Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. I, 1946 – BEIC 1727075.djvu/279: differenze tra le versioni
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Versione delle 20:04, 19 ott 2019
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atto quinto | 273 |
- Virg.o
Qual ch’io ti creda, ognora,
qual de’ sua figlia ottimo padre, io t’amo. —
Deh! lascia, Appio, che ancor, sola una volta,
pria che per sempre perderla, io la stringa
al già paterno seno. Infranto, nullo,
ecco, il mio orgoglio cade: in te di Roma
la maestà, le leggi adoro, e i Numi. —
Ma, del paterno affetto, in me tanti anni
stato di vita parte, in un sol giorno
poss’io spogliarmi, in un istante?...
- Appio
Il cielo
cessi, ch’io mai crudel mi mostri a segno,
che un sí dovuto affetto a error ti ascriva.
Tornato in te, parli or qual dei: qual deggio,
or ti rispondo. A lui la via, littori,
s’apra.
- Virg.o
Deh! vieni al sen paterno, o figlia;
una volta mi è dolce ancor nomarti
di tal nome,... una volta. — Ultimo pegno
d’amor ricevi — libertade, e morte.
- Virg.a
Oh... vero... padre!...
- Numit.
Oh ciel! figlia...
- Appio
Che festi?...
Littori, ah! tosto...
- Virg.o
Agli infernali Dei
con questo sangue il capo tuo consacro.
- Popolo
Oh spettacolo atroce! Appio è tiranno...
- Virg.o
Romani, all’ira or vi movete? è tarda;
piú non si rende agli innocenti vita.
- Popolo
Appio è tiranno; muoja.
- Appio
Il parricida
muoja, e i ribelli.
- Virg.o
Alla vendetta tempo,
pria di morir, prodi, ne resta1.
- ↑ Virginio e il popolo in atto di assalire i littori e i satelliti d’Appio.