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Il grande successo, la gran fama, e il venir sollecitata quale musa officiale, nocquero un poco, naturalmente, alla produzione ulteriore della poetessa: che forzò un poco la voce, lasciò che l’impulso romantico prendesse il sopravvento e desse adito persino ad un penoso sospetto d’insincerità. Specie nelle liriche dettate per la guerra, nel volume ''Les forces éternelles'', il verbalismo dilagò fastidiosamente. Gli spiriti più delicati temettero ch’ella fosse per perdersi, ella ch’era stata designata per divenire il maggior poeta del suo tempo... Ma ecco, da due, tre anni, con il volume di novelle ''Les innocentes'', e con qualche gruppo di brevi liriche donate a riviste d’avanguardia, Anna de Noailles e riapparsa rinnovata, con tutte le virtù e tutte le magie d’una giovinezza irriducibile, è riapparsa con doni anche più limpidi, con una musicalità d’anima dalle risonanze più dolci e più secrete... «Donde è venuto a questa straordinaria donna un tal potere di ricominciamento?» chiede un critico di finissima sensibilità. André Germain, nella raccolta di saggi ''De Proust à Dada'', che ieri leggevo; e risponde: «de l’imperialisme de son coeur qui voulait rappeler et vaincre les jeunes gens distraits, occupés à jouer dans les coins tandis que son char passait...».
Il grande successo, la gran fama, e il venir sollecitata quale musa officiale, nocquero un poco, naturalmente, alla produzione ulteriore della poetessa: che forzò un poco la voce, lasciò che l’impulso romantico prendesse il sopravvento e desse adito persino ad un penoso sospetto d’insincerità. Specie nelle liriche dettate per la guerra, nel volume ''Les forces éternelles'', il verbalismo dilagò fastidiosamente. Gli spiriti più delicati temettero ch’ella fosse per perdersi, ella ch’era stata designata per divenire il maggior poeta del suo tempo... Ma ecco, da due, tre anni, con il volume di novelle ''Les innocentes'', e con qualche gruppo di brevi liriche donate a riviste d’avanguardia, Anna de Noailles e riapparsa rinnovata, con tutte le virtù e tutte le magie d’una giovinezza irriducibile, è riapparsa con doni anche più limpidi, con una musicalità d’anima dalle risonanze più dolci e più secrete... «Donde è venuto a questa straordinaria donna un tal potere di ricominciamento?» chiede un critico di finissima sensibilità. André Germain, nella raccolta di saggi ''De Proust à Dada'', che ieri leggevo; e risponde: «de l’imperialisme de son coeur qui voulait rappeler et vaincre les jeunes gens distraits, occupés à jouer dans les coins tandis que son char passait...».


Si. Donna, la Contessa di Noailles porta nell’arte un fiero volontà di conquista e di dominio, e tanto più l’attua quanto più è fedele a sè stessa, al ritmo de' suoi travolgenti occhi verdeoro e della sua piccola persona dalla strana affascinante grazia; al ritmo del suo vergine spirito. Al pari delle altre due contemporanee di genio, Colette la faunessa ed Aurel la pensierosa, per le quali mi duole non aver qui spazio a parlare (1), ella si salva quando non rinnega la propria essenza, quando attinge alle immense zone inespresse della femminilità e ne rivela, sorridente o dolorosa non importa, casta od impudica non importa, qualche lembo, con moti e modi di novità e freschezza autentiche. Creatura feminea, della specie ape-regina. Il suo bottino di miele e prezioso. Sono certa che Barrès a lei pensava alluminando il personaggio di Oriante nel suo ultimo romanzo bello come un rubino. Preziosa ha l’anima, s’anche un poco crudele. Ha intrecciato profumate ghirlande a Jean Jacques e a tutti gli eroi; ma ben più profondamente e magnificamente poeta è nell’esaltazione della propria forza rutilante, o in qualche tenue sospiro melodioso in sfida alla morte....
Si. Donna, la Contessa di Noailles porta nell’arte un fiero volontà di conquista e di dominio, e tanto più l’attua quanto più è fedele a sè stessa, al ritmo de' suoi travolgenti occhi verdeoro e della sua piccola persona dalla strana affascinante grazia; al ritmo del suo vergine spirito. Al pari delle altre due contemporanee di genio, Colette la faunessa ed Aurel la pensierosa, per le quali mi duole non aver qui spazio a parlare<ref>Rimando il lettore di buona volontà al mio volume ''{{TestoCitato|Andando e Stando}}''.</ref>, ella si salva quando non rinnega la propria essenza, quando attinge alle immense zone inespresse della femminilità e ne rivela, sorridente o dolorosa non importa, casta od impudica non importa, qualche lembo, con moti e modi di novità e freschezza autentiche. Creatura feminea, della specie ape-regina. Il suo bottino di miele e prezioso. Sono certa che Barrès a lei pensava alluminando il personaggio di Oriante nel suo ultimo romanzo bello come un rubino. Preziosa ha l’anima, s’anche un poco crudele. Ha intrecciato profumate ghirlande a Jean Jacques e a tutti gli eroi; ma ben più profondamente e magnificamente poeta è nell’esaltazione della propria forza rutilante, o in qualche tenue sospiro melodioso in sfida alla morte....


«''Que suis-je? Un humble atome errant.''
«''Que suis-je? Un humble atome errant.''
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(I) Rimando il lettore di buona volontà al mio volume ''Andando e Stando''.
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Versione delle 11:54, 20 mar 2018

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colla «Jeune Parque», esercizio poetico, dice Valéry, affatto occasionale (ma la scintilla che appicca il fuoco, non è essa quasi sempre occasionale?): continuato per una serie di poemi costituiti poi in volume, per articoli e prefazioni, e due dialoghi di tipo platonico. Quivi ritroviamo altre parziali incarnazioni dell’ideale valeriano: e Socrate, Eupalinos, e Tridone Sidonio, sono altrettanti Valéry possibili. (La medesima via egli segue il più delle volte nei suoi poemi, usando coscientemente di quella facoltà d’idealificazione, della quale, egli dice, nulla è più efficace per eccitare la vita immaginativa, per trasformare una energia potenziale in att uale. «L’oggetto scelto diventa come il centro di questa vita, un centro di consociazioni sempre più numerose...». A questo modo Valéry si fa Platano, e Pitia, e Palma, e Nerciso).

Occorre notare che, soprattutto nei poemi, ma anche nei dialoghi, le «idee» per importanti e nuove che siano, non sono che materiali, usati alla produzione della Bellezza. Il Bello è al di sopra di verità e menzogna, è ciò che si impadronisce dell’uomo e «lo porta senza sforzo al disopra di se medesimo». L’opera d’arte musicale, poetica, è così congegnata per impadronirsi di tutto l’essere, e rapirlo nel suo movimento, in una momentanea, ma suprema illusione di contatto con una superiore verità che lo possiede. Da ciò l’importanza fondamentale del ritorno. Come si sa, Valéry è adepto di una schiettissima conformità colle forme metriche elaborate dalla tradizione, come quelle che offrono più immediato agio di liberarsi dalla materialità del discorso. Quanto alle forme stilistiche da lui adottate, sono liberamente scelte nel tesoro della tradizione: e la dolcezza raciniana, come le singolari modulazioni sintattiche che le parole subiscono nella strofa di Malherbe, come il mestiere parnassiano, o quale altro elemento si voglia, baudelairiano, mallarmiano, sono, volta a volta adottati, piegati a usi personali. L’ispirazione medesima, seppur indispensabile, non è che materia, punto di partenza, e solo una intensa elaborazione critica dei suoi dati (anche se inconscia) può assicurare «quelque durée à l’assemblage voulu». In tal modo l’opera d’arte diventa un «problema di rendimento».

(Nonostante la diversità dei linguaggi, sarebbe possibile trovare affinità tra alcune idee estetiche di Valéry, e di Leopardi: come tra certi postulati del pensiero leopardiano, l’ammirazione per l’armonia antica, il famoso contrasto, nell’uomo, tra ragione e natura, l’impossibilità di trovar soddidenziosità spiritualistica, ed altri, con altrettante idee di Valéry.)

Terminiamo questa serie di accenni. Per parlare adeguatamente della poesia di Valéry, occorrerebbe esporre per disteso la sua estetica: mostrare come una concezione matematizzante vi vi spieghi quel continuo procedere per accostamenti di termini apparentemente lontani, e condotti a significare tutta una serie indefinita di fenomeni di una specie, si da creare l’impressione di una realtà più intensa, più pungente (in che consiste appunto la sorpresa poetica): indicarvi l’importanza del concetto di «accelerazione»; e l’audace parallelismo insinuato, fra la complessità della rappresentazione scientifica del mondo, succedente al semplicismo antico, e una rispondente complessità del tessuto poetico, della interazione degli clementi verbali e ritmici... Limitiamoci a dir due parole sul problema delle scaturigini di cotesta poesia.

Idee più singolari che vere, o ingegnose ma unilaterali sono state emesse, a questo proposito. In realtà pare naturale vederci una trasposizione in simboli poetici di quella «vita intellettiva» e di quel possesso di se, dello spirito, che abbiamo tentato di definire: più precisamente, delle avventure, delle incertezze, delle impazienze, delle esaltazioni che essa vita a se medesima procura. L’anima condotta dal suo senso di unicità, al disopra di tutti gli «accidenti dell’essere» e degli «azzardi del reale» si ritrova solitaria «sur le pôle de ses trésors»: si affissa in se stessa, e si canta.

Une voix impérissable

A soi même sert d’oracle.


Palme.


J’approche la transparence

De l’invisible bassin

Où nage mon Espérance

Que l’eau porte par le Sein


Aurore.


O quel Taureau, quel Chien, quelle Ourse

Quel objet de victoire énorme

Quand elle entre au temps sans ressource

L’Ame extraordinaire forme?

Ode Secréte.


Leggerezza alata, ordine, esaltazione, ardore: ivi direttamente si traspone questa danza spirituale. Ma ecco, mito supremo, primo e ultimo nella produzione poetica di Valéry, quello di Narciso, che sfuggito a ogni più precario amore, si strugge di non potersi con se stesso finalmente confondere.

Alberto Rossi.


PIERO GOBETTI — Editore

TORINO - via XX Settembre, 60

GIOVANNI VACCARELLA

POLIZIANO

L. 7

Saggio di nuova critica



Chi ha letto i libri di Andre Gide, se con amore e sagacia ne ha approfondito il segreto animo, non è senza riluttanza che s’induce a parlarne. Vorrebbe soddisfarsi di segnalare la perfezione formale di ogni opera, così veramente compiuta, se non conclusa, quale ogni libro, secondo che si legge in Paludes, dev’essere: «pieno, liscio, come un uovo — e le uova non si riempiono: nascono piene». Ma vorrebbe subito soggiungere che il valore dell’artefice non può andar qui considerato disgiunto dalla misteriosa collaborazione inerente alla sua genesi. A chi sappia penetrarne l’incanto l’uovo rivela un Dioscuro latente. Ma, si dirà, la grazia del dio è proprio del poeta in genere di sollecitarla: l’opera perfetta n’è l’abitacolo...

Sono le vie di questa amorosa impetragione che fan così prezioso Gide: difficili, inconsuete vie, perché la virtù ch’egli esige da sè è di donarsi nella sua più ricca, completa integrità — e per giungervi, ecco il desiderio che l’anima, struggente qual’è, farsi trepido, sommesso, agile, delicato. Tutto dona di se: «le meilleur et le pire». Perchè trabocca di riconoscenza per il Creatore: il quale ha fatto «il lupo e l’agnello: poi ha sorriso vedendo che «andava assai bene».

Ahi! ma questo dono di amore, come renderlo accetto altrui? Come arricchire altrui di questo fervore, come trasfonderlo, suscitarlo?

«Chi dirà di quanti arresti, e reticenze, e vie traverse non è responsabile la simpatia, la tenerezza?».

Basta leggere il Prometeo male incatenato per scoprire in Gide, dolorosa e ironica a un tempo, la coscienza non solo della difficoltà di convincere, dei pericoli che minacciano ogni divulgazione e chi s’accanisca a provare, ma più ancora di quanto sia «pericoloso ogni spirito che si assicura che una soluzione possa trovarsi fin da questo mondo; che s’assicura ch’e la sua, e s’adopera a imporla». Prometeo ha un bel nudarsi il fianco e dare il fegato in pasto all’aquila coram populo, ha un bell’alternare alla disperata perorazione della sua conferenza i giochi dei razzi e la distribuzione delle cartoline oscene: il pubblico sbadiglia, poi tumultua. Ma Damocle l’ha ascoltato, e miserevolmente ammala. La parola di Prometeo l’ha morso, e insanabilmente lo corrode. Delira: «Signore, Signore, a chi debbo? Il dovere, Signore, è una cosa orribile; io ho deciso di morirne... «Che hai tu dunque che tu non abbia ricevuto» dice la Scrittura... ricevuto da chi, da chi?? da chi??? — La mia angoscia è intollerabile». Tanto, che ne muore.

«Oh — dice allora Prometeo, uscendo dalla camera mortuaria — tutto ciò è orribile! La fine di Damocle mi sconvolge. E’ vero che la mia conferenza fu la causa della sua malattia?

— Non posso affermarlo, risponde il cameriere — ma so almeno che fu molto scosso da ciò che diceste intorno alla vostra aquila.

— Ero così convinto! — dice Prometeo.

— Per questo lo convinceste... la vostra parola era così viva...

— Io supponevo che non mi ascoltasse... insistevo... se avessi saputo che mi ascoltava...

— Che avreste detto allora?

— La stessa cosa, — balletta Prometeo.

Gide non ha mai tanto cercato lettori, quanto il lettore. Quello stesso al quale si rivolgeva Baudelaire:

Hypocrite lecteur, mon sentblable, mon frère... Il lettore suscettibile, si, di sgomento (di tremblement: das Schaudern, il meglio dell’uomo, dice Goethe) ma che non trarrà mai motivo di scandalo da alcuna delle sue parole — nè d’alcuno dei suoi improvvisi silenzi. Ma chi talora al sentirlo così misteriosamente eludere ogni presa, non ha provato l’impazienza del l’adolescente di Dostoievsky dinanzi a quello stupefacente, sconcertante personaggio che è Versilov?

« — Tacere! ne venite sempre a questo.

— Amico mio, tacere è innocente e bello.

— Bello!

— Certo, il silenzio è sempre bello, e il silenzioso è sempre più bello di colui che parla».

L’opera di Gide così squisitamente letteraria è tutta sbocchi fuor d’ogni letteratura: in quel silenzio che é a un tempio agio, libertà, disinteresse, dove lo spirito si muove agilmente, riconosce le sue necessità, si addestra, si allena — dove ogni anima trova la sua via.

«Leggo come vorrei che mi si leggesse» dice. E più oltre, di un autore: «non afferma, ma insinua; senza mai discutere persuade; entra di sghembo nello spirito del lettore; non so come vi giunga, fa suo il nostro pensiero. Ogni capitolo non ha che poche pagine; mi piace che non esaurisca mai il suo soggetto. Mi piace che dopo averci camminato al fianco alcun tempo ci lasci, che non ci accompagni troppo innanzi. Non si è riconoscenti ai libri che della impulsione che ci danno. Se ne vuole a chi veglia sui nostri passi fino all’ultimo».

Ogni opera di Gide si racchiude in un breve volume. Le prime eduzioni, di tiratura limitata, sono introvabili. Ora, man mano che si ristampano è in libercoli di tale formato che paion fatti per stare in tasca, inavvertiti. La somma dei Morceaux choiisis non soltanto l’aspetto ha di un breviario. Pure «Non portarti dietro il mio libro!» era l’urgente consiglio con cui l’autore delle Norritures terrestres si raccomandava all’ignoto, al sospirato Nathanael...

Nathanael, discepolo ideale, vagheggiato, accarezzato. Troppo amato perchè il poeta subito non lo sfugga, non lo discosti, distacchi da sè. «Butta il mio libro, gli dice, non soddisfattici. Non credere che da alcun altro possa esser trovata la tua verità; più di ogni altra cosa, abbi vergogna di ciò. Se ti cercassi gli alimenti, non avresti fame per mangiarli; se ti preparassi il letto, non avresti sonno per dormirvi».

Ma Nathanael è ancor tutto inerente all’animo del poeta; nè l’espediente che quasi involontariamente si cela nella effusione lirica sfugge al suo chiaro sguardo: «Sono stanco di fingere di educare qualcuno. Quand’ho mai detto che ti volevo simile a me? — E’ perché differisci da me che ti amo; non amo in te che quel che da me differisce. Educare! — Chi educherei dunque se non me stesso? Nathanael, te lo dirò? io mi sono interminabilmente educato. Continuo. Io non mi stimo mai se non in quel che potrei fare».

Fin dagli inizi dell’opera di Gide questa figura si vede che gli si propone di continuo, ma che non gli riesce, che non può ancora liberare da sè. Timida dapprima, ma pur tendenziosa, la riconosciamo in Davide, cui tragicamente, doloroso e miserevole a un tempo, si contrappone Saul indemoniato; poi in Neolottolemo preso a mezzo tra Ulisse e Filottete; più oltre sono Charles Bocage e Moktir volta a volta che vi alludono; il Figliuol prodigo li assomma tutti nella sua confessione — quand’ecco alfine balzar vivo Lafeadio e uscir pel mondo, dove già e come ognuno per la sua via van Fabrizio del Dongo, James Steerforth, Lord Jim o Arcadio Macarovich.

Svelta creatura umana, tutta giovanile grazia in cui le più varie possibilità si equilibrano in una felice armonia... Ah! Lafeadio, sono a chiedermi se alcunché non ti manchi: s’io debba rimpiangere che così grande sia la tua libertà da vietarti attaccamento alcuno, alcuna amicizia... O che sia mestieri persuadersi che «le pas du parfait copain se danse seul»?

Son queste, poche note che un lettore di Gide si lascia carpire. E’ suo malgrado, ripete, che ha ceduto. Non si scusa tuttavia della loro insufficenza, perchè ha la pretesa di estimarla inevitabile.

«Un grande scrittore soddisfa a più di una esigenza risponde a più d’un dubbio, nutre i più diversi appetiti». Queste parole di Gide meglio di qualsivoglia altra valgono per lui stesso. Esigenze, dubbi, appetiti — a un solo che n’abbia, mi stimerò sommamente felice se queste righe saranno valse a indicargli tanta copia e varietà d’alimenti.

Poiché si deve pur ripetere per Gide l’elogio ch’egli rivolgeva a Charles-Louis Philipp: «Egli porta in sè di che disorientare e sorprendere, cioè di che durare».



Eblouie...

A centinaia si potrebbero sgranare epiteti per definire Anna de Noailles: ardente, fervente, orgogliosa, voluttuosa, autoidolatra, appassionata, grandiloquente... Ma fra tutti, più la caratterizza la breve paroletta intraducibile: eblouie...

Anche chi non l’ha mai veduta la imagina con lunghe ciglia che sbattono come ali stupite dinanzi al lucente incanto del mondo.

Tutto le è cagione di meraviglia e insieme di vertigine: e tutto il suo lungo cantare esprime sopra ogni altra cosa questo stato di creatura turbinante stupefatta nel radioso mistero.

L’hanno apparentata a Victor Hugo, per l’impelo e la ricchezza inesauribile della vena: sarebbe forse più esatto farla discendere da Walt Whitman. Non si danno forse la mano, attraverso l’immenso spazio, questa piccola donna di razza orientale e sangue principesco, e il buon gigante dell’ovest, il buon viandante figlio di popolo, quando enumerano, l’uno e l’altra, i motivi d’amore verso la vita?

Ma che un Whitman gagliardo e randagio abbia la vocazione imperiosa della laude, è meno singolare di quel che non sia per una Contessa di Noailles. Meno raramente, nasce la poesia, dirò con imagine retorica, nelle capanne che non nei palazzi. L’autrice degli Eblouissements, del Coeur innombrable, del Visage emerveillé, avvalora in modo irresistibile la propria testimonianza lirica, per il fatto d’esser gran dama, bella, irretita da mille privilegi... Costei, si pensa, ha saputo ascoltar la voce del vento. la voce dello spirito, ha saputo chinarsi al giogo delle cose eterne, ai miti purpurei, anzi incandescenti, dell’amore, della gloria, della morte (anche la morte è un mito, Anna de Noailles!) quando fin dalla nascita tutto sembrava indicarle reami facili e leggiadri, aiuole e sentieri in bell’ordine, senza sospiri ne guida nè estasi. La potenza d’Orfeo c dunque veramente illimitata...

«C’est une femme de génie» proclamò Maurice Barrès pubblicamente, circa vent’anni sono. «C’est un grand poète» confermò egli a me «un mattino di vento e di grazia» del marzo 1923 nel suo studio di Neuilly.

Le prime composizioni che di balzo la consacrarono erano in verità miracolose: classiche, purissime di forma e selvatiche di spirito, audaci e nobili, fragranti, roride, intense, d’una trasparenza e d’una iridiscenza adorabili...

La forét, les étangs et les plaines fécondes

ont plus touché mes yeux que les regars humains

je ne suis appuyée à beauté du monde

et j'ai tenu l'odeur des saisons dans mes mains


Vita vegetale e vita cosmica, aromi e brividi, ricordi ancestrali e presentimenti sommessi, fascino dei viaggi e d’ogni esotismo (non amaro e tragico alta guisa bodleriana, ma venato di sottile e talora morbosa malinconia), tripudio superbo dei sensi, e quelle che Proust chiama «intermittenze» del cuore, sorrisi di baccante, intuizioni folgoranti, imagini, imagini felici, delizie.

Visage étincelant du monde, battement du temps et de la vie...

Il grande successo, la gran fama, e il venir sollecitata quale musa officiale, nocquero un poco, naturalmente, alla produzione ulteriore della poetessa: che forzò un poco la voce, lasciò che l’impulso romantico prendesse il sopravvento e desse adito persino ad un penoso sospetto d’insincerità. Specie nelle liriche dettate per la guerra, nel volume Les forces éternelles, il verbalismo dilagò fastidiosamente. Gli spiriti più delicati temettero ch’ella fosse per perdersi, ella ch’era stata designata per divenire il maggior poeta del suo tempo... Ma ecco, da due, tre anni, con il volume di novelle Les innocentes, e con qualche gruppo di brevi liriche donate a riviste d’avanguardia, Anna de Noailles e riapparsa rinnovata, con tutte le virtù e tutte le magie d’una giovinezza irriducibile, è riapparsa con doni anche più limpidi, con una musicalità d’anima dalle risonanze più dolci e più secrete... «Donde è venuto a questa straordinaria donna un tal potere di ricominciamento?» chiede un critico di finissima sensibilità. André Germain, nella raccolta di saggi De Proust à Dada, che ieri leggevo; e risponde: «de l’imperialisme de son coeur qui voulait rappeler et vaincre les jeunes gens distraits, occupés à jouer dans les coins tandis que son char passait...».

Si. Donna, la Contessa di Noailles porta nell’arte un fiero volontà di conquista e di dominio, e tanto più l’attua quanto più è fedele a sè stessa, al ritmo de' suoi travolgenti occhi verdeoro e della sua piccola persona dalla strana affascinante grazia; al ritmo del suo vergine spirito. Al pari delle altre due contemporanee di genio, Colette la faunessa ed Aurel la pensierosa, per le quali mi duole non aver qui spazio a parlare1, ella si salva quando non rinnega la propria essenza, quando attinge alle immense zone inespresse della femminilità e ne rivela, sorridente o dolorosa non importa, casta od impudica non importa, qualche lembo, con moti e modi di novità e freschezza autentiche. Creatura feminea, della specie ape-regina. Il suo bottino di miele e prezioso. Sono certa che Barrès a lei pensava alluminando il personaggio di Oriante nel suo ultimo romanzo bello come un rubino. Preziosa ha l’anima, s’anche un poco crudele. Ha intrecciato profumate ghirlande a Jean Jacques e a tutti gli eroi; ma ben più profondamente e magnificamente poeta è nell’esaltazione della propria forza rutilante, o in qualche tenue sospiro melodioso in sfida alla morte....

«Que suis-je? Un humble atome errant. dont l’ardeur fut grave et pieuse, qui vit le réel d’un oeil franc voilé de stupeur amoureuse, et j’ai rendu, en l’adorant. l’évidance mystérieuse....

Sibilla Aleramo.




  1. Rimando il lettore di buona volontà al mio volume Andando e Stando.