Le Mille ed una Notti/Storia di Maruf: differenze tra le versioni

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Storia di Maruf

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Storia d'Abdallah, Figliuolo di Fazl, e de' suoi Fratelli Conclusione delle Mille ed una Notti

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NOTTE CMLXXXIII-MI

STORIA

DI MARUF.

— Era una volta al Cairo un uomo che aggiustava le scranne vecchie, chiamato Maruf, e sua moglie, Fatima, soprannomata Al-Ara, vale a dire la Megera, perchè tale in tutta l’estensione della parola. Ogni giorno faceva soffrire al povero marito tutti i tormenti possibili. Maruf, per lo contrario, era un uomo eccellente, timorato di Dio, pieno d’onore e povero, poichè quanto guadagnava non poteva bastare a sopperir alle pazze spese della moglie. Una mattina essa gli disse: — Maruf, bisogna che stasera tu mi porti una focaccia di miele d’ape. — Dio mi faccia guadagnar denaro,» rispose Maruf, «e non mancherò di portartela. — Non mi contento di questo modo di parlare,» ripigliò la donna; «che ne guadagni o no, voglio stasera una focaccia di miele altrimenti, se torni a casa senza, te ne prevengo prima, la passerai male. — Dio è misericordioso!» disse Maruf, mandando un profondo sospiro, ed uscì colla disperazione nell’anima. Fatta la preghiera del mattino, aprì la bottega, e pregò Dio di mandargli di che comprare una focaccia di miele, per essere liberato, almeno in quel giorno, dalle violenze della moglie. Ma passò tutto il dì, senza che alcuno gli portasse lavoro, di modo che non aveva denaro nemmeno per comprar pane. Chiusa quindi la bottega, s’avviò a casa. Immerso nella disperazione, [p. 356 modifica] passò egli dinanzi alla bottega d’un mercante di focacce di miele, il quale gli domandò la causa del suo cordoglio. — Ah!» rispose il tapino, «quella mia maladetta moglie vuol togliermi la vita. Mi chiese oggi una focaccia di miele, e non ho nemmeno pane da portarle. — Non vi affliggete,» rispose il pasticciere; «ditemi solo quante focacce volete. — Cinque basteranno. — Mi dispiace,» riprese il mercante, «di non avere miele d’ape; non ho se non di quello che si distilla dalle canne di zucchero.— Bene, fatemele,» disse Maruf. Prese il mercante farina, burro, miele di canne da zucchero, e fece una focaccia degna della tavola d’un re. — Avete d’uopo,» disse poi, «di pane e formaggio? eccovi per quattro pezze di pane e per due di formaggio. La focaccia vale dieci pezze: mi darete il denaro quando potrete. — Dio vi rimuneri!» rispose Maruf, e si avviò a casa.

«— Dov’è la focaccia di miele?» gli gridò sua moglie da quanto lungi lo potè scorgere. Eccola,» rispose Maruf; ma vedendo che la focaccia non era fatta con miele d’ape, Fatima si pose a gridare: — Non ti aveva io detto che voleva una focaccia di miele, non di canna da zucchero, ma bensì d’ape? — Eppure devi essermi grata anche d’averti portata questa,» le rispose il marito. A tali parole, Fatima fece un tumulto diabolico; i pugni e gli schiaffi caddero da tutte le parti sul pover’uomo. Torna subito, miserabile,» gridava ella, «a prendermi una focaccia come te la domando.» E le parole venivano accompagnate da nuove percosse. Gli spezzò un dente; gli strappò la barba, e siccome il povero Maruf cercava di difendersi alla meglio, la megera si precipitò su di lui furibonda, e pigliatolo per quel po’ di barba che ancor gli restava, si pose a gridare a tutta possa. Accorsero i vicini, ed udita la cagione dell’alterco, biasimarono altamente la condotta della donna. — Noi mangiamo tutti,» dissero, «focacce di miele di canna da zucchero; dov’è dunque il gran delitto che ha commesso tuo marito?» In somma, fecero il meglio per ristabilire la pace tra i due consorti. [p. 357 modifica]

«Partiti i vicini, Fatima giurò che mangerebbe nulla di preparato col miele di canna da zucchero. — Oh! s’è così,» disse Maruf, «mangerò io la focaccia. — Ottimamente,» riprese la moglie, «tu non dimentichi mai il tuo ventre. — Non sono come te,» rispose Maruf sorridendo, e continuava a mangiare. «Domani, coll’aiuto di Dio,» soggiunse poi, «ti porterò una focaccia di miele d’ape.» Ed accompagnando la promessa con buone parole, calmò la moglie, e passò tranquillamente la notte.

«Alla domane Maruf si alzò di buonissim’ora per recarsi alla bottega, dove in capo ad alcune ore vide giungere due offiziali di giustizia, che lo citarono davanti al cadì, per avere, dicevano, maltrattato sua moglie. Trovò egli dal cadì la donna, colle braccia fasciate ed il velo tutto insanguinato; versava inoltre un torrente di lagrime. — Non temi tu Iddio,» disse il cadì a Maruf, «per maltrattare così tua moglie, rompendole le braccia ed i denti? — Se le ho fatto il più piccolo male,» rispose il povero diavolo, «se le ho torto un sol capello o toccato un dente, mi sottometto volontieri al castigo che vi piacerà infliggermi.» Poi raccontò le cose come stavano, e chiese che si chiamassero a testimoni i vicini, venuti per metter pace tra sua moglie e lui. Il cadì, ch’era ricchissimo, prese una pezza d’oro, e dandola alle due parti: — Eccovi dì che,» loro disse, «comprare una focaccia di miele d’ape, e metter termine al vostro contrasto.» La donna s’impossessò della moneta, ed il cadì le volse alcuni savi consigli sulla necessità di vivere in pace nelle domestiche pareti. Uscirono i due coniugi dal tribunale, e se n’andarono ciascuno dalla sua parte, la donna a casa e Maruf alla bottega.

«Appena si era posto al lavoro, che i due uffìziali tornarono a domandargli la mancia per bere. Ricusò egli sulle prime, dicendo che non aveva nulla da dividere col tribunale, e che il cadì lo aveva assolto; ma gli ufficiali vennero a tali violenze, che il povero Maruf si trovò costretto a vendere una porzione di quanto esisteva in bottega, per dar a coloro [p. 358 modifica] il mezzo ducato che esigevano. Sedette quindi, colla testa appoggiata alle mani, non sapendo cosa sarebbe di lui, essendogli stati tolti tutti gli arnesi che gli servivano a guadagnarsi il vitto, quand’ecco d’improvviso due altri uffiziali di giustizia che presentansi per citarlo di nuovo a comparire dinanzi al magistrato. — Ma,» disse Marni, «vengo adesso dall’udienza, ed il cadì (cui nominò) mi ha assolto. — Non veniamo in nome di quel cadì, ma bensì del tal altro.» Li seguì dunque, e trovò all’udienza sua moglie, che aveva contro di lui intentata la medesima accusa. — Mi sono con lei riconciliato,» disse Maruf, e raccontò al cadì tutto l’affare. Questi lo rimandò come il primo, ma gli uffiziali di giustizia lo costrinsero a dar loro la mancia, e fu costretto a vendere il poco che gli rimaneva. Rimase allora come annientato, e non sapeva dove batter la testa, allorchè passando di là un suo amico, gli disse: — Cornei siete ancora qui? Dovete comparire sull’istante al palazzo del governatore, dove vostra moglie portò querela contro di voi. Il capo della giustizia deve egli medesimo citarvi.» A quei detti, Maruf, dandosi alla fuga, si pose a correre a tutta possa per liberarsi dalla malvagità della donna. Gli restavano ancora cinque monete, colle quali comprato pane e formaggio, sollecitossi ad uscìre dal Cairo. Era d’inverno, e la pioggia, che cadeva a torrenti, l’ebbe in breve bagnato sino all’ossa. Attraversando il sobborgo chiamato Adalyeh, passò dinanzi alla gran moschea del re Adel, ed entrato in un edifizio in ruina per cercarvi asilo contro l’acqua che gli aveva inzuppato tutti gli abiti, colà amaramente piangendo, doleasi della sua sorte. — Ahi» diceva, che spaventevole disgrazia è l’essere legato ad una donna cattiva quanto un demonio! O mio Dio! conducimi in luoghi dove colei non possa seguire le mia tracce! —

«Lamentavasi in tal modo, allorchè, apertosi d’improvviso il muro, ne uscì un genio d’aspetto capace di far drizzare i capelli sulla testa. — Che vuoi, figlio degli uomini,» disse, «e perchè vieni a turbare la mia quiete? Da due secoli che [p. 359 modifica] qui sto non ho mai inteso alcuno lagnarsi come te. Qual è la cagione del tuo affanno? Forse io potrò esserti utile, perchè mi fai veramente compassione. — E chi siete voi dunque?» domandò Maruf. — Sono l’abitatore di questo palazzo,» rispose il fantasma. L’altro raccontò allora al genio le violenze della moglie, e finì dicendo che altro non bramava se non di fuggire in luoghi ov’ella nol potesse raggiungere. — Le tue brame saranno paghe!» gridò il genio, e sì dicendo lo prese sulla schiena, ed alzatolo in aria, volò tutta la notte sino allo spuntar dell’aurora, che si fermò in vetta ad un monte. — Vedi tu quella città laggiù?» gli disse il genio; «ti basta di recarti colà per essere in salvo da tutte le ricerche e persecuzioni di tua moglie.» Maruf non sapeva troppo cosa dire o fare: attese sino al levar del sole, ed allora discese dal monte, per avviarsi alla città.

«Avvicinatosi, rimase stupito della bellezza dei palagi, il cui aspetto gli seduceva gli occhi, ma non addolciva la tristezza del suo cuore. Gli abitanti gli si affollarono intorno per esaminarne l’abito, che non somigliava al loro. — Siete forastiero?» disse uno di essi, — Sì,» rispose Maruf. — D’onde venite, vi prego? — Dal Cairo, capitale dell’Egitto. — Quand’è che ne partiste? — Iersera. — Ah! ah!» disse l’abitante della città, scoppiando dalle risa; e volgendosi a quelli che lo circondavano: «Amici, quest’uomo è pazzo: pretende di essere partito dal Cairo ier sera, quando ci vuol un anno intiero per recarvisi da questa città. - Siete voi i pazzi,» Maruf riprese, «e non io. Vi ripeto di nuovo che son partito ier sera, e se non mi volete credere, osservate questo pane, ancora fresco, da me comprato al Cairo.» Sì dicendo, mostrò il pane, che destò grande sorpresa, poichè non se ne faceva di simile nella città, ed era infatti ancor fresco. Cresceva intanto sempre più la folla intorno a Maruf, e gli uni pretendevano che dicesse la verità, gli altri che fosse un impostore. «Mentre contrastavano così fra loro, venne a [p. 360 modifica] passare un uomo magnificamente vestito, montato sur una mula, ed accompagnato da due schiavi, che gli camminavano innanzi per aprire la folla. — Non vi vergognate,» diss’egli alla moltitudine, «di tormentare così questo forastiero? Non avete diritto di fargli alcun male.» Niuno seppe cosa rispondere, e Maruf ringraziò il Kovagia che invitollo a casa sua. Accettò il tapino con molto giubilo e riconoscenza: fu accolto benissimo e magnificamente trattato nella casa del Kovagia, e mangiato insieme, si fece questi a chiedergli come si chiamasse e quale ne fosse la professione. — Mi chiamano Maruf,» egli rispose, «e mio mestiere è racconciare vecchie scranne e mobili vecchi. — Di qual città siete?— Del Cairo. — Di qual quartiere?» Maruf glie lo nominò. — Come,» riprese l’altro, «voi dimorate al Cairo? — Senza dubbio, vi son nato. — Potrei chiedervi in qual parte della città? — Nella via Rossa. — Conoscete nessuno che abita in quel quartiere? — Sì,» rispose Maruf; e nominò parecchie persone di sua conoscenza. — Conoscereste forse anche lo sceik Ahmed, mercante di colori? — Ah! buon Dio! se lo conosco! è il più prossimo mio vicino. — Sta bene? — La Dio mercè perfettamente. — Quanti figli ha? — Tre, Mustafà, Mohammed ed Alì. — Cosa fanno? — Mustafà è professore in un medresseh1. Mohammed ha bottega di colori vicino al padre, e sua moglie si è di recente sgravata del piccolo Hassan. Quanto ad Alì, è mio camerata d’infanzia; abbiam fatto insieme mille diavolerie: eravamo soliti vestirci da garzoncelli cristiani per introdurci nelle chiese, e rubarvi i libri che rivendevamo a caro prezzo ai preti. Un giorno, un cristiano ci colse sul fatto: si dolsero i preti al padre di Alì, e lo minacciarono di portare le loro querele al re; Ahmed castigò severamente il figlio, che prese la fuga, e non si è più riveduto, benchè sia una buona ventina d’anni. — Ebbene, «sclamò il Kovagià, «riconosci in me il tuo antico amico Alì, il figliuolo [p. 361 modifica] dello sceik Ahmed, il tintore del Cairo,» e si precipitò nelle sue braccia. — Dimmi adesso,» ripigliò il mercante, «perchè hai lasciato il Cairo.» Maruf gli narrò tutta la sua avventura colla moglie Fatima la Megera, aggiungendo come si fosse salvato durante una bufera, e lo avesse un genio alla notte trasportato in quella città, deve gli abitanti avevanlo maltrattato. — Bisogna bene guardarvi,» disse il Koragia, «di far loro nota la verità; se diceste essere un genio che vi portò qui, vi prenderebbero per un uomo maledetto, e non vi permetterebbero di stabilirvi nella città; bisogna aggiustarla in altro modo. Prendete questi mille zecchini, e, montando domattina sulla mia mula, recatevi ai bazar, dove mi vedrete seduto tra i primi mercanti. Al vostro arrivo, io mi alzerò per venirvi incontro, e vi bacerò le mani dandovi i maggiori segni d’onore e rispetto; tal contegno da parte mia vi procurerà grande considerazione. Allora io proporrò che vi si ceda una bottega, ed avrò cura di farla riempire di merci. Vi farò poi conoscere i primi mercanti della città, ed in poco tempo vi troverete felice, ora che siete liberato della vostra Megera. —

«Maruf non sapeva trovar espressioni sufficienti onde attestare all’amico tutta la sua gratitudine. Al domani, il Kovagia gli mandò una superba mula riccamente bardata ed una borsa di mille zecchini, e la scena del bazar fu rappresentata com’erano intesi. — È dunque un buon mercadante!» dissero i Kovagia. — Come! se è un buon mercante?» rispose Alì; «è uno de’ primi dell’universo: v’hanno molti negozianti de’ quali è socio in Egitto, nell’Yemen, all’Indie, e sino alla China. Ha più magazzini che il fuoco non possa consumare; io non sono appetto di lui che un facchinuccio. Vedrete che uomo è quando imparerete a conoscerlo più intimamente. —

«Dietro simili assicurazioni, fatte coll’accento della verità, i mercanti concepirono la più alta idea di Maruf, talchè tutti un dopo l’altro l’invitarono a pranzo, ed il sindaco si sollecitò di fargli conoscere il prezzo corrente delle merci e delle varie [p. 362 modifica]produzioni del paese. — Avrete certo molte stoffe rosse? chiese a Maruf un mercante. — In quantità,» questi rispose. — Stoffe gialle? — In quantità.» E a tutte le interrogazioni consimili, sempre rispondeva: — In quantità. — Dal canto nostro,» dissero gli altri mercanti, «noi pure vi possiamo fornire più di mille balle di stoffe di seta. —

«Mentre discorrevano a quel modo, avvicinossi al luogo nel quale pranzavano un mendicante, e fatto il giro della tavola per chiedere l’elemosina, gli uni gli diedero una moneta, gli altri qualche piccola cosa, e la maggior parte nulla. Allorchè giunse a Maruf cavò questi un pugno di zecchini e glieli diede. — Quest’uomo dev’essere immensamente ricco,» dissero tra loro i mercanti, «per prodigare l’oro così.» La nuova della liberalità del forastiero si divulgò in breve per la città fra tutti i mendicanti; Maruf diede a ciascuno un pugno di zecchini, sinchè giunse al fondo della borsa datagli dall’amico. — Se avessi saputo,» diceva, «che in questa città si trovano tanti poveri, mi sarei munito di maggior danaro; ora non ho altro indosso, e nondimeno non posso lasciar partire nessun povero senza dargli qualche cosa. — E perchè mai?» disse il sindaco de’ mercanti; «congedateli con un: Dio vi aiuti! — Ah no! non saprei mai risolvermici,» soggiunse Maruf, «e son desolato di non aver preso meco se non una sola borsa. — Eccone una di mille zecchini,» disse il sindaco. L’altro la prese, e la distribuì, come la prima, alla porta d’una moschea, dov’erasi recato co’ compagni per fare la preghiera. Ammiravano tutti i mercatanti la liberalità di Maruf, che sempre continuò le sue largizioni, per modo che al termine della giornata aveva preso a prestito, per distribuirli, cinque mila zecchini. Parlava continuamente di stoffe e merci; a tutte le domande che gli si facevano, rispondeva di averne quantità immense, ed ognuno maravigliava della pretesa ricchezza delle sue carovane.

«In tal maniera, erasi Maruf acquistato gran credito, del quale approfittò per prendere il giorno dopo sessantamila zecchini in prestito. Intanto la [p. 363 modifica]carovana, della quale aveva sì spesso annunziato l’arrivo, non compariva mai, ed i mercanti, avendo bisogno de’ loro capitali, recaronsi dal Kovagia Alì, che aveva tanto vantato il forastiero. Non era di lui intenzione di prestarsi ad una trufferia, avendo soltanto voluto procurar all’amico un solido credito. Grande dunque fu il suo stupore udendo il modo insensato con cui Maruf aveva preso a prestito e scialaquato tanto denaro. Tuttavia esortò i mercatanti a pazientare, e loro promise che la caravana in breve arriverebbe. Poi, preso in disparte l’amico, lo rimproverò per avere sì vergognosamente abusato della sua amicizia e del credito procuratogli. Maruf rispose coll’assicurarlo, scherzando, che la grande caravana giungerebbe in breve: lasciollo Alì per recarsi dai mercanti, cui disse non essere sua colpa se, senza consultarlo, avevano prestato denaro allo straniero, del quale egli non si era fatto mallevadore, e loro consigliò di citarlo dinanzi al tribunale.

«I mercanti non se lo fecero dire due volte; recaronsi al divano, ed accusarono Maruf di truffa, esponendo tutta la sua condotta. Il re di quella città era il più avaro del mondo, e quando udì parlare della liberalità di Maruf, si persuase che costui fosse immensamente ricco, e dovesse la caravana infallibilmente arrivare. Talchè, fatto chiamare il suo visir, gli disse: — Visir, deve qui giungere una caravana carica d’immense ricchezze, che appartiene al mercadante forastiero. Perchè dovrebbero i mercanti aver parte a questa caravana? Non sono i mariuoli già troppo ricchi? Sarebbe molto meglio ch’io ne facessi mio pro con mia moglie e la mia figliuola. — Sire,» rispose il visir, «profittasi di rado con simili avventurieri. — Sostengo,» ripigliò il re, «che questi non è un avventuriero come pretendete, e vado a convincermene sull’istante. Posseggo un diamante d’immenso valore, che gli mostrerò: se ne conosce il prezzo, è di certo un uomo ricco, per le cui mani passano simili gioie; altrimenti lo considererò come un avventuriero.» E fatto venire Maruf, gli volse parecchie interrogazioni sui debiti e le sue promesse, a tutte le quali domande dava colui sempre la medesima [p. 364 modifica]risposta, vale a dire parlando della sua grande caravana. Il re gli mostrò quindi una perla di maravigliosa grossezza, che costava mille zecchini, ed appena Maruf l’ebbe in mano, la infranse sorridendo. — Che fai?» gridò il re; «spezzare così una perla che vale mille zecchini! — Mille zecchini,» riprese Maruf,» scoppiando dal ridere; «è un pezzo di vetro rotondo! Credete voi che non m’intenda di perle? nella mia carovana ne ho sacchi di questa grossezza. —

«A tal discorso crebbe maggiormente la cupidigia del re. — Sarebbe un ottimo partito per mia figlia,» diss’egli. — Temo, sire,» rispose il visir, «che non sia un furbo, il quale si burli di vostra maestà e della principessa sua figliuola. — Sei un traditore,» fece il re,» del quale non posso fidarmi, e non cerchi a dissuadermi da codesto matrimonio, se non perchè ti ho altre volte negata la mano di mia figlia. Cessa di calunniare quest’uomo coi perfidi tuoi discorsi. Non hai veduto come s’intende di perle? Pensa soltanto che collana avrà la mia figliuola... una collana composta tutta di perle di tal grossezza! Ma tu sei un traditore del quale non posso fidarmi. —

«Così il povero visir si trovò costretto al silenzio, ed ebbe anche il dolore di andar egli medesimo a fare a Maruf la proposta di matrimonio. — Perchè no?» rispose costui; «ma bisogna attendere che sia giunta la grande caravana. La dote d’una principessa esige grandi spese, ch’io non sono in grado di fare in questo momento. Mi costerà per lo meno dugentomila borse. Di più, la notte delle nozze ci vorranno mille borse pei poveri, mille per quelli che porteranno i regali, mille pel banchetto, e cento perle delle più grosse da dare in dono alle donne del serraglio. E tutto ciò non può aver luogo se non dopo l’arrivo della grande caravana. — «Tornò il visir dal re per fargli nuove rimostranze sopra l'avventuriero; ma il principe, montando in furore, lo minacciò di fargli tagliar la testa se continuava a parlare così. Comandò poi di chiamare Maruf, e lo pregò vivamente perchè si ammogliasse il più presto possibile, aggiungendo che poteva prendere nel [p. 365 modifica] tesoro reale tutto il denaro di cui avesse bisogno. Si fece allora chiamare il gran mufti per istipular il contratto di matrimonio: la città fu tutta illuminata, e dovunque non vedeansi che feste ed allegrie. Maruf istesso sedè sur un trono, ed una folla di lottatori, di ballerini e musici gli si presentarono per far mostra della loro destrezza e talenti, mentr’egli, fattosi dal tesoriere recare sacchi d’oro, lo spargeva a piene mani; nè questi aveva un istante di riposo, tanto era occupato a portar di continuo nuove borse! ed il visir crepava dal dispetto.

«Durarono quei divertimenti quaranta giorni, ed il quarantunesimo fu quello delle nozze. Il corteggio della fidanzata era d’una magnificenza inaudita; ciascuno la colmava di presenti. Accompagnata dal numeroso suo seguito, fu la nuova sposa condotta nella stanza nuziale. Allorchè tutti si furono ritirati, Maruf si percosse colla mano la fronte, sclamando: — Non v’ha potenza e protezione che in Dio! — Perchè questa esclamazione?» domandò la principessa. — Perchè mi vergogno della trista parte che mi veggo ridotto a rappresentare; ma la colpa n’è soltanto di vostro padre, il quale mi ha costretto a sposarvi prima dell’arrivo della caravana. Avrei voluto darvi, per presente del dì dopo le nozze, una collana delle mie più belle perle, e distribuirne pure alcune alle vostre schiave; ve ne sareste invaghita, avendone d’una bellezza!... non ve n’ha di simili. Ma non perderete nulla; degnatevi solo attendere sino all’arrivo della grande caravana.» E si abbandonò quindi colla sposa a tutti i trasporti dell’amore.

«La mattina appresso Maruf si recò al bagno, indi al divano per ricevere i complimenti della corte e del popolo. Il re, mandato a cercare il gran maestro della guardaroba, gli ordinò di distribuire abiti d’onore della massima magnificenza ai visiri, agli emiri ed ai grandi uffiziali della corona. Venti giorni scorsero così senza udir parlare della caravana; infine il gran tesoriere si trovò nell’impossibilità di sopperire alle spese di Maruf, essendo il tesoro esausto. Approfittò egli dunque d’un [p. 366 modifica] momento in cui il re trovavasi solo col visir, per partecipargli il cattivo stato delle sue finanze. — Questa grande caravana tarda molto a venire,» disse il re. Sorrise il visir, pretendendo che Maruf non fosse se non un avventuriere ed un furbo. — Ma in qual modo, visir, scoprire la verità?» chiese il re. — Sola sua moglie può aiutarci in codesta circostanza. Provate, o sire, se la principessa vostra figliuola non possa, sotto le cortine del talamo nuziale, rischiarare questo mistero. Istruitela come debba, contenersi per strappare il segreto dal marito. — Il consiglio è prudente, e se questo straniero è un birbante, me la pagherà cara. —

«Il re fatta chiamare sul momento la figliuola, le parlò, ma essendo divisi da una cortina, perchè il visir era rimasto col re, questi, presa la parola, fe’ parte alla principessa dei sospetti concepiti sul di lei marito. — Avete ragione,» rispose la principessa, «è un gran ciarlone: non parla che di perle, rubini, diamanti e non veggo mai comparire la sua tanto vantata grande caravana. — Or bene, figliuola, procurate di penetrare questo mistero, e strappargli il segreto allorchè stanotte riposerà nelle vostre braccia. — Saranno adempiti gli ordini vostri, o padre, e vi prometto d’adoperare tutte le astuzie per compiacervi.» E tenne parola: mai non erasi dimostrata sì tenera e carezzevole quanto quella sera allorchè il marito tornò a casa. Aimè! fidatevi delle moine delle donne quand’hanno da ottenere qualche cosa! Le parole della principessa erano più dolci del miele, talchè il povero marito ne aveva affatto smarrito il cervello. — Luce degli occhi miei,» gli diceva ella, «delizia del mio cuore, vita dell’anima mia, le fiamme dell’amor tuo m’hanno tutta accesa! Sagrificherei per te la vita; son pronta a dividere la tua sorte, qualunque esser possa; ma tu non devi aver nulla di nascosto per me: bisogna che mi dica per qual motivo non sia giunta la tua grande caravana. Confessami la verità; se ti confidi a me, io forse potrò trovare il modo di trarti d’impaccio. — È d’uopo confessare la verità, principessa?» disse [p. 367 modifica]Maruf. — Sì,» rispos’ella, «dimmela senza timore. — Or bene,» riprese Maruf, «sappiate ch’io non sono mercante, nè possessore di caravane.» E le raccontò la sua storia. — Voi siete maestro in fatto di furberie,» disse la fanciulla ridendo; «questo racconto mi ha molto divertita. Così, il visir s’era fondato nei sospetti che cercava d’ispirare a mio padre, il quale adesso comincia ad avvedersi di qualche cosa; ma ben capisco non essere del mio interesse l’abbandonarvi al suo sdegno. Che direbbesi mai se si sapesse dalla propria vostra bocca che fui ingannata? È vergogna per una principessa l’abbandonarsi così al primo avventuriere che capita. Se venisse scoperta la verità, vi farebbero morire, ed io mi vedrei costretta ad un nuovo nodo, che sarebbe forse ancor più funesto per me. Abbandonate dunque questi luoghi, prendete questi cinquantamila zecchini che ancor posseggo, balzate a cavallo e ritiratevi in qualche lontano paese, d’onde potremo corrispondere. Io avrò cura di provvedere a tutti i vostri bisogni, e quando sia morto mio padre, vi spedirò sul momento un corriere per richiamarvi presso di me. Ecco, io credo, il miglior partito che possiate prendere nelle presenti circostanze. — Mi metto sotto la vostra protezione, o signora,» rispose Maruf. La principessa gli diede un abito da mamelucco, ed uno de’ migliori cavalli delle scuderie paterne ed egli uscì dalla città senza essere scoperto.

«Alla domane il re fece chiamare la figliuola per intertenersi seco, ma erano divisi da una cortina come la prima volta. — Ebbene, figlia,» disse il re, «cosa avete saputo? — Dio maledica il vostro visir,» rispose la principessa, «e gli annerisca il volto come carbone! — E perchè? — Perchè calunniò presso di voi il mio sposo. Ier sera, prima di parlargli, vidi entrare nella mia stanza un eunuco, con una lettera in mano, il quale annunziò che dieci mamelucchi gli avevano consegnata quella lettera e l’attendevano alla porta. In pari tempo fe’ nota al mio sposo la nuova di cui quei mamelucchi erano latori. Aprì egli la lettera; era del capo dei [p. 368 modifica] cinquanta schiavi che accompagnavano la grande caravana, il quale gli annunziava come avessero incontrato un’orda di Arabi che avevano voluto contrastar loro il cammino; il che era la prima cagione del ritardo. Quindi erano stati assaliti da altri Arabi, e n’era risultato un combattimento nel quale aveano perduto cinquanta mamelucchi e dugento balle di merci. — Cosa sono dugento balle? disse il mio sposo, dopo aver finito di leggere; sono appena novecentomila zecchini: tal perdita non merita di parlarne. Bisogna sollecitare l’arrivo del resto della carovana.» Discese poi con viso ridente, ed essendomi accostata alla finestra, vidi i dieci mamelucchi che aveano portato la lettera, belli come la luna, e ciascuno con un abito che valeva ben duemila zecchini. Cosa sarebbe avvenuto se io avessi parlato come mi avevate detto? avrei fatta una stolida figura; ma ben veggo che tutto ciò proviene dal visir, il quale vorrebbe perdere mio marito.» Montò il re in violento furore contro il visir, il quale fu intanto costretto a starsene in silenzio. «Nel frattempo Maruf fuggiva sempre, gemendo di vedersi diviso dalla principessa, ed esalando di tempo in tempo il suo dolore con lamenti analoghi alla sua situazione. Corse di gran galoppo sin verso la metà del giorno, e trovatosi allora vicino ad un piccolo villaggio, vide in un campo un agricoltore che guidava un paio di buoi. Siccome Maruf moriva di fame, si accostò a quell’uomo per salutarlo. — Siete uno de’ mamelucchi del re?» gli disse il contadino; «siate il ben venuto! — Potresti darmi qualche cosa da mangiare?» domandò Maruf — Il villaggio è piccolo,» rispose il Fellah2; «ma vi porterò quello che vi sarà. — Rimanti al tuo lavoro,» disse Maruf. Ma il paesano lasciò l’aratro, e corse al villaggio per prendervi cibi. — Questo brav’uomo,» disse Maruf tra sè, «lascia il suo lavoro soltanto per favorirmi: bisogna ch’io mi provi ad arare, e fare una parte del suo lavoro, in compenso del tempo che [p. 369 modifica] perde per me.» Aveva appena avanzato coll’aratro qualche passo, che il vomere intoppò in qualche cosa di resistente; volendo vedere che fosse, trovò un anello d’oro fitto in una tavola di marmo spezzata. Toltane la terra, alzò la tavola di marmo, e vide una scala che conduceva in un sotterraneo, della grandezza d’un bagno, e dall’alto al basso pieno d’oro, d’argento, di smeraldi, rubini, e d’una moltitudine d’altri oggetti preziosi d’impareggiabil valore. Percorse poi parecchie camere che contenevano le medesime ricchezze, ed entrò in una sala ove vide una scatoletta d’oro rinchiusa in una cassa di cristallo. Curioso di sapere il contenuto di quella scatola, l’aprì e vi trovò un anello d’oro, sul quale erano incisi, in caratteri estremamente minuti, parole misteriose e talismani. Soffregato alquanto l’anello, Maruf udì una voce sclamare: — Che vuoi? che vuoi, padrone?» E nel medesimo tempo vide comparire un essere, che gli volse queste parole: — Quali sono gli ordini tuoi? domanda, comanda! Qual paese si dove coprire di fiori? qual paese devastare? Qual esercito bisogna sconfiggere? qual re si deve far morire? quali monti spianare? qual mare diseccare? Domanda, comanda! Io sono tuo schiavo per licenza del padrone degli spiriti, del creatore del giorno e della notte! — Chi sei tu?» chiese Maruf — Sono,» rispose la figura, «un genio, e lo schiavo di quell’anello e dei nomi potenti che vi sono scolpiti; sono soggetto al padrone dell’anello, e n’eseguisco tutti gli ordini. Nulla mi è impossibile, essendo un re di geni, e comando a settantadue tribù, ciascuna delle quali composta di dodicimila geni della mia specie, chiamati, aun. Ciascheduno di questi aun tiene sotto i suoi ordini mille isril, ogni isril mille sceitau, ed ogni sceitau mille geni inferiori; tutti mi sono sommessi e m’obbediscono. Ma io poi sono sommesso a quest’anello, e per quanto grande sia il mio potere, obbedisco a colui che lo possiede. Così, io sono tuo schiavo devoto. Domanda, comanda! ascolto gli ordini tuoi ed obbedisco: ti sono soggetto, e gli [p. 370 modifica]ordini tuoi saranno adempiti colta massima npidità. Quando dunque tu abbia bisogno del mio aiuto, sia sulla terra o sul mare, frega l’anello e chiamami per la virtù dei nomi che vi sono incisi, e vedrai quello che posso fare. — Ma come ti chiami?» domandò Maruf; «bisogna che almeno sappia il tuo nome per evocarli. — Mi chiamo Abusaadet,» rispose il genio, «vale a dire Padre della Felicità. — Or bene, Abusaadet, in qual luogo ci troviamo ora, e chi ti ha assoggettato all’anello? — Padrone, questo luogo è il tesoro di Scedad, figliuolo di Aad, e che fabbricò la celebre città d’Irem Zatolamed. Durante la sua vita gli fui schiavo, ed è l’anello suo quello che ora voi possedete. — Potresti tu portare sulla terra tutti i tesori qui nascosti? — Nulla di più facile. — Bene, fallo,» disse Maruf. Spalancossi allora la terra, e si videro comparire due giovinetti di grande bellezza, che empirono d’oro alcuni panieri sinchè nulla più rimase nel tesoro. — Chi sono quei due amabili giovinetti?» chiese Maruf. — Sono i miei due figli,» rispose Abusaadet, «poichè non posso adoperare altri in questo lavoro, al quale tutti i geni non convengono. Padrone, abbiamo adempito gli ordini vostri; cosa volete ancora? — Potreste procurarmi casse e muli per portar via tutti questi tesori? — Nulla di più facile.» Mandò il genio un grande strido per chiamare tutti i suoi figliuoli, che subito comparvero in numero di seicento. All’ordine del padre, la metà di essi si tramutò in muli, e l’altra metà in mulattieri ed in mamelucchi montati sopra superbi cavalli, i quali erano altrettanti geni d’ordine inferiore che servivano di cavalcatura agli altri di grado più elevato. Caricaronsi sui trecento muli le casse piene d’oro e di pietre preziose, ed allora: — Potreste procurarmi stoffe?» domandò Maruf. — In abbondanza,» il genio rispose. «Volete stoffe di Siria, o d’Egitto, dell’Indie o della Persia, della China o di Grecia? — Portami, cento carichi di ciascuna di esse. — Padrone,» ripigliò il genio, «concedimi qualche tempo, onde mandi in ciascheduna di quelle lontane regioni, i geni che [p. 371 modifica] trovatisi sotto i miei ordini. Il giorno sta per finire; saranno qui di ritorno prima che sorga l’aurora. — «Maruf comandò quindi che gli erigessero un padiglione ed una tavola imbandita, il che fu sul momento eseguito. — Lascio alcuni dei miei figli per vegliare alla vostra sicurezza,» disse il genio, «mentre corro ad occuparmi dei vostri ordini.» Appunto in quell’istante tornava il fellah dal villaggio con un piatto di lenti, pane nero ed orzo; ma quando vide la tenda ed i mamelucchi che ne stavano all’ingresso, credette che fosse il re. — Mio Dio!» disse tra sè, «perchè non ho ucciso le mie due galline, facendole cuocere per servirle in tavola al sultano?» Avendolo Maruf veduto, ordinò ai mamelucchi di farlo entrare, e quindi: — Cosa mi porti?» gli chiese. — La vostra cena e quella del vostro cavallo,» rispose il villano. «Ma scusatemi,» proseguì; «se avessi potuto immaginarmi che il sultano si fermasse qui alcuni istanti, avrei fatto cuocere nel burro le mie pollastre. — Io non sono il sultano,» rispose Maruf,» ma un suo parente; per alcune differenze ch’ebbimo insieme, lasciai la corte: ma mi ha mandato questi mamelucchi per annunziarmi che vuol riconciliarsi. Voi vi compiaceste di satollarmi senza conoscermi; ve ne sono assai grato, e benchè non siano che lenti, ne mangerò con piacere. —

«Poi comandò che si portassero i cibi, ed il fellah rimase stupito per la varietà dei colori ed il profumo de’ molti piatti. I rimasugli furono dati ai mamelucchi. Maruf prese un piatto, e riempitolo d’oro, ne fece dono al fellah che, coll’aratro ed i buoi, tornò a casa, convinto che il forastiero fosse un parente del re.

«Maruf passò la notte a bere ed a veder le carole delle giovinette condotte dai geni per divertirlo. Verso la mattina si videro da tutte le parti apparire immensi vortici di polvere. Erano settecento mule cariche di stoffe, guidate dagli schiavi necessari. Il genio rappresentava il capo della carovana, alla cui testa egli era portato in una magnifica lettiga [p. 372 modifica] adorna di gemme. Il genio discese, e baciata dinanzi a Maruf la terra, gli disse: — Padrone, i tuoi ordini sono eseguiti. In questa lettiga trovasi un bogià formato delle più rare stoffe. Potete salirvi se volete, e darmi nuovi ordini — Bramo,» disse Maruf, «che prendendo forma umana, tu corra a portare questa lettera al re di Sohatan.» Il genio prese il foglio, e lo portò al re, precisamente nell’istante in cui il principe diceva al ministro: — Visir, mi trovo in grande imbarazzo a cagione di mio genero: temo non sia caduto in mano di Beduini che abbiano saccheggiata la sua carovana. Se sapessi almeno cos’è stato di lui... — Possa Iddio dissipare il vostro errore!» disse il visir. «Pei giorni sacri di vostra maestà, quest'uomo fuggì per timore di essere scoperto, non essendo egli altro che un avventuriere ed un furbo.» In tale istante il genio, trasformato in corriere, entrò e baciò la terra. — D’onde vieni?» chiese il re. - Da parte di vostro genero, o sire,» il genio rispose; «ei si avvicina alla testa della sua grande caravana, e mi ha spedito innanzi con questa lettera per annunziarvi il suo arrivo. — Dio maledica la tua barba, visir!» sclamò il re; «finalmente, traditore, sei per essere convinto della grandezza di mio genero!» Il visir gli si gettò alle ginocchia senza rispondere sillaba.

«Il re fece illuminare la città, e recossi nel serraglio per annunziare alla figliuola la felice notizia. È impossibile dipingere il di lei stupore, non sapendo ella se il marito si beffasse del re, oppure se avesse voluto beffarsi di lei medesima. Ma niuno rimase più stupito di tale notizia del mercante Alì, del Cairo, il quale presentando da principio il suo amico agli altri mercanti della città, gli aveva procurato quel gran credito. Credette che fosse un’astuzia con cui la principessa volesse imporre al re per salvare lo sposo, e fece fra sè voti per la felicità dell’amico, mentre gli altri mercatanti tutti si rallegravano nella speranza della prossima ricuperazione del loro denaro.

«In quel mentre, Maruf, vestito dei magnifici [p. 373 modifica] abiti chiusi nel bogià3, del quale abbiamo pariato, smontò dalla lettiga. La comitiva che l’accompagnava era mille volte più splendida di quella del re, ed all’aspetto di tanta magnificenza, il principe ed i grandi della corte sollecitaronsi a venire a salutarlo. Entrò egli nella città, seguito da immenso corteggio, e tutti i mercatanti vennero a prosternarseli dinanzi, mentre Alì, avvicinatosi più degli altri, gli disse all’orecchio: — Sii il ben venuto, fortunato mariuolo, ed il più destro tra’ furbi.» Maruf si mise a ridere. Giunto al palazzo, sedette sur un trono, e comandò di trasportare nel tesoro del re le casse piene d’oro, ma di portare a lui medesimo quelle che contenevano le stoffe, le perle e le pietre preziose, aperte le quali in sua presenza, distribuì le stoffe e le perle ai grandi della corte ed alle donne del serraglio. Fece quindi grandi largizioni ai membri del divano, ai mercanti della città, ai soldati, ed in somma a tutti quelli che trovavansi in bisogno. Nè il re potè impedirgli di dissipare in regali le settecento casse di stoffe, ed inoltre gli smeraldi, le perle ed i rubini; chè gettava quelle gioie a mani piene o senza contarle. — Basta! basta!» sclamava il re; «non vi resterà nulla! — Oh! non temete,» dicea Maruf, «ne ho una quantità inesauribile.» Niuno poteva più accusarlo di menzogna, avendo sin allora mantenuta la parola in quanto aveva annunziato.

«Frattanto il gran tesoriere venne a riferire al re che il tesoro era pieno d’oro e d’argento, e che bisognava scegliere un altro locale; il che fu fatto. Vedeva il principe con sommo stupore la ricchezza e liberalità di Maruf, e non sapeva quale delle due superasse l’altra. Nondimeno niuno provava maggior sorpresa di sua moglie, la quale, essendosi egli da lei recato, gli baciò le mani e l’accolse con volto ridente. — Avete voluto divertirvi a mie spese,» gli disse, «e mettere alla prova la mia fede, tessendomi la storia della vostra povertà? Ringrazio il cielo di [p. 374 modifica] essermi in questa contingenza condotta in modo conforme ai miei sentimenti; poichè ricco o povero, non mi sareste stato meno caro, ed io non vi amo se non per voi medesimo, e non per le vostre ricchezze. —

«Maruf, allontanatosi, entrò in un gabinetto dove fece comparire il genio, chiedendogli un abito magnifico per la sua sposa ed una collana di quaranta perle grosse come uova, cento vesti magnifiche, da distribuire alle prime ancelle della principessa. Il re intanto non sapeva cosa pensare di tutto ciò che vedeva, e consultò il suo visir, stimando che questi potesse dargli qualche schiarimento. — È evidente,» disse il visir, «ch’ei non è un mercatante poichè dove troverebbe tesori che superano quelli del re? Checchè ne sia, sire, le sue ricchezze, la sua potenza possono per noi diventar pericolose. Se mi fosse lecito darvi consigli, impegnerei vostra maestà ad assicurarsi, in circostanze favorevoli, della sua persona. — Ma come? — Invitatelo ad un convito, e fatelo bere sinchè perda la ragione; allora sarà in poter vostro. — Avete ragione, visir, penserò a seguire il consiglio.—

«Allorchè il re recossi nel giorno dopo al divano, vi giunsero tutti i palafrenieri della corte per annunziare che le settecento mule ed i trecento cavalli della caravana erano tutti spariti insieme ai mamelucchi che li accompagnavano. Si andò a narrar la cosa a Maruf, il quale: — Andatevene,» rispose in collera, e poco m’importa che quelle mule e quegli schiavi siano qui, o altrove. Ne ho degli altri. —

«Intanto il re fece invitare il genero ad una partita di piacere in giardino; accettato da Maruf l’invito, recaronsi per tempo nel padiglione, dove piacevolmente conversarono sino all’ora di pranzo. Il re si occupò a far bere Maruf all’eccesso, e quando fu compiutamente ebbro, gli disse: — Più penso ai vostri tesori, e più mi riesce impossibile comprendere dove possiate prendere tante gioie. Non ho mai veduto mercante che vi somigli; avete una comitiva da re, e fareste bene a palesarmi il mistero della vostra nascita e del vostro grado, affinchè vi renda tutti gli onori [p. 375 modifica] che meritate.» Maruf, che dilettavasi molto di ciarlare, e di più era ubbriaco, non si fece pregare e narrò tutta la sua storia. — Ve ne scongiuro,» gli disse il re, «mostratemi l’anello che possiede sì maravigliose virtù.» Siccome Maruf era affatto privo di ragione, diede, senza sapere quello che si facesse, l’anello al visir, il quale strofinatolo, e comparso il genio: — Domanda, comanda!» disse; «ascolto ed obbedisco: sono tuo schiavo, ed eccomi ad eseguire i tuoi ordini. — Ti comando,» soggiunse il visir, «di portare questo miserabile in qualche deserto, acciò vi muoia d’inedia.» Il genio prese tosto l’antico suo padrone, e seco lui s’innalzò nell’aria; ma quando Maruf si vide tra cielo e terra, riprese l’uso della ragione. — Dove mi conduci?» chiese al Padre della Felicità. — Cerco,» rispose il genio, «un deserto spaventoso, affinchè vi trovi il castigo che merita l’azione insensata da te commessa, privandoti del talismano che mi rendeva tuo soggetto. Se fosse in me, ti precipiterei in quest’istante sulla terra, acciò il corpo tuo si sfracellasse in mille pezzi, ma il timore di Dio ed il poter dell’anello mi costringono ad adempire gli ordini del mio signore.» Il genio adunque depose Maruf in un luogo deserto e selvaggio.

«Intanto il re ed il visir discorrevano intorno alla fatta scoperta. — Non vi aveva io predetto, o sire,» diceva il visir, «che non era se non un avventuriere ed un impostore? — Hai ragione,» rispose il re, e sei un suddito leale e fedele. Dammi l’anello. — Come! che vi dia l’anello? Mi prendete per un pazzo? Tocca a voi ad obbedirmi; adesso son io il vostro padrone per la potenza dell’anello, ed eccomi a provacelo.» Ciò detto, evocò il genio. — Porta,» gli disse, «questo cane dove hai già portato l’altro.» Il genio depose il re nello stesso luogo, ov’era Maruf, gemente sul proprio destino, ed alle cui lagrime mescolò le sue, vedendosi esposti a morire di fame.

«Intanto il visir, dal canto suo, affrettossi a convocare il divano, e colà esposto che la felicità del popolo e la tranquillità dello stato aveano richiesto l’esilio dell’ultimo re e di suo genero, ch’era un [p. 376 modifica] avventuriere, dichiarò d’essere sultano per la volontà di Dio e pel potere del suo anello. — Se negate di obbedirmi,» soggiunse, «vi manderò sull’istante a far compagnia a quell'insensato. — No! no!» gridarono tutti; «noi siamo obbedienti e fedeli sudditi di vostra maestà. Voi faceste il vostro dovere, e noi faremo il nostro. Non vogliamo altro sultano che voi. —

«Poi l’usurpatore fattosi prestare giuramento di fedeltà, investì i grandi dell’impero delle nuove loro dignità, facendoli vestire d’abiti d’onore. Mandò in pari tempo a dire alla principessa di prepararsi a riceverlo in quella notte nel suo letto, avendone vivissimo desiderio. Tal messaggio venne ad accrescere la disperazione della principessa, la quale fece pregare l’usurpatore di attendere almeno che fosse scorso il tempo del lutto, aggiungendo che allora si uniformerebbe al suo volere; ma ei rispose di voler assolutamente che le nozze si celebrassero nella medesima sera. Anche il gran muftì gli rappresentò essere disdicevole concludere subito quel matrimonio, ma il re non ascoltò nulla, e tutti i ministri dalla religione videro ch’era un empio.

«Ricorrendo allora all’astuzia, la principessa si vestì magnificamente, ed accolto l’usurpatore con volto ridente e soddisfatto, si mise a solleticarlo con alquante carezze, nell’idea d’impadronirsi dell’anello. — Bastano gli scherzi,» disse il sultano; «colmate le mie brame. — Ahi» ripigliò essa, «mi vergognerei, essendovi qui taluno, che ci può vedere. — Dov’è costui?— Nel vostro anello,» rispose la principessa; «mi vergognerei d’essere veduta perfin dagli spiriti. Cavatevi l’anello e mettetelo da parte.» Il sultano si trasse l’anello, lo pose sotto il capezzale, quindi s’accostò alla principessa; ma questa gli lasciò andare un calcio sì potente nel ventre, che lo stramazzò a terra: poi chiamato aiuto, accorsero alle grida le sue quarantatrè schiave, alle quali essa comandò di prendere l’usurpatore, ed impossessatasi dell’anello, lo fregò. — Che vuoi, mia sovrana?» disse il genio comparendo, - Assicurati di questo mostro,» gli rispos'ella, «e riconducimi mio padre col mio sposo.» [p. 377 modifica] Gettò il genio in un carcere il visir, e volò a partecipare al re ed a Maruf il felice mutamento. La principessa li accolse con inesprimibile allegrezza: subito si posero a tavola, cosa che non aveano fatto da lungo tempo, e quindi si abbandonarono al riposo. Alla domane, il re annunziò alla figliuola che tornava a salire sul trono, col genero alla destra in qualità di visir, per procedere alla condanna del traditore, il quale aveva voluto sposarla prima che fosse spirato il termine del lutto. — Questa sola azione,» aggiunse, «prova com’ei fosse un empio nimico di Dio, come asserisce il gran muftì. Lo farò impiccare, e quindi ardere. Ma, figliuola, dà a me l'anello, e non a tuo marito. — No,» rispose la principessa, «non l’avrete nè l’uno nè l’altro, giacchè niuno lo seppe conservare. — È giusto: ora vado al divano; bisogna pure che metta in calma l’esercito, dove regna l'inquietudine in conseguenza dell’occorso. —

«Fu convocato il divano, e prima di tutto s’interrogò il gran muftì sul contratto di matrimonio fatto contro tutte le regole. Rispos’egli di non aver potuto agire altrimenti con un uomo, al quale l’anello dava tanto potere. Mentre il divano era ancora adunato, entrò il re col genero. Tutta l’assemblea fu trasportata di gioia al rivederlo. Si condusse poi l’usurpatore in faccia all’esercito che, copertolo d’oltraggi, lo abbandonò quindi alle fiamme. Fu Maruf rivestito della carica di visir, ed esercitatala con universale approvazione pel corso di cinque anni, in capo a tal termine il re morì, e gli succedette nel trono suo figlio, dell’età di soli sei anni. Ma morto anche questo dopo breve tempo, la principessa prese le redini dell’impero, senza però cedere l’anello, che mai sempre custodì colla massima cura. Poco dopo fu assalita da malattia pericolosa, e fatto chiamare al letto lo sposo, gli raccomandò il figlio avuto da lui e gli rese l’anello. Due giorni dopo essa non era più.

«Maruf regnò tranquillo in sua vece. Una sera, ritiratisi gli uffiziali, e mentre andava a coricarsi, entrò per preparargli il letto una vecchia, alla quale ei non prestò veruna attenzione. Appena si fu [p. 378 modifica] addormentato, quella donna si spogliò, e coricossegli accanto; svegliatosi Maruf ed accortosi di avere qualcheduno coricato al fianco: — Gran Dio!» sclamò; «proteggimi contro le tentazioni di Satana. — Oh! non v’è pericolo,» disse una voce stridula; «sono la vostra legittima consorte Fatima la Megera. — Sciagurata!» gridò Maruf riconoscendola; e quando sei venuta qui? — In questo medesimo istante. Devi dunque sapere che, dopo la tua fuga, il cadì mi fece castigare pei tiri che ti aveva giuocati, e de’ quali ora mi pento, ma troppo tardi. Versai del continuo giuste lagrime sulla tua assenza, e mi vidi ridotta a domandare l’elemosina per le vie. Ieri aveva indarno percorsa tutta la città; niuno mi aveva dato la minima cosa, e da per tutto era stata ricevuta con mille ingiurie; immersa nella disperazione, tornava a casa piangendo a calde lagrime, allorchè d’improvviso vidi comparire una figura di aspetto straordinario, la quale: — Donna, perchè piangi?» mi domandò. — Perchè sono divisa da mio marito,» risposi all’apparizione, «nè so dove trovarlo. — Come si chiama questo tuo marito? — Maruf. — Lo conosco; egli è ora sultano della città di Kaitan, nel paese di Sohatan. Se vuoi, io ti trasporto colà.» Allora il genio, sollevandomi in aria, mi depose, senza farmi conoscere, in questa sala dove trovasi il tuo letto. In fine, grazie a Dio, sono al tuo fianco come tua legittima e fedele consorte.» Maruf le raccontò tutta la sua storia, dall’istante in cui era partito dal Cairo sino al giorno ch’era re, ed aveva un figliuolo di sette anni. — Tutto ciò era scritto lassù,» disse Fatima; «ma dimentica il passato, e permetti che rimanga qui: non chieggo se non di vivere d’elemosina.—

«Maruf, lasciatosi commovere dai segni della sua umiltà e pentimento, immaginò che la moglie fosse a di lui riguardo affatto cambiata, e: — Resta pure,» le disse; «ma il più legger capriccio che ti prenda, lo pagherai colla vita, lo giuro. Non immaginarti che mi lasci citare dinanzi un tribunale e trascinare da uno in altro cadì. Ora sono sultano; tutti mi temono, ed io non temo nessuno. Inoltre, ho a’ miei ordini un [p. 379 modifica] potente genio, chiamato Abusaadet, il quale fa quanto gli comando. Se vuoi tornare con me al Cairo, farò fabbricare un palazzo di marmo adorno di tappeti di seta. Avremo venti schiavi ai nostri ordini, buona tavola, abiti magnifici, e condurremo vita piacevole e tranquilla. T’appigli a questo partito, o vuoi meglio essere regina qui?» Fatima gli baciò la mano, e disse che gli lasciava la scelta. Maruf la fece regina per ricompensarla della sua sommissione. Durante il giorno la trattava con tutti i riguardi, ma la trascurava di notte, perchè avendo molte belle e giovani schiave, e Fatima essendo vecchia, egli l'aveva in avversione, e quantunque le usasse le massime attenzioni, era tra loro passato il tempo dell’amore. Come dice un poeta, il cuore somiglia al vetro; spezzato una volta, i frammenti non si ricongiungono mai più.

«Allorchè Fatima venne a scoprire la condotta del marito, ne concepì mortal gelosia, ed il demonio le suggerì l’idea di rapire l'anello ed uccidere il marito per impadronirsi dell’impero. Per eseguire tal disegno, recossi ella una notte nell’appartamento, dove il re soleva dormire con una giovane schiava. Se non che temendo di aver la sorte del visir al quale la regina aveva tolto l'anello fra le carezze che gli faceva, Maruf non lo portava mai in dito, collocandolo alla notte sotto il capezzale e chiudendo alla mattina, quando andava al bagno, la porta del gabinetto con diligenza, affinchè niuno vi potesse penetrare. La notte che Fatima voleva mettere ad effetto l’iniquo disegno, il figliuoletto di Maruf trovavasi nella galleria per la quale passava la vecchia megera, e la vide dirigersi rapidamente nell’oscurità verso la camera del padre. Dubitando colei non meditasse qualche scelleraggine, la seguì senza rumore. Portava il giovanetto di solito una piccola scimitarra, e quando udì camminare la vecchia, la impugnò. Suo padre ed i cortigiani solevano motteggiarlo per quella sciaboletta, ed il re: — Non hai ancor potuto con quella tagliare una sola testa,» gli diceva. — Devo,» rispondeva il giovanetto, «devo provarla su d’una testa che meriti di essere tagliata.» Seguì dunque [p. 380 modifica] Fatima sino alla stanza del padre, che trovavasi immerso in profondo sonno. La vecchia cercò l’anello, ed allorchè l’ebbe trovato, voleva ritirarsi; ma il principino la trafisse, prima che fosse fuor della camera. Destossi Maruf, ed al chiaror della lampada si avvide della moglie immersa nel sangue, e di suo figlio, che le stava accanto colla sciabola in pugno. — Che mai facesti, figlio mio?» gli disse. — Non vi aveva spesso detto,» rispos’egli, «che cercava alla mia sciabola una testa che meritasse d’essere tagliata? Vedete; ne ho fatto il saggio.» Raccontò poi al padre l’accaduto, e Maruf lo colmò di lodi per sì bella azione.

«Poco dopo, avendo il re fatto venire alla corte il fellah che lo aveva sì ben accolto nel campo dove trovò il tesoro di Scedad, lo nominò suo visir e ne sposò la figlia, colla quale visse felicissimo sino al momento che inesorabil morte, che nessuno risparmia, venne a metter fine alla sua felicità.»


  1. Collegio o stabilimento dell’istruzione pubblica.
  2. Fellah in arabo, significa agricoltore, contadino.
  3. Bogià, pacco, viene dall'indiano pugià, offerta di fiori, perchè gli scialli che formano questi pacchi sono tessuti a fiori.