Pagina:Il Baretti - Anno II, n. 1, Torino, 1925.djvu/4: differenze tra le versioni

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Il Sainte Beuve ha trovato la sua forma nei «Portraits»,. curioso e amorevole vagabondaggio in cerca di fratelli lontani; il nostro scrittore, invece, nelle «Memorie», ove l’interesse sì fa più caldo e più vivo, trattando di persone e di cose da lui medesimo conosciute. L’ultimo Martini giova a farci comprendere, come non potevamo prima, quello {{??|di ieri. Passano}} in seconda linea quelle che erano potute apparire note essenziali: sappiamo che {{??|il suo sorriso non è la smorfia}}» dell’uomo di spirito contraente il glabro volto alla stirata freddura, ma la manzoniana ironia di {{??|un moralista, che indulgentemente}} sorride delle umane debolezze. E le qualità più {{??|profonde}}, che si disperdevano in una superficiale dilatazione giornalistica, si raccolgono intorno a un nucleo limitato sì, ma preciso, Possiamo ora definire con certezza Ferdiando Martini come il poeta di un ristretto mondo provinciale, ricreato con un appassionata indagine psicologica.
Il Sainte Beuve ha trovato la sua forma nei «Portraits»,. curioso e amorevole vagabondaggio in cerca di fratelli lontani; il nostro scrittore, invece, nelle «Memorie», ove l’interesse sì fa più caldo e più vivo, trattando di persone e di cose da lui medesimo conosciute. L’ultimo Martini giova a farci comprendere, come non potevamo prima, quello {{??|di ieri. Passano}} in seconda linea quelle che erano potute apparire note essenziali: sappiamo che {{??|il suo sorriso non è la smorfia}}» dell’uomo di spirito contraente il glabro volto alla stirata freddura, ma la manzoniana ironia di {{??|un moralista, che indulgentemente}} sorride delle umane debolezze. E le qualità più {{??|profonde}}, che si disperdevano in una superficiale dilatazione giornalistica, si raccolgono intorno a un nucleo limitato sì, ma preciso, Possiamo ora definire con certezza Ferdiando Martini come il poeta di un ristretto mondo provinciale, ricreato con un appassionata indagine psicologica.


La storia che lo ispira non è quella composta nella solenne lontananza dell’eterno, quella che ci raffiguriamo con un brivido fra le rovine di Roma antica, o per le vie di un nobile comune italico. È una storia {{??|vicu.a e taiieuuosa}} nostalgia dell’irrevocabile passato vela dì mestizia il ricordo.
La storia che lo ispira non è quella composta nella solenne lontananza dell’eterno, quella che ci raffiguriamo con un brivido fra le rovine di Roma antica, o per le vie di un nobile comune italico. È una storia {{??|vicina e l'affettuosa}} nostalgia dell’irrevocabile passato vela dì mestizia il ricordo.


Oltre che per questo loro incanto particolare, le «Confessioni» sono il capolavoro dello scrittore e uno dei libri {{??|più belli della}} presente stagione letteraria per {{??|altre rare}} virtù artistiche. Il Martini è un grande ritrattista. Come stagliano nette le aggrinzite sue ligure sullo sfondo grigio, popolato di vecchie case! Come emergono coi loro tabarri e coi loro cilindri 1850! Tutto un mondo vien fuori, un mondo di ritratti, di macchiette, di uomini o celebri o ignoti, felicemente fissati con un tratto sicuro di penna. Vero toscano, egli disegna {{??|all'antica}}, come un quattrocentista, col solido nerbo di un Pollaiolo: punta secca, contorni angolosi, rilievi evidenti. Pure nulla in lui dell’artista puro, che gode nel ritrarre un pezzo di realtà esteriore; non un tratto inutile non un elemento puramente decorativo: l’aspetto fisico dice il morale.
Oltre che per questo loro incanto particolare, le «Confessioni» sono il capolavoro dello scrittore e uno dei libri {{??|più belli della}} presente stagione letteraria per {{??|altre rare}} virtù artistiche. Il Martini è un grande ritrattista. Come stagliano nette le aggrinzite sue ligure sullo sfondo grigio, popolato di vecchie case! Come emergono coi loro tabarri e coi loro cilindri 1850! Tutto un mondo vien fuori, un mondo di ritratti, di macchiette, di uomini o celebri o ignoti, felicemente fissati con un tratto sicuro di penna. Vero toscano, egli disegna {{??|all'antica}}, come un quattrocentista, col solido nerbo di un Pollaiolo: punta secca, contorni angolosi, rilievi evidenti. Pure nulla in lui dell’artista puro, che gode nel ritrarre un pezzo di realtà esteriore; non un tratto inutile non un elemento puramente decorativo: l’aspetto fisico dice il morale.

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8 il baretti

MARTINI

Della Firenze granducale Ferdinando Martini è un sopravvissuto: tutto il nuovo mondo venuto formandosi negli ultimi decenni, abiti di vita e di cultura, problemi e tormenti spirituali, gli è estraneo: è rimasto volto all’indietro verso l’età, nella quale trascorse la sua giovinezza, ed ebbe affetti e passioni e luoghi e persone care, disparso tutto nel profondo del tempo.

Posizione particolarmente felice, perchè la tarda età e la distanza degli anni gli consentono ora quella sorta di amore distaccato, venato di rimpianti, che si porta alle rimembranze di un tempo che fu. Ne nasce un’atmosfera suggestiva, tutta particolare: e i fatti perdono gli stacchi violenti, le tinte calde, i contrasti d’ombra e di luce; tutto s’appiana in un dolce chiarore, che ogni cosa ugualmente rivela e dipinge, dandole giusto risalto e appropriato colore. La ragione e il sentimento, il sereno giudizio dello storico c il cuore del poeta, del pari concorrono nel creare una tale visione del mondo: posato ragionare, calmi affetti, bonaria ironia.

Questo atteggiamento, consueto al Martini, è tutto esplicito in «Confessioni e Ricordi di Firenze Granducale». Manca al Martini la forza di crearsi un proprio mondo, extratemporale, nel quale vivere da gran signore, dettando leggi, facendo e disfacendo a suo piacere: l’arte sua nasce tutta in margine alla storia, come una serie di attente postille: più che un creatore, egli è un delicato alluminatore del gran libro di Clio. La gioia di ricostruire fatti, luoghi, persone, è centrale nel suo temperamento: interesse storico che è però schiettamente psicologico. Altri ha giustamente notato come nella storia egli ricerchi l’aneddoto, il fatterello, e come le grandi cose s’impiccioliscano nelle sue mani: ma perchè la notazione sia esatta, è necessario comprendere l’intima causa di questa costante riduzione del trascendente storico alle anime dei singoli attori. Neppure i luoghi hanno autonomo valore nell’arte martiniana, chè solo gl’importano per le persone che li abitarono, per i vestigi di vita che serbane; assai rara è la contemplazione obliosa di paesaggi e di monumenti goduti per la loro bellezza sola. Ciò che principalmente lo attrae è l’uomo: non l’uomo ritratto, «sub specie aeterni», in quella che noi ameremmo chiamare psicologia metafisica, nella rarefatta atmosfera ove si aggirano, fra sovrumane passioni e sovrumani pensieri, le grandi anime; bensì l’uomo sociale, quello che può vedere il buon senso della psicologia spicciola, mosso da piccoli e comuni sentimenti, da piccole e comuni idee: a questo livello ridotti anche gli uomini più insigni.

Egli difatti non riesce nei romanzi e nelle commedie di tipo sentimentale, moda secolo XIX, ove si tratta di creare personaggi agitati da vere passioni. Se ne prenda uno qualsiasi. «La Marchesa», per esempio; e si vedrà la falsità generale del libro derivare dall’impossibilità del Martini a vivere esseri tragici: il primo a sorridere incredulo delle loro declamazioni è il romanziere; sebbene non giunga a tal punto di raffinata ironia, da distruggere egli medesimo le proprie creature, che sarebbe la salvezza.

E’ ormai cosa sin troppo ovvia e pacifica che il meglio della passata produzione martiniana è da cercarsi negli articoli, ne’ quali appunto l’attitudine a ricostruire avvenimenti, a ritrarre persone e luoghi ha libero campo. Qualità ben più profonda questa dello spumeggiante gioco di arguzie, onde sono intessute certe agili cicalate, che valsero al Martini la fama — interiore a’ suoi menti — di elegante causeur alla francese, tipo Faguet. Non si può certo negare che il suo sottile gusto psicologico, il suo modo di far l’articolo storico-letterario in forma di ritratto, lo ricolleghino alla tradizione del Sainte Beuve. Ma l’interesse che lo muove è molto più limitato e meno profondo: non spazia nei secoli; si aggira cautamente tra argomenti contemporanei o vicini.

Il Sainte Beuve ha trovato la sua forma nei «Portraits»,. curioso e amorevole vagabondaggio in cerca di fratelli lontani; il nostro scrittore, invece, nelle «Memorie», ove l’interesse sì fa più caldo e più vivo, trattando di persone e di cose da lui medesimo conosciute. L’ultimo Martini giova a farci comprendere, come non potevamo prima, quello di ieri. Passano in seconda linea quelle che erano potute apparire note essenziali: sappiamo che il suo sorriso non è la smorfia» dell’uomo di spirito contraente il glabro volto alla stirata freddura, ma la manzoniana ironia di un moralista, che indulgentemente sorride delle umane debolezze. E le qualità più profonde, che si disperdevano in una superficiale dilatazione giornalistica, si raccolgono intorno a un nucleo limitato sì, ma preciso, Possiamo ora definire con certezza Ferdiando Martini come il poeta di un ristretto mondo provinciale, ricreato con un appassionata indagine psicologica.

La storia che lo ispira non è quella composta nella solenne lontananza dell’eterno, quella che ci raffiguriamo con un brivido fra le rovine di Roma antica, o per le vie di un nobile comune italico. È una storia vicina e l'affettuosa nostalgia dell’irrevocabile passato vela dì mestizia il ricordo.

Oltre che per questo loro incanto particolare, le «Confessioni» sono il capolavoro dello scrittore e uno dei libri più belli della presente stagione letteraria per altre rare virtù artistiche. Il Martini è un grande ritrattista. Come stagliano nette le aggrinzite sue ligure sullo sfondo grigio, popolato di vecchie case! Come emergono coi loro tabarri e coi loro cilindri 1850! Tutto un mondo vien fuori, un mondo di ritratti, di macchiette, di uomini o celebri o ignoti, felicemente fissati con un tratto sicuro di penna. Vero toscano, egli disegna all'antica, come un quattrocentista, col solido nerbo di un Pollaiolo: punta secca, contorni angolosi, rilievi evidenti. Pure nulla in lui dell’artista puro, che gode nel ritrarre un pezzo di realtà esteriore; non un tratto inutile non un elemento puramente decorativo: l’aspetto fisico dice il morale.

Lo stile è di una deliziosa finezza, fuso con le cose, perfettamente aderente al suo amore di ritrattista. Si è tanto discusso sulla prosa del Martini. — Accademica? toscana? — Ma la sua prosa è lui: senza compiacimenti retorici, senza ricerche liguaiole. Quando un uomo sa raccontare cosi, con tanta felicità nativa, bisogna riconoscere che vi troviamo dì fronte a uno scrittore di razza. Compostezza e sobrietà, pochi particolari, che acquistano suggestivo valore in una perfetta costruzione.

Uguale ambiente, uguale arte nell’ultima novella: «A lie riposa-»: un paesello, piccole passioni, piccoli pensieri e piccole lotte: uomini di minuscola statura, guardati con quel particolare sorriso, che inchiude la simpatia e la burla, l’indulgenza e la critica. Gli avvenimenti sono di portata acconcia alla levatura degli uomini; ed è difficile leggere alcunché più gustoso di queste beghe comunali che vanno crescendo a poco a poco fino a sommergere il povero assessore Giovaccino, tragicomico protagonista della semplice storia: una tempesta in un bicchier d’acqua. Le vicende di Pieriposa hanno degno epilogo in questa catastrofe, narrata con scherzoso tono di epica solennità: noi sentiamo tutta la tristezza di tali dolori, meschini in sé, ma troppo grandi per l’anima che deve portarli; e proprio ci tocca il cuore l’angoscioso precipitare dì questo regno di cartapesta.

La cappelliera, «simboli e custodia delle passate grandezze», che si erge sulle valige c sui sacelli nell’alba della gelida e grigia mattinata di gennaio, riassume tutto il finissimo contrasto.

«Sic transit gloria mundi; la gloria degli accessori di provincia, dei loro cilindri e dei loro discorsi, come le altre tutte. Ma com’è amaro questo sorriso! Non è più il sollazzevole scherno, caro ai fiorentini: ce qualcosa di un più profondo, umorismo.

Di tal sorta è l’arte del venerando scrittore, arte di altri tempi e di altre generazioni letterarie.

«A Pièriposa - novella all’antica»: nel titolo c’è tutto Ferdinando Martini.

EDMONDO RHO.

RENATO SERRA

Serra Pascoliano

Fondamentalmente il mondo spirituale di Renato Serra, è pascoliano.

Come per il poeta di S. Mauro, anche per lui esistono due realtà trascendenti la nostra vita spazialmente c temporalmente, in virtù delle quali se per la prima l’Uomo è un grane di sabbia nel vasto mondo quanto il mondo lo è nell’infinito universo, per la seconda la sua vita non è che l’ombra d’un sogno e un soffio nell’uguale eternità del tempo.

Spirito in altro modo fine, non era arrivato che in parte ad accettare il molochismo del Pascoli. Sì, il mondo del Pascoli autore dell Ciocco era in parte anche il suo; solo che, più ironico del poeta di Myricae, non gli riusciva di ricavare da essa la concezione ottimistica e palingenetica che si trova nel pascoliano Avvento (e non solo qui), e nella leopardiana Ginestra.

Di fronte alla morte come di fronte alta vita l’uomo non poteva che rimanere solo: chiuso nel suo piccolo mondo impenetrabile agli altri, quanto corazzato davanti ai tentativi letificanti d’evasione.

Se avesse avuto da natura un cuore meno nobile, con una concezione della vita di tal genere, il Serra sarebbe potuto diventare un cinico; non rimase clic uno squisito temperamento di scettico e di blasè, intento sì agli spettacoli della natura quanto ai moti del suo animo, curioso c geloso di conservare nel «flusso eracliteo» che lo spauriva, sè stesso, quale sola realtà di cui non poteva dubitare.

Ricordate il periodo finale della sua magnifica Partenza di soldati! «E tutto il flusso eracliteo che mi spaura, l’infinito che mi rapisce in ogni punto dell’universo; il passato che non ritorna, i molti che si aggiungono l’uno all’altro, tutto si risolve nell’uno e nell’identico.

«Una cosa non è l’altra. Ma continua l’altra. Ma non ci son cose. Ci sono io. (Kim. Chi è Kim?)». {Stampa, 30 Novembre 1923).

Direste che questa fosse la conclusione potuta scrivere da urto scolaro di Croce c dì Gentile, se non sapeste che Renato Serra collaboratore della «Voce», «rivista dell’idealismo militante», stimava così poco i suoi amici del «gruppo fiorentino», da non desiderare neppure di conoscerli.

Fra i tanti non strinse amicizia che col De Robertis, appartenente come ognuno sa, all’ultima «Voce» a quella esclusivamente letteraria ed artistica del 1914-1915.

Ma non parliamo di questi, né degli uomini politici vociani che il giolittiano e tripolino Renato Serra aveva in uggia; poiché non è nei nostri intenti di fare qui ad essi il processo per «tutto il male» che hanno fatto; molto più che Serra seppe prestissimo immunizzarsene collo starne lontano c col pensare ad altro. L’abituale indolenza ed il naturale scetticismo, quanto il giovanile insegnamento carducciano di Severino Ferrari, gli impedirono di diventare imo scolaro dei maestri surricordati, ma del Croce specialmente, di cui non rimase mai altro che un lettore ammirato, per rivendicare anche di fronte a lui la sua libertà di uomo e di pensatore; siccome il Carducci coll’esempio gli aveva insegnato.

Il Pascoliano Serra tra il Croce ed il Carducci

Dobbiamo credere ciò anche se quale critico cercante nell’opera d’arte e di poesia il momento lirico puro (intuizione), ci potessimo ritenere in diritto di considerarlo uno scolaro del direttore della «Critica»; senonchè noi non sappiamo quanto deva a lui, più che al Pascoli teorico d’estetica del Fanciullino, od al Carducci che gli aveva insegnato a scoprire, di sotto le macerie dell’erudizione c della storia le sorgenti vive dell’ispirazione e della poesia; se proprio non vogliamo risalire al Bergson che meditava e seguiva.

Certo tutta la sua opera di critico è inspirata all’intuizionismo; certo nessuno più di Renato Serra, per il suo scetticismo e per il suo innato senso d’arte c buon gusto, era in grado di apprezzare il portato di quella filosofia, che gli riesciva inoltre più cara, in quanto faceva esclusivamente consistere nell’intuizione, base di ogni espressione artistica, l’unica e sintetica possibilità espressiva del nostro spirito.

Da cotesto intuizionismo, all’edonismo frammentarista il passo è breve; non si tratta nell’un caso come nell’altro, che di successive manifestazioni del notato scetticismo; che troverà poi, come nel Serra l’aveva diggià trovata la propria filosofica giustificazione net relativismo.

Qui busta dire che il Serra era arrivato alla conclusione che l’arte è la sola realtà possibile; ed il gusto la sola norma per interpretarla e capirla.

Quindi la sua critica non sarà che la misura del suo gusto artistico, e non potrà che con uno sforzo sorpassasse i limiti a cui sarà destinata: intendiamo qui riferirci ai caratteri soggettivistici ed impressionisti della sua opera critica.

Quanto il suo gusto fosse sicuro e delicato, è ancor oggi visibile nei suoi saggi; che rimangono ancora, e forse per sempre, definitivi. I suoi saggi sul Pascoli, sul Baltramelli e sull’Oriani, sono quanto di meglio si possa obbiettivamente scrivere su quei tre così diversi artisti; e faranno epoca e testo per chiunque vorrà dopo di lui occuparsene. Non è però questo il lato più interessante della complessa figura del letterato cesenate.

Anche lui ad un determinato momento s’è sentito romagnolo: incapace, com’egli stesso ha scritto nel suo Oriani, dì sentirsi puramente artista; ed ha vagamente quanto accoratamente desiderato di buttarsi nell’azione e nella lotta per conferire alla sua vita, che osservava logorarsi nelle meschine cure dell’Impiego e nelle più meschine beghe di donne, di debiti, di giochi, e di vizi, nella sua piccola città di provincia, un senso più atto c virile: una maggior dignità, è da credere, ed un meno ignobile perchè.

Serra nazionalista e giolittiano.

Tutto questo socialmente dopo la tragica morte del padre avvenuta in Cesena, il 2 Gennaio 1911.

La sua già grande solitudine divenne ancor più grande: un solco profondo lo divideva ormai dal resto degli uomini che non disprezzava nè amava, e dal suo recente passato che sentiva di detestare e di dover abbandonare.

In tata solitudine trovava ora gelidi la filosofia e l’esempio del Croce; d’un esempio d’umanità aveva bisogno, e d’un anima paterna c calda che lo sorreggesse cd ammaestrasse. Istintivamente il suo sguardo ritornò al Carducci, all’indimenticato maestro della sua precoce adolescenza bolognese; com’egli stesso ha scritto nel suo saggio Carducci e Croce, pubblicalo in quei tempi nell’occasione della storica polemica carducciana tra le Cronache letterarie e la Voce.

Non possiamo esimerci dopo questo accenno di dire brevemente quale fu l’importanza della rivista fiorentina nell’epoca che la vide sorgere e morire: 1908-1915.

Altri prima di noi ne ha parlato, più o meno bene, più o meno diffusamente. Ricordiamo Prezzolini che nella sua Coltura italiana ha tentato di piazzare la «sua più cara creatura giornalistica» al centro della cultura italiana contemporanea; senza peraltro riuscire a darcene la fisionomia vera ed i peculiari caratteri.

N. Sapegno nel Baretti ha detto con molta efficacia certe verità che il Prezzolini s’era scordato di dire nella sua affrettata rassena; ciò non ostante a queste ed a quelle noi dobbiamo aggiungere alcunchè; specialmente nei riguardi della sua importanza spirituale e politica.

Presa come fenomeno isolato la Voce non avrebbe che scarsa importanza: se si volesse dar retta al primo (il direttore) ed al secondo (lo storico) Prezzolini, non sarebbe stato altro che il foglio di battaglia dell’idealismo Crociano-gentiliano: la pattuglia di punta nei confronti dello stato maggiore e dell’esercito ragruppato attorno alla Critica.

Invero non è stato che uno (l’ultimo del Prezzolini il quale vi si è cristallizzato) dei tanti aspetti, medianti i quali la generazione immediatamente più anziana nella nostra, ha manifestata la propria insofferenza al dato di fatto borghesemente anti-eroico e mediocre dell’Italia trasformista e giolittiana del primo decennio del secolo.

Quantunque sia necessario riconoscere che la politica giolittiana ha avuto in quell’epoca una funzione democratica (forse la sola possibile in una nazione da poco scampata ai governi borbonici e papali), colla sua paternalistica legislazione operaia e col suo socialismo monarchico; è ciò non pertanto doveroso ammettere che gli spiriti più colti erano sommamente seccati di tale stato dì fatto, al modo stesso che lo erano i partiti operai non del tutto invigliacchiti dall’elargito benessere.

Bisogna considerate sotto tale aspetto la nascita dei vari movimenti culturali e politici, a cominciare da «quelli rampollati dal positivismo e dal dannunzianesmo, sino a quelli sorti dal tronco dell’idealismo.

Ricordiamo il superomismo volontarista ed anarchico degli epigoni dannunziani sfociato poi nel nazionalismo corradiniano; il pragmatismo di Vailati e Calderoni e dei condirettori del Leonardo, Prezzolini e Papini; il modernismo cattolico del Murri e del Minocchi e dei redattori del Rinnovamento di Milano; la reviviscenza democratica cristiana sorta dapprima quale indizio della maturità sociale e politica dei cattolici italiani e sfociata poi, a guerra finita, nell’alveo del P. P. I.; il sindacalismo rivoluzionario del Leone e del Labriola mutuato dal Sorel e dai francesi ed innestato sulla filosofia del pragmatismo e su quella del Bergson; il neo-volontarismo dell’Amendola e di altri, seguaci del Kantismo; il problemismo infine salveminiano e degli unitari; e la scorribanda sconclusionata e pazza di Marinetti e soci in tutti i campi dello scibile, dopo che i naufraghi di molti sistemi e stili, Soffici e Papini, ebbero loro dato il crisma colla fiorentina Lacerba.

Effeffttivamente a 10 anni di distanza noi possiamo oggi dire che quello di allora fu il travaglio torbido di un problema che è ancora oggi attuale e vivo nonostante la bufera fascista: il democratico problema della necessità dei partiti.

Confusamente, come tutti i giovani della sua età, anche il Serra sentì tale problema; senza peraltro proporsi di risolverlo se ne togli la sfiduciata adesione affatto intellettualistica che al nazionalismo accennò fare durante la guerra libica voluta da Giolitti contro il parere dei suoi amici unitari e vociani; ed al rivoluzionarismo mussoliniauo della settimana rossa, se dobbiamo credere a ciò che ne scrive il Panzini nel suo Diario sentimentale (p. 18).

Ma tali adesioni furono superficiali e brevi; ed esclusivamente dovute all’accarezzato desiderio di evadere dal problema che sempre più profondamente e maggiormente lo urgeva: quello della meschinità della sua vita, e dell'inutilità de’ suoi sforzi.

Completamente trasformato dal fuoco vivo del dolore, ed accresciuto dal nuovo peso d’una imprescindibile esigenza etica desiderosa d’una consapevolezza contemplativa riguardante le finalità ed i destini riserbati all’uomo, il suo scetticismo si tramutò per questo nell’ottiimistico fatalismo dell’Esame e delle lettere agli amici.

Sfiduciato delle proprie forze, ed ormai disperato di vincere nella cruenta lotta per l’arte e per la vita, Renato Serra s’abbandonò all’«eracliteo flusso», lasciandoci senza resistenza prendere e vivere. Nella disperazione Bergson trionfava.

L’Esame di coscienza.

Questa è veramente l’atmosfera spirituale dell’Esame di coscienza, e lo stato d’animo con cui ha saputo affrontare la morte.

E’ troppo presto per parlare di questo. Intratteniamoci ancora un poco sul suo classicismo e sulle sue consolazioni.

Abbinino già detto del suo ritorno al Carducci: abbiamo pure detto che tale ritorno andò parallelo a un rinascita dell’esigenza etica e morale, che sembrò in un primo tempo dovesse oscurarsi (davanti ai seducenti allettamenti dell’edonismo.

Non si dimentichi che tale rinascita morale ebbe vaghi desideri di definirsi nelle concrete forme della vita politica e civile, senza peraltro riuscirci. Ma importa ancora dire come riusci invece a definirsi nel francescano-panico sentimento di sentirsi tutt’una cosa cogli uomini e colla vita nelle magnifiche pagine del suo Pascoli in cui descrive il vialone dì Cesena coll’uomo che porta i rami col pennato, ed il poeta di Myricae mirato lungo la strada nel suo singolare aspetto di fattore di campagna e di buon romagnolo; oppure nell’Esame la sua passeggiata in bicicletta lungo un canale dagli argini del quale dai suoi soldati operai e carrettieri viene interrogato su «quando si partirà per la guerra» >> o pure le già ricordate pagine inedite intitolate «Partenza di soldati», e quelle dell’Esame descriventi una passeggiata del Serra richiamato sugli amati colli cesenati, nelle quali la gioia di sentirsi parte della natura e fratello degli uomini, è solo pari all’artistica felicità ed alla grande poesia.

Ebbene, che è ciò se non carduccianesimo: del Carducci maggiore e minore delle prose?

Ma non soltanto questo aveva appreso dal suo Maestro. Anche ciò che è stato chiamato il suo classicismo egli aveva appreso: vale a dire il desiderio delle cose ben nette e precise e dell’arte non soggetta ai mutevoli colori della psicologia.

Cosi tanto l’una che l’altra idea oltrechè quei distinti tipi dell’uomo civile ed eroico, e della poesia scultorea e definitiva, stavano sempre presenti al suo spirito quali ideali da raggiungere e quale misure da cui trarre norma per la sua condotta morale e politica e per i suoi giudizi di critico-artista; quanto per la sua instancabile ricerca stilistica che partita dall’andamento scolasticoarcaico della laurea sul Petrarca, arriva allo stile agile e forbito degli ulteriori saggi.

Dobbiamo credere che siano stati tali ideali civili cd artistici che uniti alla innata nobiltà, quali talismani abbiano.avuta la virtù di tenerlo lontano tanto dai semplicismi idealistici della seconda Voce (quella esclusiva di Prezzolini), quanto dalla gazzarra lacerbiana-futurista (di fronte alla quale ci tenne ad accentuare il suo distacco coll’assumere la maschera del letterato di provincia e dell’umanista); nonché quello di rendere eroico il suo fatalismo col fargli a cuor sereno e con piena consapevolezza, ed in ottemperanza ad un dovere che sentiva solo quale dovere verso la parte migliore di se stesso, sfidare cd accogliere la morte.

Di fronte alla nobiltà del suo sagrificio sentiremmo di dover far punto, ammirati ed umiliati, se non sapessimo di dover qui dichiarare che Renato Serra lo riconosciamo ed ammiriamo come uno dei nostri: perchè, primo forse, contro la volgarità che allagava e saliva e contro la rettorica culturale ed artistica, ha iniziata la battaglia che noi ci riteniamo in dovere di proseguire

Armando Cavalli

PIERO GOBETTI Direttore responsabile.

Soc. An. Tip. Ed. «L’ALPINA» Cuneo