogni lato, che i Goti fatto ogni sforzo per rimuovere le loro navi, non riuscirono, e si arresero.

Prima vittoria navale dei Veneti.

Cosi uno straordinario fenomeno di natura qual si fu il massimo abbassamento delle acque del Po, ajutava la prima vittoria delle navi veneziane. Dubitarono alcuni che quelle navi che portavano le vettovaglie a Ravenna fossero pure de’ Veneti7 prese e noleggiate dai Goti, nè si può negare ciò essere stato possibile, tanta essendo la loro marineria, e la cupidità del guadagno, ma è da ricordare che col nome di Veneti si dinotavano tutti gli abitatori della vasta contrada che l’Adriatico limitava ad oriente dall’Istria a Ravenna, si che in alcune parti la navigazione del mare e delle lagune, in altre quella dei fiumi e dei canali era più frequente, e per questo ciascuna regione della Venezia aveva navi di forma un poco diversa. E così in questo conflitto ben può essere che tutte le navi fossero venete [p. 48 modifica]ma non potevano essere state condotto dallo genti istosse nè dallo acque medesime, poichè quello a’ servigi dei Goti erano grandi e profonde, e quelle che combattevano pei Greci piccole e leggiere. Non è agevole lo argomentare quali popoli della Venezia fossero venuti in aiuto dei Goti; ma i fatti che seguirono poi danno a vedere che coloro che aveano combattuto o soltanto remigato nelle navicelle chiamate da Belisario, erano gli avi dei veri e grandi Veneziani.

E di tanto rilievo si fu questa vittoria che dopo di essa si cessò dal combattere ed incominciarono le proposte di pace, che fu poi conchiusa dopo un lungo negoziare condotto con finissimo accorgimento d’ambo le parti e dopo gli eventi più impreveduti e più strani.

Che mentre i Goti disperano della difesa, giungono gli ambasciatori di re Teodeberto annunziando che cinquecentomila de’ suoi Franchi già scendono dall’Alpi in loro aiuto e che divelta dalla loro scure, l’invitta francesca, l’aborrita pianta bisantina, l’Italia sarebbe fra i Goti ed i Franchi egualmente divisa. Nè ancora è deciso se accettare l’offerta, che nel Consiglio dei Goti compariscono i messi di Belisario che tanto sanno dire sulla cupidigia, sulla incerta fede de’ Franchi, che i Goti rifiutano quella alleanza sperando comportevoli patti dall’imperatore. Cosi Belisario, cui pareva assai di avere domata una sola schiatta di barbari, riuscì ad impedire che si stringesse quella formidabile lega, e fatto più ardito, mandò Vitalio ad assalire le città della Venezia che ancora gli resistevano; novella prova che non tutti i Veneti erano suoi alleati, e che dagli abitanti di un solo arcipelago avea avuto l’efficace soccorso.

Matasuenta accusata dell’incendio dei pubblici granai.

E sempre durava l’assedio, e sempre in Ravenna cresceva la fame, quando fra tanta necessità di viveri, arsero ad un tratto tutti i pubblici granai. Atterriti da sì inopinata e rovinosa sciagura, molti ravegnani ne accagionarono un fulmine mandato dal cielo, molti l’accortezza di Belisario ed il prezzolato tradimento di un cittadino; ma la voce che più corse fu che di tanto delitto fosse rea la regina medesima Matasuenta, che disposata già per forza a Vitige, sarebbesi così vendicata dell’offesa alla femminile debolezza, segretamente cospirando alla rovina del marito e del regno. Ala di questa accusa la libera il Troya profondo indagatore delle [p. 49 modifica]cende di questa età; egli erode Belisario untore dell’incendio e della calunnia contro a Matasuenta, da lui divulgata per distrarre gli animi da’ suoi maneggi. Che se Procopio narra il dolore di Vitige all’udire i sospetti sulla moglie, è da ricordare che lo storico è greco e parziale; nè alle orecchie del re giunse forse la novella, o uditala ne rise con la fidata compagna.

Ambasceria e guerra di Persia. Ma neppure ai Goti mancò l’avvedutezza politica. Chè quando la fortuna delle armi minacciava di voltare alla peggio, un vecchio guerriero sorse un di nel Consiglio e ricordò come l’imperatore non avesse potuto mai guerreggiare validamente in Italia senza aver ferma pace coi Persiani. - E di lì a poco due preti di Liguria (chè ambasciatori Goti sarebbero stati agevolmente ravvisati alle fattezze ed alla favella) si mettono in via; l’uno d’essi si finge vescovo, l’altro suo ministro, passano per la Tracia dove prendono un interprete, ai confini dell’impero cercano di fuggire gli sguardi de’ soldati che però trovano poco vigilanti, e finalmente sono ai piedi di Cosrue. A lui dicono che l’imperatore vuole insignorirsi di tutta la terra, e che già la crede sua pe’ diritti di Roma signora delle genti. Tanto bastava a risvegliare le antiche ire del re dei re, e la guerra fu decisa per la primavera. In questo mori l’infinto vescovo, e l’altro prete non sapendo come annunciare ai Goti il lieto fine della ambasceria, mandò a Ravenna l’interprete, e rimase fra i Persiani a vedere come alle promesse i fatti tenessero dietro. - Ma l’interprete fu fermato a’ confini dell’impero, ed interrogato, tutto palesò. Risaputi i maneggi di Vitige e la futura guerra di Persia, Giustiniano cerca pace in Italia, e Domenico e Massimino suoi messi giungono tosto a Ravenna: chieggono un tributo a tutti i Goti che abitavano a mezzogiorno del Po te la metà del regio tesoro: l’imminente pericolo vietava all’imperatore di cercare di più. Vitige accettò volonteroso questi patti, ma a Belisario, dopo tanta contrastata vittoria, parvero troppo picciol frutto, e non li volle. Allora i Goti che più non poteano difendersi, cercarono salvezza nell’ambizione, nella cupidigia medesima del vincitore, e pregarono Belisario a regnare su di loro, a farsi restauratore dell’impero d’occidente, a compiere la grande opera da Teodorico solamente tentata.

[p. 50 modifica]Le risposte di Belisario, comunque fossero, furono tali che gli aprirono le porte della metropoli nella quale entrava negli ultimi giorni dell’anno 539. Era con esso Procopio storico, il quale ci ricorda il fremito elio lo prese allo scorgere appena aperte quelle porte così lungamente vigilate, la moltitudine de’ guerrieri barbari, fra i quali s’avanzava l’oste greca, e riferisce aver veduto perfino le donne ridere delle piccole persone dei Romani e sputare in faccia ai codardi mariti.

E Belisario che dal desiderio che avevano di pace aveva forse creduto i Goti pochi ed affievoliti, come si vide ne’ giorni appresso sempre cinto di barbari armati, e che tra la moltitudine di questi i suoi Greci tuttoché vincitori s’andavano aggirando pavidi e rari, temette forte una sommossa, e per sgomberare la città, die licenza a tutti que’ Goti che il volessero, d’andare e di trattenersi nelle terre loro onde vedere e riparare i danni della guerra.

Così procacciando che non insorgessero novità a turbare il frutto della vittoria Belisario rimaneva in Ravenna tutto l’inverno fra il 539 e il 540, e riceveva e riteneva presso di so i capi e gli ottimati delle città della Venezia che aveano seguite le parti dei Goti; ma non trovandosi fra queste mentovata quella città dei Marittimi che ancora non avea nome speciale, e che poscia fu chiamata Venezia, è nuovo argomento per credere che i Veneti alleati ed aiutatori di Belisario fossero i progenitori dei Veneziani accorsi con le loro navicelle dalle isole fra Malamocco e Rialto.

Governo Greco, Giustiniano e Teodora secondo Procopio ed i musaici di S. Vitale. Nella primavera dell’anno 540, Belisario fece vela per Costantinopoli, e due papiri scritti in Ravenna, l’uno il 3 di gennaio, l’altro il 21 marzo di quel medesimo anno, attentano il queto vivere che v’era ed il temperato governo che ne fecenota. Lui partito, l’Italia fu ordinata a reggimento militare e con esso ridotta a miserabilissimo stato. La storia segreta di Procopio può appagare pienamente chi è vago di conoscere le calamità ed i lamenti degli Italiani, poichè ebbero sperimentato per alcun tempo il governo dì quel Giustiniano «nel quale niun pensiero fu mai di conservare le cose stabilite, sempre cercava cose nuove, e dirò tutto in una parola, era suo

8 [p. 51 modifica]genio di guastare ogni buona cosa.... e per brevemente cunchiudere, nè aveva danaro egli nè permise che ne avessero gli altri.... In questa maniera sparite dal dominio dei Romani le ricchezze, creò la povertà in tutti». E da canto a lui, e quello che è peggio sopra a lui, era salita dal circo quella Teodora che fanciulletta portava la seggiola sulla quale la sorella maggiore faceva prove di forza; quella Teodora che poi acquistò sì brutta fama «che chi l’incontrava al mattino l’aveva in segno di cattivo augurio, che i più costumati fuggivano incontrandola per il foro per non esser contaminati dal contatto delle sue vesti». E pure poco mancò che il senato non decretasse a costei fatta imperatrice onori divini. Niuna donna salì forse a tanta potenza e di niuna forse tanto male fu detto quanto di lei scrisse il solo Procopio, dal quale però si raccoglie come pur desse qualche segno di grande animo in mezzo alle sue malvagità. In Italia divenne quasi universale credenza che Giustiniano e Teodora fossero veri demonj in forma umana, ed anche Procopio vorrebbe sembrarne persuaso: «ed a me ed alle persone del mio ordine cotesti due non parvero mai uomini ma perniciosi demonj vestiti si d’umane sembianze».

Delle quali sembianze noi abbiamo memoria nei mosaici di San Vitale ed in un altro di recente scoverto nella cappella di S. Appollonia in S. Apollinare Nuovo di Ravenna, e tutti, secondo che può l’arte degenerata e difficile, confermano la descrizione che ne fa Procopio nella sua Storia segreta.

«Di statura, egli dice, non fu Giustiniano alto troppo nè troppo piccolo: non eccedeva la giusta misura. Nè egli era gracile, ma moderatamente pieno di succo e liscio di faccia, nè senza avvenenza, poichè anche dopo due giorni di digiuno appariva rubicondo» 9. E così nei due mosaici ch’io ho ricordati, apparisce col viso pieno, ben colorito e senza pelo.

«Era, invece, Teodora leggiadra di volto e piacente, pallidetta alquanto, con occhi assai vivi . piccola di statura e ne’moti della persona vivacissima»10

[p. 52 modifica]Non apparisce però più piccola delle donne che le stanno dattorno ne’ mosaici di S. Vitale, dove è rappresentata con un manto color di viola, adorna il capo di ricco diadema, il petto di una collana di perle, i piedi di calzari ingemmati. Mostra regolarissime le fattezze del volto, ma la vivacità degli occhi sembra spegnersi fra le aspre pietruzze che per la loro scabrosità pare si rifiutino a figurare la delicata leggiadria.

È noto come nell’odio degli Italiani contro a’ novelli signori trovassero aiuto le sparse reliquie dei Goti ritemprati dalla sventura, come riaccesa la guerra co’ Greci, contrastassero novellamente a Belisario e ritogliessero la signoria di quasi tutta l’Italia. Ma la fortuna di guerra che li avea sempre aiutati nelle battaglie terrestri fu loro contraria nel mare.

I Veneti alla pugna navale di Sinigallia.

Chè correndo l’anno 552, undecime della riscossa de’ Goti, e tenendo Ravenna Valeriano in nome dell’imperatore, Totila fe’ stringer d’assedio per terra e per mare il castello d’Ancona. E non avendo i Greci altro porto atto a fornire vettovaglie fra Ravenna ed Otranto, Valeriano unitosi a quel Giovanni che dovea aspettare in Salona lo arrivo di Narsete, mosse contro ai Goti. S’incontrarono nelle acque di Sinigallia, i Greci con cinquanta, i Goti con quarantasette navi. In questa pugna l’arte del maneggiare le navi valse ai Greci più che ai Goti il valore, e questi ebbero la peggio. La maggior parte degli storici non si curò poi di ripetere ciò che ne’ più antichi si trova e che a me par degno di memoria, ciò è che i Greci ebbero in quella giornata dai Veneziani e dai Dalmati validissimo aiuto.

Si racconta che la battaglia incominciò col trarre de’ dardi e che poscia, accostate le prore alle prore, le navi cozzarono insieme: fierissimo fu il combattimento con l’aste e con le spade, nel quale i Goti mostrarono valore mirabile, ma che per l’imperizia dell’arte marinesca tornò vano. Le loro navi disordinatamente si urtavano, ora erano troppo vicine ora troppo lungi dalle nemiche, s’intricavano le funi e le vele, e tutto era una confusione di grida, di ordini e di movimenti, un generale scompiglio di uomini e di armi.

Per contrario si dice che i Greci aiutati dai Veneziani serbavano l’ordine della loro armata, avevano le prore sempre innanzi, i navigli ad opportunissima distanza, prontissimi a serrarsi, ad [p. 53 modifica]allontanarsi, a correre addosso alle navi de’ barbari rimaste lontane dalle altro e ad affondarle. Vedemmo già che questa straordinaria mobilità delle navi era massimo pregio de’ navigli veneti, e se anche non si trovasse negli storici ricordata la presenza de’ veneziani, soltanto dalla maniera del combattere che ebbero i greci, si potrebbe dedurre che i Veneziani loro fedeli alleati erano accorsi anche questa volta con le loro navicelle, e che a’ loro cenni ubbediva l’intera armata dell’imperatore.

In quello che Valeriano combatte il naviglio dei Goti a Sinigallia e torna vincitore a Ravenna, Narsete con giovanile ardore e con senile costanza riunito un esercito di mercenari sen viene a Salona ed ivi accresciute le sue genti, giunge a Rialto. E che i Veneti allora si tenessero quasi come sudditi imperiali ne è prova questo fatto, che quando Narsete si fermò a Rialto accolse gli oratori dei Padovani venuti a dolersi della ognor crescente baldanza degli abitatori delle isole, i quali vietavano loro di navigare per le lagune, mostrandogli come ciò facessero contro ogni ragione, poiché un giorno quelle isole erano soggette a Padova, e Padovani i loro antichi coloni.

Ma Narsete, secondo che pare, non giudicò della lite, li persuase a mantenersi in pace ed a portare la quistione in Costantinopoli all’imperatore. Ed una ambasceria de’ Veneti andò a Bisanzio per fargli ossequio e strinse un trattato di amicizia e vicendevole aiuto. Tanto mostra che gli arditi abitatori della gloriosa isoletta di Rialto erano già saliti a tanta potenza da volere e potere impedire i Padovani dal navigare nelle loro lagune. E si ritrova che i Veneti, e massimamente gli abitatori di Rialto, fornirono a Narsete un numero grandissimo di barche, delle quali molte furono disposte attraverso quelle frequenti foci dei fiumi che impedivano la via di Ravenna, sicché l’esercito passò come sovra ponti. Lungo e disagiato fu il cammino, sommergendosi le genti di Narsete nelle melme delle paludi e delle lagune; nondimeno difese da ogni pericolo di nemici da una moltitudine di navicelle probabilmente venete anch’esso che costeggìavano il lido, giunsero salve in Ravenna. I Veneti conducono l'oste di Narsete da Rialto a Ravenna.Così questa via tanto malagevole fra Venezia e Ravenna fu scelta da Narsete come la più si- cura, giacché sapeva quanta fidanza potesse riporre negli aiuti [p. 54 modifica]dei Veneti, e come, essendo creduta impraticabile affatto, non fosse guardata dai Goti.

E riaccesa la guerra, questa gagliarda generosa schiatta che sembrava destinata a rinvigorire l’Italia, questa schiatta alla quale non era mancato nè il genio di un fondatore nè la virtù militare ne’ suoi re e nel suo popolo, debellata dal vecchio eunuco non potè più rialzare il capo.

I Longobardi nella Venezia.

Grandissima copia di neve cadde nell’anno 568 nelle parti settentrionali d’Italia, e questa neve non era ancor del tutto sparita quando Alboino salito sopra di una delle cime dell’Alpi Carniche che dopo d’allora fu detta «Monte del Re» rimirava le pianure del Po.

Inermi, ignorate, disperse per le terre e pe’ monti stavano le reliquie di que’ Goti che le aveano così strenuamente conquistate e difese: Narsete dopo avere governato l’Italia per sedici anni a dispetto e danno degli Italiani, arricchito a dismisura, era tornato a Bisanzio richiamato con l’amaro e notissimo motto della imperatrice Sofia, e lui partito, l’esercito greco non parea più da temere; gli Italiani menomati dalle guerre, dalla fame, dalla pestilenza, non potevano contrastare il passo ad alcuno. Ed Alboino si vide il bello d’insignorirsi d’Italia come di contrada vuota.

E il dì dopo la pasqua (che in quell’anno venne il primo d’aprile) si mosse di Pannonia, e tosto una numerosa compagnia di genti dove le donne, i fanciulli, i vecchi andavano a lato de’ guerrieri Gepidi, Bulgari, Sarmati, Pannoni, Svevi, Norici, e d’altri molti Diversi aspetti in un confusi e misti, fu veduta discendere a modo di torrente per le gole dell’Alpi Carniche e poi diffondersi rapidamente nel piano. Fugge Paulino patriarca scismatico di Aquileja e col tesoro di sua chiesa ripara all’isola di Grado, fuggono gli Altinati, quali nell’Istria quali a Ravenna; altri incerti del rimanere, vedendo alcuni uccelli volare via co’ loro piccoli nel becco, credono sia avviso celeste, e partiti, fondano Torcello. Ma Foro Giulio (ora Cividale del Friuli), Vicenza e Verona aprono le porte agli invasori insieme ad altre città della Venezia.

All’udire lo avvicinarsi di Alboino, Longino esarca fortificò Classe di fosse e palizzate e vi pose a guardia certi soldati Traci; ma niuno comparve intorno a Ravenna, la quale non entrerebbe per [p. 55 modifica]nulla nell’istoria della invasione longobardica, se Longino non avesse dato ricetto a Rosmunda regina, e so questa non vi fosse morta di veleno insieme al marito secondo che conta la spaventosa istoria a tutti nota.

Ma finalmente Faroaldo II duca di Spoleto tentò la ricca preda ed assalita improvvisamente Classe, vi si mantenne finchè il re Liutprando uditi i richiami dell’esarca, condannò quella occupazione. Ed aiutato da Doctrulfo, l’esarca riebbe Classe, ma si obbligò a pagare ogni anno ai Longobardi trecento libbre d’oro.

Abiezione dell’esarcato. Così fatto tributario dei barbari, l’esarcato perdette ogni autorità, e conscio della sua degradazione non ebbe più ritegno nello emulare la corruttela della corte bizantina. Allora tributi di inaudita gravezza imposti a’ popoli già tanto malmenati ed impoveriti, allora tolti i vasi sacri alle chiese e per questo siccome sacrilego ladrone ucciso dal popolo di Ravenna l’esarca Giovanni Lemigio con tutti i suoi giudici. E così la storia dello esarcato si va mutando in nefanda cronaca di uccisioni e di tradimenti. Esempli dell’esarca Isacio. Basti per tutti lo accennare le vicende dell’esarca Isacio, che ito a Roma per confermare Severiano novello pontefice, fu da tutto il popolo e da tutti gli ordini dei sacerdoti, che con festosa pompa gli mossero incontro, introdotto nella eterna città. Ivi tutte le vie coperte di fiori, tutti i templi illuminati, tutte le campane sonanti a festa. Confermato che ebbe il nuovo papa nel tempio di S. Giovanni in Laterano, questo esarca, ricchissimo d’onori ma povero d’avere, incominciò a lamentare di non ricevere guiderdone condegno al lungo e malagevole viaggio da Ravenna a Roma, e saccheggiò il tesoro della Chiesa con scandalo e dolor grande de’ buoni Romani, ma pur aiutato da alcuni cittadini. E così le scontente milizie furon quotate, il tesoro di Costantinopoli arricchito, ed il governo di Ravenna potè in parte pagare i suoi debiti e sopperire alle spese.

Poco dopo Tasone duca di Toscana si avvicina a Ravenna con le sue genti; ed ecco che alcuni messi lo pregano ad abboccarsi (la solo con l’esarca senza introdurre l’esercito nella metropoli pe’ riguardi dovuti al sospettoso imperatore. E Tasone entra solo, ed i messi gli fanno strada; ma appena sono passate le porte, si rivoltano indietro, gli sono addosso, e trafittolo di mille colpi lo [p. 56 modifica]lasciano morto sulla via. E di questo tradimento era autore l’esarca medesimo, il quale, perchè Arioaldo re dei Longobardi gli condonasse il terzo del tributo, erasi impegnato a far morire Tasone suo nemico, perciò sotto colore di stringere alleanza contro ai barbari, lo avea fatto venire a Ravenna con tutta l’oste, mandandogli poi incontro fidati sicari che allontanatolo da’ suoi lo uccidessero di coltello.

Pochi anni dopo una testa mozza era infitta in cima ad un’asta nel mezzo de! circo di Ravenna. Era quello il capo di Maurizio capitano del presidio greco stanziato in Roma, cui la soverchia liberalità coi soldati avea reso sospetto di ambiziosi pensieri. Ma Isacio si fa più prodigo di lui e lo fa abbandonare dalle sue genti, nè è contento sinchè non fa porre in cima ad un’asta la testa di chi gli era stato fido amico e valido aiutatore nel proficuo saccheggio del sacro tesoro di Roma.

In un queto recesso fuori la porta orientale della basilica di S. Vitale a Ravenna sta un’urna marmorea dove varie figure rozzamente scolpite rappresentano l’adorazione dei Magi, e nella lunga iscrizione greca che è sovra il coperchio si legge che la moglie del sepolto Susanna pudica a guisa di casta tortorella vedovata dal marito amaramente piange. E in questo sarcofago da più di mille e dugent’anni sta il cadavere d’Isacio chiuso e dimenticato.

Io non starò a ricordare tutti gli atroci fatti commessi da! governo greco, e con l’esempio d’Isacio mi sono studiato di dare a conoscere, per quanto si può, qual fosse la giustizia, quale l’arte delle finanze, quale la politica sotto l’esarcato che minacciato d’ora in ora dalla oltrepotenza dei barbari e dall’odio degli Italiani, avvilito e vacillante volgeva al suo fine.

Nel secolo VIII inasprirono poi tutte le piaghe d’Italia per le contese di religione mosse dall’imperatore Leone Isauro iconoclasta. Era allora pontefice Gregorio II, uomo di grande animo e per tutta Italia tenuto assai caro, si chi tornarono vani i maneggi dell’imperatore per trar dalla sua i popoli della Pentapoli e vani gl’inviti a’ suoi fedeli Veneziani11. Leone tentò pure in varii modi d’avere [p. 57 modifica]il papa prigioniero o morto, e più persone inviò in Italia con questo mandato; ma ogni tentativo andò a vuoto, chè le congiure furono scoverte ed congiurati quali fuggirono, quali furono uccisi, ed invece cadde vittima l’esarca Paolo che tanta parte avea avuta in quelle macchinazioni. Ed insieme a lui fu morto il suo figliuolo per mano del popolo di Ravenna, il quale usato già a metter le mani nel sangue, quella volta fe’ tale macello di soldati greci che ne rosseggiaron le acque de’ canali, e secondo che narra l’Agnello, per tre anni ninuo più mangiò i pesci del Badareno.

In mezzo a cosiffatto furore degli animi ebbe il pontefice tanta forza da serbare misura, nè volle che per l’amore al papato i popoli desistessero dalla fede all’imperio, nè che le milizie che stavano di presidio in Ravenna e nella Venezia eleggessero un nuovo imperatore, rinnovando gli esempi degli antichi pretoriani.

Cronaca veneta. Liutprando prende Ravenna. In questo tempo Liutprando re dei Longobardi (dice un’antichissima cronica veneziana)12 lui andò a sediar la zitade de Ravena el doxe a petition del papa lui andò a sochorer la dicta zitade e fo una grande bataja in la qual fu preso un nievo de dicto re Liutprando et preso el doxe de Vixenxia et per questa caxon lo fo facto paxe et li Venetiani a petition del papa restituì li dicti prexoni et fono facti novi pacti per lo imperador ai Venetiani. Ed investigati tutti i monumenti e tutti gli scrittori che valgono a rischiarare questo avvenimento onde riportarlo con ogni minuto particolare, riuscimmo a poterlo comporre nel modo seguente.

Circa gli anni 725 o 726, valendosi delle contese che teneano distratte le forze del papato e dell’impero, e per le quali molti ravennati s’erano dipartiti rimanendo per la loro discordia deboli quelli rimasti, re Liutprando assalì Ravenna, dalla quale respinto, s’impadronì di Classe che tutta mise a ferro ed a fuoco rispettando solo il tempio di S. Apollinare ora detto in Classe fuori. E partì tosto per correre in aiuto di Carlo Martello contro ai Saraceni, lasciando che Ildebrando suo nipote e Perendeo duca di Vicenza seguitassero l’impresa. La quale, secondo che scrive l’Agnello, riuscì loro prospera pel tradimento d’un cittadino, che mentre i Longobardi assalendo la porta di Vico Salutare richiamavano in quella parte tutte le forze [p. 58 modifica]dei Greci, costui aperse ad un tratto quella di Vico Leproso, e poi rimase morto sotto ad un trave o fu levato di mezzo dai barbari per non pagargli il prezzo promesso.

È verosimile che i Longobardi signori di Ravenna promettessero mite e provvido governo ai Ravennati che tante volte aveano mostrato quanto fossero stanchi della avara e crudele signoria de’ Greci: nondimeno, dopo che all’antico diritto romano fu surrogato il guildrigildo longobardo, rimpiangevasi il governo bizantino, che malgrado i suoi trascorsi almeno vantavasi di tenere per inapprezzabile il capo e l’onore di un cittadino romano.

Ma invece istituito il guildrigildo, nel combattimento giudiziario per causa civile si poteva incontrare la morte, rimase abolita la cittadinanza romana, i magistrati romani furono cacciati per far luogo agli Scabini, agli Sculdasci e ad altri uficiali longobardi severi esecutori di leggi spietate. Della cacciata de’ magistrati romani e della venuta di quelli longobardi non si può dubitare, leggendosi in una lettera che papa Gregorio II scrive all’imperatore nel 726: Longobardi et Sarmatae cacterique qui ad Septentrionem habitant miseram Decapolim incursionibus infestarunt, ipsamque Metropolim Ravennam occuparunt et eiectis magistratibus tuis proprios constituere magistratas. Et haec aggiunge, ob imprudentiam ac stultitiam sustinuisti, attribuendo questi mali all’odio sorto contro a lui per le uccisioni e per juvenilia pueritiaque facta di cui il furore dell’eresia lo avea fatto capace13.

I Veneziani accolgono l'esarca.

Intanto l’esarca era fuggito a Venezia, la quale, sebbene avesse stretto trattato di amicizia coi Longobardi14, e si fosse rifiutata ad aiutare l’imperatore contro al pontefice, pe’ gravi interessi che avea in levante, non potea dimenticare l’antica alleanza.

Pur sembra che il doge Orso temendo di mancare di fede al pontefice e di nimicarsi gli Italiani col prestare aiuto all’imperatore iconoclasta, esitasse a soccorrere l’esarca; ma ricevutolo con grande onore, lo trattenesse amichevolmente sinchè non giunsero i messi di papa Gregorio con una lettera scritta in sulla fine del 726 o ne’ primi giorni del 727.

[p. 59 modifica]In essa il pontetice fedele all’imperio, malgrado l’eresia propugnata dall’imperatore, scrive:

Ad Ursum Ducem Venetiarum pro Ravenna a Longobardis defendenda.

Gregorius episcopus servus servorum Dei Urso Duci Venetiarum.

Quia peccato faciente, Ravennatum civitas, quae caput extat omnium15 a nec dicenda gente Longobardorum capta est et filius noster eximius Domimus Exarchus apud Venetias ut cognovimus moratur; debeat nobilitas tua ei adhaerere et cum eo nostra vice pariter decertare, ut ad pristinum, statum sanctae Reipublicae in imperiali servitio Dominorum filiorumque nostrorum Leonis et Constantini Magnorum imperatorum ipsa revocetur ravennatum civitas ut amore et animo sanctae fidei nostrae in statu, reipublicae et imperiali servitio firmi persistere, Domino cooperante valeamus.

Deus te incolumen custodiat, dilectissime fili16.

Questa è la lettera che il Muratori, sebbene non possa negare che abbia tutta la patina dall’antichità, crede apocrifa per l’ingiuriosa allusione ai Longobardi alleati della Chiesa e per l’affetto mostrato dal papa all’imperatore ed all’esarca che aveano voluto metterlo a morte. Il Troya pone questo fatto dopo il riacquisto di Ravenna, e quando il papa ancora ignorava le scerete intenzioni dell’imperatore; e l’ingiuria ai Longobardi sembra o aggiunta da un copista consueta e vana formola.

Era il doge Orso uomo di gran cuore, impaziente di rompere gli ozi della patria, di far provare a’ suoi cittadini l’ebrezza della gloria militare, e di essere primo a mostrare al mondo quanto oramai potessero i Veneziani. Adunato il Consiglio, ricordò come la Repubblica, dalla sua antica fedeltà all’impero avesse avuto tanta prosperità ed augumento, come nel trattato fatto con Liutprando era stato stabilito che nulla si facesse a danno dell’imperatore loro alleato, si che la presa di Ravenna toglieva ogni obbligazione, e mostrò quanto fosse pericoloso l’avere i Longobardi così dappresso, quanto importasse il mostrarsi risoluti ad impedirne l’ingrandimento e a [p. 60 modifica]ridurli ne’ loro antichi confini. Da ultimo fu letta la lettera del pontefice, e la sua autorevole voce e le preghiere dell’esarca presente a quella seduta, mossero i Veneziani a tentare il riacquisto di Ravenna. E per potere più facilmente strapparla agli artigli dei barbari, propongono di condurre segretamente l’impresa.

Ammonito dagli avveduti Veneziani, l’esarca si parte, e levando alte grida contro ai disleali isolani che non l’hanno ascoltato e villanamente cacciato va in Imola dove raguna tutto l’esercito imperiale, tutti gli approvvigionamenti, tutti gli ingegni da guerra per riprendere Ravenna. Il Doge Orso riprende Ravenna.In questo il doge Orso apparecchia a battaglia ottanta navi di cui venti erano assai grandi, e un giorno, levatosi dopo il mezzodì un prospero vento, fa vela da Venezia, dicendo d’andare in aiuto dell’imperatore contro i Saraceni. E discendendo per l’Adriatico, come giunse dirimpetto a Ravenna, si fermò col naviglio in alto mare aspettando l’aurora. L’esarca era intanto venuto da Imola con tutti i suoi ria sotto la città, ed essendo ormai giorno, il doge con certi fuochi gli annunziò dall’acque di Classe che l’armata veneta era giunta e pronta all’assalto. L’esarca, veduti que’ fuochi, con altri simiglianti significò al doge che egli era li presso con tutto l’esercito.

Impensato, gagliardo, clamoroso, fu l’assalto degli imperiali. Destati alle loro grida Ildebrando e Perendeo, corrono alle mura e le afforzano di soldati come possono per la pochezza del tempo e per lo sgomento che già avea invaso i Longobardi. E mentre li è tutto lo sforzo della difesa, il doge Orso giunto al lido, ha già fatto discendere i suoi dalle navi, e forzata la porta della città dal Iato di mare, entra in Ravenna con saldissima e serrata schiera d’armati.

Accorrono i Longobardi e gagliardamente contrastano il passo; ma poi ch’ebbero lungamente combattuto corpo a corpo con grande strage, scorati dal vedere che i cittadini corsi alle armi davano loro addosso insieme ai Greci ed ai Veneziani, cedettero poco a poco Ildebrando fu fatto prigioniero dal doge; Perendeo sottrattosi alla mischia, cercò salute nella fuga, ma raggiunto fu morto nelle pinete.

Il doge, restituito Ildebrando al re de’ Longobardi, Ravenna all’impero, l’esarca alla sua sede, ebbe dall’imperatore il titolo d’Ipato ovvero di Console (nome di vano uficio nella corte imperiale), [p. 61 modifica]nuove parole d’amicizia per la Repubblica e promessa di futuri aiuti. E tornato a Venezia, per la gioia della vittoria si levò in tanta superbia che fu poi assalito e morto nel suo palazzo dal popolo, che così uccideva il primo autore della sua gloria militare.

Fine dell'esarcato

Sebbene l’odio contro alla signoria ed alle crudeli leggi dei Longobardi avessero mosso i Ravennati a prestare aiuto ai Greci ed ai Veneziani, nondimeno l’esarcato non si mostrò in seguito men peggiore di prima, nè i cittadini più docili a sopportarlo. Chè perdurando la corte bizantina nel volere tolte le sacre immagini e parteggiando il popolo per il pontefice e l’arcivescovo, con esempio non nuovo, fu mandato da Costantinopoli un naviglio a saccheggiare Ravenna. E mentre il clero e la parte più debole del popolo stava in orazione e penitenza, quelli che erano usati alle armi corsero contro ai Greci, e con astuzia e valore singolare li vinsero e molti ne precipitarono nel braccio del Po che era vicino a Ravenna. Invadevano nuovamente a que’ giorni o si avvicinavano minacciosi i Longobardi all’altre terre dell’Impero, il quale come in un eunuco avea trovato il primo ed il più strenuo de’ suoi esarchi, in un eunuco ebbe l’ultimo ed il più imbelle. Che non sapendo difendersi, Eutichio ricorre al Papa acciò faccia cessare i Barbari dalle offese; ma già vedendosi stretto da ogni lato, caduto di animo fugge in Grecia ed il dominio imperiale in Italia è per sempre finito.

Ed ecco le relazioni fra Ravenna e Venezia moltiplicarsi e mutarsi del tutto, ecco incominciare la serie di que’ fatti che è nostro proposito di mettere in luce. E dalle cose sino a questo punto discorse questo vorrei che chiaramente apparisse, poiché non mi sembra bene avvertito dagli storici sin qui, che la prima origine della grandezza di Venezia, del suo dominio nell’Oriente, si fu la vicinanza di Ravenna e della reggia tutta orientale di Teodorico, che i poveri ed ignoti pescatori ebbe in breve indirizzati a divenire i più arditi naviganti del mondo. Laonde se rispetto al mare, alle lagune, alla natura tutta che la circonda, Ravenna può dirsi sorella maggiore di Venezia, rispetto alla storia le torna forse prima cagione delle sue fortune.


Note

  1. Fatti relativi alle mutazioni del lido Adriatico da Ravenna ad Ancona. 3za Riunione degli scienziati italiani 1842. Firenze.
  2. Relazione al Legato Bartolomeo Massei sui lavori ai fiumi Ronco e Montone, 173l
  3. Vi si riportano passi di autori antichi e dei bassi tempi che danno qualche lume sullo stato delle acque intorno a Ravenna nei vari secoli.
  4. Lib. V, cap. II.
  5. De electione locorum salubrium et quae obsint salubritati et unde lumina capiantur. Lib. II, cap. IV.
  6. Quando Costantino, trasferita la capitale a Bisanzio, ebbe diviso tutto l’impero in quattro prefetture con un Prefetto del Pretorio, e le prefetture in diocesi, e le diocesi in provincie, la provincia de’ Veneti fu una di quelle diciassette in cui fu ripartita l’Italia e fu detta Consolare. La reggeva il Correttore della Venezia e dell’Istria con titolo di Conte. In questa provincia furono sedici presidii militari, de’ quali uno di soldati barbari a Padova sotto il Prefetto dei Sarmati Gentili, mentre a Ravenna stanziava una milizia romana detta de’ Giuniori italici: di sopra il Po pare tutti i soldati fossero barbari, di sotto tutti romani.
  7. J. Armingaud, Venise et le Bas Empire.
  8. Ved. Marini, Nota 45 al Papiro num. 11, pag. 341.
  9. Cap. XIII.
  10. Cap. XV.
  11. Troya, Codice diplomatico Longobardo.
  12. Bibl. Marciana di Venezia. Cod. dcl., cl. vii it.
  13. Troya, Codice Diplomati n Longobardo, N.° cccclix.
  14. Troya, Codice Diplomati n Longobardo, N.° ccccxii.
  15. Definizione che il doge Dandolo trovò registrata negli antichi archivi di Venezia e che poscia dispiacque a’ Veneziani ed andò disusata.
  16. Troya, Codice diplomatico Longobardo, N.° cccclxiii.