Daniele Cortis/Capitolo diciottesimo: differenze tra le versioni

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|Nome e cognome dell'autore=Antonio Fogazzaro
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Versione delle 15:26, 4 giu 2008

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BATTAGLIE NOTTURNE


Undici ore suonavano, quella sera del 28 marzo, da Piazza Navona e dalla Sapienza, la luna batteva sulle case, sui marciapiedi deserti, in faccia all'augusta ombra nera del palazzo Madama, quando ne uscí, solo, il barone Di Santa Giulia. Si fermò sulla soglia, si volse a considerar l'atrio illuminato. Il guardaportone gli si fece incontro ossequiosamente, pensando che desiderasse qualche cosa.

“Cosa volete, voi?” gli disse il barone, brusco. “Non sono neppur padrone di star qui, adesso?”

Quegli rimase intontito.

“Credevo!” ghignò forte Di Santa Giulia, e, voltategli le spalle, se n'andò verso San Luigi dei Francesi.

Aveva recato egli stesso al Senato le sue dimissioni da senatore, laconiche, senza una parola di preambolo né di chiusa; ed aveva affidata la lettera suggellata a un collega, segretario della Presidenza. Nessuno l'aveva richiesto, ora, di quest'atto; era stata una libera risoluzione sua, meditata da lungo tempo insieme ad altre piú gravi, preparata nel segreto del cuore per quando non gli rimanesse piú fede di salvarsi da una clamorosa rovina. Essa gli era sopra, oramai; non v'era piú campo a' disperati rimedi che le aveva, nell'ultimo tempo, disperatamente opposti. Riposarsi e lasciar crollare tutto; altro partito non gli restava.

L'avvocato Boglietti gli aveva scritto il 25 stesso, giusta le intelligenze prese con Cortis, che si tenesse sciolto da ogni debito verso la Banca; ma il barone gli aveva rimandata fieramente la lettera, giurando che non accetterebbe mai le offerte del signor Cortis. Per verità non gliene veniva sollievo sensibile. Era invescato in troppi altri debiti e di natura non meno maligna. Pur di saldare le sue perdite al giuoco, pur di essere accolto ancora nelle bische piú o meno segrete che frequentava, dopo essersi rivolto a' piú celebrati strozzini di Roma, aveva poste le mani su certi titoli di credito spettanti a minori nella sua tutela, ne aveva dato in pegno, ne aveva fatto danaro. Ora il fatto era venuto in luce, stava per denunciarsi. Intanto il macao gli aveva ingoiato tutto ed egli si trovava, malgrado tanti sacrifici, a non poter pagare i suoi impegni di giuoco. Non si giuocava piú con lui; la porta della fortuna era chiusa, quella delle Assise, aperta.

Ma nella sua selvaggia natura, mista di forza e di corruttela, il fiero proposito di non piegarsi ai Carrè durava piú saldo che mai. Tre ore prima che egli recasse le proprie dimissioni al Senato, l'avvocato Boglietti lo aveva affrontato in piazza di Pietra e tratto riluttante al proprio studio, allegando un'assoluta necessità di parlargli immediatamente. Colà gli aveva comunicata una proposta affidatagli in quel momento, non volle dire da chi. L'avvocato prometteva di ricomporlo con tutti i suoi creditori, di salvargli l'onore e la libertà, di fornirgli un sufficiente assegno vitalizio a patto che emigrasse per sempre in America. Di Santa Giulia, imbestialito all'idea che fosse tutto un lavoro di sua suocera e di sua moglie, non aveva neppur voluto ascoltare le proposte dell'avvocato che gli giurava di non conoscere neppur di vista la contessa Tarquinia né sua figlia, di non tenere la proposta né da loro né dall'onorevole Cortis; era uscito furibondo dallo studio mentre l'altro gli gridava dietro che non accettava rifiuti, che la notte porterebbe consiglio, che sarebbe venuto da lui l'indomani mattina, per una risposta definitiva.

E ora camminava accigliato verso casa sua, a testa alta come sempre, con le mani in tasca, stringendo la chiave del cassettone dove teneva il revolver, provando quasi una truce compiacenza di aver finalmente toccato il fondo dell'abisso, sentendosi vicino a una uscita terribile, ma degna dell'orgoglio misto al suo sangue corrotto, ma liberatrice. Oramai era fuori del Senato. Gli pareva d'aver compiuto cosí un atto decisivo, di aver deposto l'abito, come tanti fanno, sulla riva del fiume, prima di sparire nelle acque per sempre. Questo era il cupo concetto fisso nel suo cuore. Per la mente gli passavano tante immaginazioni languide di cose e di persone già congiunte a lui da sentimenti di rabbia e di angoscia. Ieri ancora, poche ore prima, questi fantasmi di scadenze, di citazioni, di denunce, di usurai, di creditori di giuoco, di uscieri, di giudici lo stringevano, l'opprimevano; ora gli si eran fatti subitamente lontani; ora si sentiva come un largo attorno; il largo che la folla fa in cerchio a un cadavere. Passando la piazza di Pietra, ripensò con ira all'avvocato Boglietti e all'America. Casa Carrè, non c'era dubbio! Liberarsi! In America! L'avvocato Boglietti doveva andar da lui l'indomani mattina per la risposta. Se gli dicessero: “passi” e l'avvocato gli entrasse in camera, lo trovasse sul letto con una palla in cuore? Maledetta gente superba! Cosa credevano? Tutti i vizi e tutte le colpe, sí; ma vile, no. Di vergogna e di sangue li macchierebbe; l'unica compiacenza, per Dio! Aveva creduto sua moglie migliore degli altri, anche dopo il tradimento di Passo Rovese, ma ora si mostrava della stessa tempra. Che moglie era stata per lui? Retta sí, tranne quella volta; e dura e fredda come un cristallo, fedele a se stessa, non a lui! Se pure lo era ancora, fedele. Un anonimo gli aveva scritto accusando lei e Cortis. Allora il barone non aveva creduto; adesso voleva credere. Gli piaceva di credere, di vedere a terra quella virtú fastidiosa e superba. In America? Per comperar la sua lontananza? No, no, la signora potrebbe anche sposarselo, colui, ma gli porterebbe in dote una maledizione e del sangue.

Si fermò sul Corso a guardare in su e in giú come se lo vedesse per la prima volta. Era deserto; le due lunghe file di fanali parvero al barone un accompagnamento funebre. Pensò che lui non l'avrebbe e se ne compiacque. Meglio andar soli, senza tanti cialtroni dietro che chiacchierino, ridano e lo mandino al diavolo. Non avrebbe funerale e non andrebbe in chiesa. Bene. Né Dio, né santi l'avevano aiutato. A questo punto si sentí un subito mancar dell'orgoglio, un lampo di sgomento; ma passò tosto, e l'uomo tirò via senza pensare ad altro.

Entrò in un piccolo caffè di via delle Muratte, a pochi passi da casa sua, e picchiò forte sul tavolino perché il garzone dormiva con le braccia incrociate sul banco. Non c'era altri nella botteguccia, oltre Di Santa Giulia, che un vecchio prete dal viso e dalle mani color di cera, solito di prender lí il cioccolatte prima di mezzanotte.

“Crede proprio, reverendo” gli chiese il barone a bruciapelo, “che vi sia un'altra vita?”

Il vecchio prete lo guardò in faccia e rispose con calma:

“No, signore.”

Dopo di ciò spiegò il fazzoletto scuro, lo guardò da ogni parte, se ne forbí la bocca, lo ripiegò con gran cura, e, posatoselo sulle ginocchia, disse con la sua quieta voce dolce:

“Non lo credo, lo so.”

Non si udí che il rumore dell'acqua di Trevi. Il barone prese un bicchierino di rhum e uscí senza salutare.

Le sue finestre erano illuminate. Perché? Pareva che sul buio balcone vicino ci fosse qualcheduno che se ne ritrasse quando Di Santa Giulia, giunto alla sua porta, si fermò. Egli trovò sulle scale la padrona che l'aspettava con la candela in mano.

“Perché c'è lume in camera mia?” diss'egli.

“Una visita, signor senatore. Una signora ch'è qui dalle sette ad aspettarlo.”

Il barone pensò subito a sua moglie.

“Chi è?” diss'egli con ira. “Bisognava dirle che non sarei rientrato.”

“Ma è la signora baronessa, signor senatore.”

“Ah!” fece colui come per dire; quand'è cosí, avete fatto bene. Ma l'accento e il viso esprimevano quanto la visita gli fosse sgradita. Andò nella sua camera a passi concitati, sagrando fra i denti.

L'alta figura sottile era là, ritta in mezzo alla camera, presso il tavolino sul quale ardeva una grande lucerna senza paralume.

“Tu qui?” diss'egli fermo sull'entrata. “Cosa vuoi?”

Le spalle di lei trasalirono in sussulto nervoso. Aspettò un momento a rispondere e poi disse pacatamente:

“Ricordarti che son viva.”

“Questo lo sapevo” rispose il barone togliendosi il cappello e gittandolo sul letto.

Elena alzò le sopracciglia.

“Non me n'ero mai accorta” diss'ella.

Il barone si levò il soprabito, gittò sul letto anche quello, poi chiuse le imposte delle due finestre, ritolse dal letto cappello e soprabito per posarli sopra una seggiola, si pose ad andare e venire per la camera, intorno a sua moglie che non parlava né si moveva. Le si fermò a un tratto alle spalle, da lontano, le disse sbuffando:

“E adesso cosa ti occorre?”

Ella si girò verso di lui, prese una seggiola per la spalliera e rispose traendosela davanti:

“Perché non ti sei lasciato vedere da me? Perché non mi hai neanche risposto?”

La sua voce era sommessa, molto tranquilla, quasi affettuosa.

“Per farti piacere” diss'egli. “Ringraziami. Non era quello che desideravi?”

Elena soffocò a fatica lo sdegno, si eresse sulla spalliera della seggiola cui prima s'era venuta appoggiando, e disse con impeto:

“Questo non è rispondere.”

Suo marito s'incrociò le braccia sul petto.

“Ti sdegni anche?” diss'egli. “Non basta che io ti abbia scritto di andare, stare e venire a tuo piacimento, con chi ti pare, non ti basta di averne approfittato; mi rimproveri anche di non esser venuto a baciare la mano a tua madre! Non rompere quella seggiola che non è mia.”

“Scusa” rispose Elena dolcemente, posando la seggiola.

Ella era venuta col proposito di essere umile, affettuosa il piú possibile, di tollerare le prevedute violenze di quell'uomo che voleva salvar dall'abisso; e si rimproverava di avervi mancato fin da principio.

“Ti prego ancora una volta” proseguí “di credere che hai torto d'essere in collera con la mamma. Se vi è stata colpa quella volta a Passo di Rovese, è stata tutta mia. Te l'ho detto tante volte, Carmine, te ne ho chiesto perdono. Io non ho inteso di far male, ma te ne domando perdono ancora, se vuoi. Se non vuoi credermi, sia! Pensa allora che, per rispetto a te, ho sopportato che mia madre alloggiasse all'albergo in Cefalú; e mi ha fatto tanto male perché proprio, povera donna, io so che non ha colpa, ma niente, ma niente. Sí, son venuta a Roma con lei, ma ti ho scritto perché ci venivo: per te! La mamma si era posto in mente di condurmi nel Veneto, e te lo ha scritto; ma io gliel'ho sempre detto che se mi movevo da Cefalú era per venire a Roma, per assisterti come avrei potuto meglio.”

“Già!” proruppe il barone. “Ed è successa questa combinazione miracolosa che la Camera era aperta e che il reverendo signor Cortis, non sapendo come diavolo continuare un suo discorso, è andato, con l'aiuto dei santi, in deliquio; e allora, per un caso stranissimo, tu, che eri venuta per assister me, hai assistito lui di giorno e di notte, eccetera, eccetera. Va bene?”

“Cosa vuoi dire?” chiese Elena aggrottando le sopracciglia.

“Lo sai benissimo cosa voglio dire” rispose l'altro. Si trasse di tasca delle lettere e accostatosi alla lucerna, ne scelse una, la buttò sul tavolino.

“A te” diss'egli.

Elena prese la lettera palpitando malgrado se stessa, quasi vi si fossero potute scrivere cose sepolte nel cuore di lei. Corse prima a guardar la firma: non c'era. Poi diede una rapida occhiata al breve scritto in cui l'anonimo accusava lei, enfaticamente, di circuire Cortis per farsene un amante. Riconobbe la mano di sua zia.

“So chi è” diss'ella freddamente. “Conosco il carattere. E tu credi?”

“Non so niente” rispose il barone, burbero. “Chi è? Mi pareva quasi di conoscerlo anch'io quel carattere.”

“Tu non lo credi!” esclamò Elena. Vi era un tal fuoco, un tal impeto negli occhi e nella fronte levata di lei, che suo marito, per un momento, ammutolí.

“E se lo credessi?” diss'egli poi. “In ogni caso, se, come spero, non ci vediamo mai piú, di' a tuo cugino che rispetti il mio nome, perché è un puro caso che io non sia suo padre. Questione di aver conosciuta la signora Cortis quattro o cinque anni prima.”

Elena trasalí.

“Sicuro” proseguí il barone. “Digli che quando ero di guarnigione ad Alessandria, ho conosciuto moltissimo da vicino sua madre.”

“Tu?” esclamò Elena.

“Io, sí. La conosci quella storia? Sono stato io e non l'ufficiale d'artiglieria. Diglielo, diglielo, al reverendo. Lo sappia! Cosa me ne importa? Oramai non m'importa piú niente di niente. E poi è una giustizia. Diglielo a nome mio, se sua madre non gliel'ha detto; perché sento ch'è tornata dall'inferno, quella strega. Sino all'altro giorno non gliel'aveva detto sicuro.”

Elena si nascondeva il viso con le palme. Era uno stupore, un orror muto, un desiderio angoscioso di andar via, subito, lontano, un violento resistervi di qualche forza segreta nell'anima sua.

“Ohoh! Che impressione!” disse piano colui con uno strascicare ironico della voce. “Si piange! Povero cugino!”

“Io non piango” rispose Elena fieramente, scoprendo e alzando il viso. Si ravviò con la sinistra i capelli sulla fronte e guardò suo marito in faccia.

“Soffro ma non piango.”

La faccia del barone si contrasse, un ruggito sordo gli uscí di bocca:

“E non crederò ch'è il tuo amante?”

Ella non piegò il viso, non mosse ciglio. Gli occhi eran vitrei, la persona quasi irrigidita, quando rispose sottovoce:

“No, non è vero.”

Durarono un tratto a guardarsi in faccia, immobili. Di Santa Giulia ruppe improvvisamente in una furia di gesti e di voce:

“Son padrone di credere ch'è vero, son padrone di dirtelo, te lo voglio dire. E adesso va via, va dove vuoi, va con chi vuoi! Va via! Ho degli amici migliori di te in questa camera; ho degli amici che mi assisteranno meglio di te, che mi libereranno in un attimo da te e da...”

Qui tirò giú una fila d'imprecazioni bestiali contro il mondo e gli uomini.

Elena intanto era tornata padrona di sè.

“Andrò via” diss'ella, “ma non prima di aver fatto il mio dovere...”

Un tremito violento la prese, le tolse per un istante di continuare. Dovette sedersi, attendere un po' di calma.

“Ho promesso” continuò “di esserti fedele; e qualunque cosa tu dica, qualunque cosa tu pensi, io intendo essere fedele sino all'ultimo. Tu mi hai scritto a Cefalú delle parole sinistre e ora me ne dici delle altre simili.”

Si fermò; non poteva parlare a lungo.

“Non so se sia vero” riprese “che i tuoi affari vanno cosí male, che hai in mente una cosa orribile. Io intanto sono qui per fare tutto quello che posso. Lavorerei, darei lezioni, patirei la fame!”

“Oh, non c'è bisogno di tanti eroismi” disse il barone sogghignando. “Non vado in America?”

“In America?” esclamò Elena stupefatta.

“Ma non farmi l'ipocrita, perdio! Se non lo sapessi...”

Ella diè un balzo sulla sedia; non v'era maggiore ingiuria per lei! Si morse il labbro, si contenne, disse solo:

“Se non sapessi cosa?”

“Che siete voialtri che mi avete offerto di pagarmi i debiti a condizione ch'io vada in America. Del danaro e liberarvi, mandarmi a morir lontano perché non vi schizzi del sangue e della vergogna addosso, eh? Ma v'ingannate; non c'è pagamenti, non c'è Americhe!”

Elena balzò in piedi.

“Non è vero!” diss'ella.

“Che non è vero!” ringhiò il barone. “Non vi è un altro cane nell'universo mondo che abbia la piú lontana ragione di farmi proposte simili. E tu” continuò in un tono ironicamente mansueto “sei venuta, non è vero, a tastarmi con garbo, a vedere se la proposta mi è stata fatta, se accetto o non accetto...”

“Ma ti dico che non è vero” protestò Elena, “ti dico che pagarti i debiti mia madre e io non possiamo, e mio zio non vuole, assolutamente non vuole!”

Ella parlava, nella sua sorpresa, con un tal fuoco sincero che il barone, per un attimo, ne fu scosso, tacque.

“Oh!” esclamò poi, ripreso dalla sua convinzione. “Se è cosí! Se non è possibile che non sia cosí!”

Elena era convulsa.

“Ma Dio!” diss'ella “cosa devo dire, cosa devo fare per convincerti?”

Il barone riflettè un poco.

“Tu saresti felice” diss'egli “che accettassi questa proposta di andare in America?”

Felice? Ella pensò che, amante di quell'uomo, avrebbe voluto, in una simile abbiezione, morire con lui.

“Felice no” rispose. “Sarei felice se tutto questo fosse stato un cattivo sogno; ma pure!...”

Non sapeva bene come dire che le sarebbe tolto dal cuore un gran peso, un grande sgomento di non aver fatto, di non saper fare il possibile per impedir la sventura che l'avrebbe lasciata libera.

“Ah ma pure!” esclamò suo marito. “Vediamo un poco, moglie fedele” soggiunse lentamente, fissandola in viso. “Se vado, tu vieni con me?”

Elena ricevette quel colpo nel petto e non vacillò. Era un terribile, inaspettato colpo, un terribile, inaspettato modo di porre alla prova la sua parola. Non vacillò, ma neppure rispose. Sentí qualche cosa in sè del soldato chiamato a morire, che ci va grave, in silenzio, col cuore ardente.

“Ah taci?” esclamò il barone.

“Hai già dichiarato” diss'ella “che non accetti?”

“Sí, ma si vuol tornare da me domattina per una risposta definitiva.”

“E se vengo, accetti?”

“Santo diavolo!” fece quegli, fra attonito e perplesso. “Se tu vieni, comincio a non capirci piú niente.”

“Allora accetti?”

“Forse.”

“No no” esclamò Elena risolutamente. “Bisogna promettere che se io vengo con te accetti.”

Il barone si gittò sul canapè.

“Ci penserò” diss'egli.

Ma Elena non voleva neppur l'ombra d'un dubbio, e insistette. Suo marito non poteva credere che i Carrè acconsentissero all'esilio di lei.

“Ebbene” diss'egli, “se tu vieni davvero, accetto.”

Posto che l'offerta movesse da casa Carrè, quella condizione l'avrebbe fatta cadere sicuramente.

Allora Elena gli domandò se in nessun caso, in nessun modo accetterebbe un'offerta simile dalla famiglia Carrè, senza la condizione d'andare in America. Egli rispose un “mai” pieno di superbia e d'ira, si confermò nel dubbio che proprio l'avvocato Boglietti non avesse parlato per incarico dei Carrè.

“Verrò” diss'ella.

Il barone la guardò, battè sul braccio del canapè la mano distesa e rispose:

“Va bene.”

Poi andò a prendere nel suo cassettone un revolver, lo posò presso la lucerna.

“Ecco l'amico che mi doveva assistere” disse egli. “Ti giuro che mi sarei ammazzato cento volte prima di accettare il soccorso dei tuoi.”

Elena prese il revolver.

“È carico” disse suo marito.

Elena lo tenne tuttavia, pareva considerarlo attentamente. Le sue mani tremavano, le labbra erano serrate, convulse. Non la vedeva neppure, la piccola canna lucente; vedeva solo l'uomo che amava tanto, da cui si sapeva tanto amata, lo vedeva nel momento dell'ultimo addio, di un'angoscia senza nome.

“È quello che mi hai regalato tu da fidanzata” disse suo marito.

Elena depose il revolver sul tavolino, lo guardò ancora finché si fu ricacciate in gola le lagrime.

“E allora?” diss'ella piano.

“Allora” riprese il barone “io accetto e si assestano gli affari; ci vorrà un po' di tempo perché tutti i miei debiti non li so neppur io, quasi. Poi si va.”

Elena non ebbe la forza d'entrar subito a parlar del come e del quando.

“Sai che ho paura d'essere una gran bestia, io, a credere che tu venga?” esclamò suo marito.

Ella si alzò sdegnosamente per tornare all'albergo.

“No, no, ti credo” diss'egli blando. “Che fretta hai? Fermati un poco. Sii buona!”

Elena volle partir subito. Suo marito le propose burberamente di accompagnarla; la padrona di casa, che aveva sempre origliato all'uscio, offerse la propria camera per la notte; non s'era coricata apposta! Ella rifiutò tutto con tale veemenza, che colei, quasi quasi, le chiese scusa.

“Lasci fare” disse il barone. “Da qui alla Minerva le strade sono sicure, e mia moglie non ha paura di niente.”

Colei accompagnò Elena con il lume fino alla strada, le disse che aveva sperato si fermasse. Il signor senatore le faceva pena. Aveva tanti fastidi! diceva certe cose!

Elena rispose con un leggero cenno di saluto e uscí, si incamminò adagio per la via buia, lasciandosi portar dall'istinto, senza saper bene dove fosse, senza altro senso che di un dolor sordo al cuore, di una mortale inerzia della mente. E guardava appressarsi una dopo l'altra, lentamente, le fiamme dei radi fanali, tremare ed ardere, scomparire sopra la sua testa. Le venne a poco a poco una strana idea; s'immaginò di sognare che era smarrita in una città sconosciuta, immensa. Allora il suo istinto l'abbandonò a un tratto. Non sapeva qual via prendere, dovette fermarsi, pensar lungamente, guardarsi bene attorno prima di capire che era al canto di via dei Pastini. Affrettò il passo e, un momento dopo, entrava alla Minerva.

Un cameriere aveva l'ordine di avvertirla che il suo signor zio l'aspettava nella propria camera, a qualunque ora fosse tornata, assolutamente. Anche questa pena; dover nascondere, dissimulare! Non le parve di poterlo in quel momento, fu per dire al cameriere che la precedeva di lasciar dormire il conte perché oramai era troppo tardi; ma non ne fece nulla, onde colui picchiò all'uscio, l'introdusse e, posata la candela, si ritirò.

Il conte Lao stava a letto leggendo. Buttò via il libro e alzò il capo dal guanciale, voltandosi a guardar la nipote.

“Oh!” diss'egli “credevo che non venissi piú.”

Elena non s'appressò al letto e rispose ch'era tanto stanca, che aveva tanto sonno. Il conte taceva guardandola.

“Buona notte” diss'ella esitante.

Suo zio tacque ancora un momento e poi le disse con un brusco, imperioso inchinar del capo:

“Vieni qua.”

Ella fece due passi verso di lui, adagio, adagio, si fermò, gli sussurrò:

“Cosa vuoi?”

“Piglia quella sedia” diss'egli.

Elena lo pregò di lasciarla andare, gli allegò ancora la stanchezza, il sonno.

“Ma che sonno!” rispose lo zio inesorabile.

“Dormirai domani. Piglia quella sedia, mettiti lí e conta.”

Ella non obbedí ancora. Era venuta volentieri a dargli la buona notte, ma poi bisognava farsi un po' di riguardo anche per la gente dell'albergo.

“Imbecille!” esclamò il conte. “Andiamo, non seccare.”

Elena non poté insistere. Sedette discosto dal letto, evitando, per quanto le fu possibile, d'avere in viso il lume delle candele.

“Dunque?” diss'egli. “Sei stata da tuo marito?”

“Sí.”

“E cosí?”

Elena non rispose.

“È vivo o morto?”

Ella tacque un poco, si coperse il viso con le palme, poi si buttò ginocchioni al capezzale dello zio, gli afferrò una mano.

“Zio, zio” diss'ella con uno slancio di passione “bisogna salvarlo! Senza ch'egli possa mai sapere che siamo stati noi!”

Lo zio non si adirò, questa volta.

“Salvarlo, dici tu” rispose sorridendo, “salvarlo, come se non fosse niente. Un bel mobile da salvare! Se vuoi salvarlo tu, fa pure, fai benissimo; io non butto certo via i miei danari in questo modo. Levati, levati!”

Parlava con la maggiore dolcezza, e, quand'ebbe finito, baciò pian piano Elena sui capelli.

“Ch'io faccia pure!” diss'ella accorata. “Che lo salvi io! Farei benissimo! Lo so, lo so.”

Amaro momento! Il conte Lao non pensava che le sue parole dovessero suonarle cosí dure.

“Sai bene che io non ho i mezzi” soggiunse Elena, alzandosi.

“Va là, va là” diss'egli, “che quelle canaglie là non vanno mai a fondo, trovano sempre chi li aiuta. Non si ammazzerà, sta quieta. Scommettiamo che gli capita qualche fortuna?”

Un lampo balenò negli occhi di Elena.

“Sai qualche cosa?” diss'ella.

“Io? No. Non so niente. Cosa vuoi che sappia?”

“Perché infatti gli hanno proposto di pagargli i debiti.”

“Ah, ecco!” esclamò il conte. “Te l'ho detto, io. Hai visto? E lui, cosa fa?”

“Ah, sai che c'è una condizione?”

Stavolta il conte andò sulle furie, protestò di non saper niente di niente.

“C'è una condizione” riprese Elena. “C'è la condizione di andare in America, per sempre.”

Lao non parlò piú, non mostrò curiosità di saper altro.

“Egli accetta” continuò lei dopo un breve silenzio. “Ci va.”

Lao si scosse un poco e brontolò:

“Manco male.”

Stettero muti ambedue, un tratto.

“E perché ti crucci, allora?” diss'egli finalmente. “Non capisco. Credi che gli farebbe piú onore di andare in prigione? Cosa si potrebbe fare per lui di meglio? Proprio non capisco.”

Elena si alzò dalla sedia senza dir niente, si appressò al cassettone su cui stava la sua candela, la tolse in mano, la considerò un poco, e posatala, se ne tornò lentamente indietro, appoggiò ambo le mani al letto come per chinarsi a baciar lo zio, gli si chinò invece all'orecchio, gli sussurrò:

“E se andassi anch'io?”

Egli si strinse nelle spalle e rise forte, ironicamente.

“Non scherzo mica, zio” diss'ella.

Allora lo zio, ch'era coricato sul fianco, si girò sul dorso.

“Di' la verità” esclamò prendendole un braccio “che mi faresti anche questa?”

“Ho paura che sia il mio dovere, zio.”

“Ma che dovere! Ma quando mai la moglie d'un briccone ha il dovere di tenergli dietro se va in America? Ma fammi il piacere! Va là, va là, va a letto!”

Elena fu sorpresa che suo zio pigliasse la cosa con una tal quale relativa placidità.

“Ma parto proprio, sai” diss'ella.

“Oh basta!” esclamò il conte. “Finiscila! La condizione, s'intende bene, è che vada solo.”

“Ma no, ma no, zio!”

“Ma sí, ma sí, solo, solissimo!”

“Ma scusa, zio!”

“Oh” diss'egli, fuori dei gangheri, “chi lo ha da sapere se non lo so io? Chi è l'asino che paga se non sono io?”

Elena n'ebbe tronco il respiro; tutto il sangue le corse al cuore. Guardò suo zio con gli occhi spalancati, stringendosi le mani al petto, senza proferire parola. Aveva creduto che l'offerta fosse stata procurata da Clenezzi e movesse dalla Presidenza del Senato, dal Governo.

“Non mi sarò spiegato abbastanza” proseguí il conte. “Non mi sarò spiegato abbastanza con quell'altro asino di avvocato, ma lascia fare a me. Non c'è niente di combinato, finora. Sta quieta che i patti saranno chiari.”

Elena abbracciò suo zio con una repentina furia di affetto e di spavento, lo baciò, lo ribaciò.

“No, no, no” diss'ella affannosamente, “No, no, non vado, non dir niente! Grazie! Oh grazie! Facevo apposta, per vedere se ti commovevi, se ti mettevi tu a salvarlo, se gli risparmiavi l'America. Sono stata una stupida, zio, sono stata una ingiusta! Va solo, sai, va solo. Non occorre dir niente. Grazie, zio!”

E lo baciava ancora, lo accarezzava smaniosamente, gli sorrideva con una mortale angoscia nel cuore. Se si tradisse, se fallisse un momento alla sua parte di attrice, potrebbe uccidere suo marito, restar libera.

Era una cosa orribile!

“Che non l'abbia detto chiaro io, all'avvocato” brontolò il conte “che dovrebbe partir solo? Potrebbe anche darsi. Avevo la testa cosí intronata dal viaggio, dalla Cortis, dal...”

“No, no” interruppe Elena. “Gliel'hai detto, giel'hai detto. Se ne va solo; io facevo apposta.”

“Oh ma senti” esclamò Lao, “se un altro gli volesse pagare i debiti, valeva la pena, quest'America, che gliela pagassimo noi? Clenezzi ti ha ben detto che scandali ci sono; cose da Corte d'Assise. Adesso si rimedierà, ma ti pare che egli possa star bene in Italia? Credi che possa restar senatore?”

“No, no” diss'ella afferrando quest'appiglio, “hai ragione, a ciò non avevo pensato. Allora sí, capisco, è meglio che parta, che vada lontano. Oh va, va. Figurati se mi vorrebbe! S'è arrabbiato perché sono andata a trovarlo e poi mi ha lasciata venir via sola, a quest'ora. Non mi può vedere, non ci può vedere nessuno di noi. Anzi, di questo sí poi ti supplico, guarda bene che non gli si faccia sospettare che l'offerta viene da te. Mai, mai!”

“Io ho detto all'avvocato di non parlare” rispose il conte, “ma se lo immaginerà.”

“No, non s'immagina niente, non deve immaginarsi niente, deve pensare che sia il Governo.”

“Oh sí! Il Governo!” fece Lao, con un sorriso incredulo. “M'era passato, sai, per la mente” disse egli dopo una breve pausa “il pensiero che tu con i tuoi eroismi stupidi mi volessi far questa d'andargli dietro; ma può anche essere che non l'abbia detto all'avvocato.”

Tornò sul punto di questo patto esplicito da imporre al signor barone di Santa Giulia ed Elena tornò a scongiurarlo di tacere.

“Bene, bene” rispose Lao “quanto a questo, vedremo. Tu intanto te n'andrai da Roma subito.”

“Sí, zio, tutto quello che vorrai, quando vorrai!”

“Daniele” continuò l'altro “è in grado di partire, credo. Tu e tua madre lo accompagnerete a Passo di Rovese.”

Il cuore d'Elena le balzò nel petto. Che dolcezza, che dolore, che bruciante fuoco! Avrebbe voluto rifiutare, sottrarsi a questa prova amara; non lo poteva.

“Sí” mormorò, chinandosi frettolosamente a baciar lo zio in fronte. “Tutto quello che vorrai. Buona notte.”

“Buona notte” rispose Lao. “Hai tanti scrupoli per tuo marito, e per me, che sono qui mezzo morto per causa tua, niente! Non ho un'oncia di carne che non mi faccia male. Ma se anche crepo io, non importa. Lui è quel che preme. Sí, sí, di' pure di no, tu, ma la è cosí. Basta esser figuri. Buona notte e chiudi bene l'uscio.”

La contessa Tarquinia dormiva.

Elena se ne andò diritta nella propria camera, e, posato il lume sul tavolino da notte, sedette nella poltrona accanto al letto. Era ancora quel dolor sordo al cuore, era ancora quella inerzia mortale della mente; ma piú gravi di prima. Guardava la fiamma della candela tremare ed ardere come le fiamme dei fanali nella via e le pareva di aver nel petto un peso di lagrime morte che non ne potessero ascendere. Non si svestí, non si mosse. Il lume le si velava qualche volta d'una nebbia che lo ingrandiva smisuratamente; allora il suo cuore batteva forte, pareva che le lagrime salissero; ma poi non era nulla, il lume tornava lucido. Verso il mattino piegò il capo sul letto intatto, si assopí un istante, si trovò in sogno a Passo di Rovese. Le pareva di andar a salutare per l'ultima volta i suoi vecchi abeti. Ed ecco, il piú antico, il piú caro, il grande abete triste che pareva stanco di secoli, aveva ceduto al destino, giaceva troncato dalla tempesta. Finalmente allora ella pianse nel sonno, si svegliò, pianse ancora, con sollievo, a torrenti.

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