Tremisse inedito al nome di Desiderio re dei Longobardi: differenze tra le versioni

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| Nome e cognome dell'autore = Camillo Brambilla
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| Titolo = Tremisse inedito al nome di Desiderio re dei Longobardi
| Titolo = Tremisse inedito al nome di Desiderio re dei Longobardi
| Iniziale del titolo = T
| Anno di pubblicazione =1890
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| Lingua originale del testo =
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Camillo Brambilla

1890 Indice:Rivista italiana di numismatica 1890.djvu Rivista italiana di numismatica 1890

Tremisse inedito al nome di Desiderio re dei Longobardi Intestazione 11 marzo 2012 75% Numismatica

Questo testo fa parte della rivista Rivista italiana di numismatica 1890
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TREMISSE INEDITO

al nome di

DESIDERIO RE DEI LONGOBARDI1





San Colombano borgo che prese il nome dal celebre monaco fondatore del cenobio Bobbiese, ed ora si distingue coll’aggiunta al Lambro, appartiene presentemente alla provincia di Milano sul confine orientale di quella di Pavia, ed è territorio segnalato per la squisita bontà del suo vino. San Colombano è però ben più notevole pel singolare rilievo di terreno sul quale sorge e si estende, e la cui natura e disposizione hanno dato materia ed occasione a studî importanti e persistenti dei più dotti geologi.

L’elevatezza del colle di S. Colombano sul circostante piano, e la sua prossimità al fiume Lambro, al Po che di questo riceve le acque, ed all’antica strada, che svolgendosi appunto sulla sinistra del Po conduceva e conduce per Cremona dalla vetusta Pavia a Mantova e nel Veneto, erano circostanze naturali, che per sè lo designavano adatto tanto alla difesa quanto a preparare le offese, epperò non vi [p. 278 modifica]mancarono anche in tempi remoti i munimenti guerreschi nella foggia e nella estensione, che essi suggerivano, e rendevano possibili. Al Castello con baluardi e fosse, che San Colombano ricorda quale tutissimum Federici Castrum nel secolo XII, e vanta anche oggidì annoverato fra i monumenti nazionali, facevano corona robuste costruzioni a Mombrione, alla Mostiola, a Montemalo, ed altre non poche in situazione più depressa, che non quella dominante e principale ove sorgeva il Castello tanto più importante sotto l’aspetto strategico e per la sua estensione.

Tornerà forse arduo ad un recentissimo e benemerito studioso di quanto riguarda questa singola parte del territorio lombardo2, il far dividere l’opinione anche da lui caldeggiata, che appunto sulle falde sud-ovest dei Colli di San Colombano accampossi per qualche tempo Annibale avanti la battaglia del Ticino, ma ad ogni modo San Colombano al Lambro di remota e forse non umile origine, può avere al pari d’altri anche più importanti comuni una storia propria, varia nelle sue vicende, e frequentemente legata coi fatti più memorandi della grande patria italiana.

Luogo forte e salubre per la sua posizione il Colle di San Colombano, come certamente ebbe ben presto numerosi abitanti, e fra questi anche padroni, e con essi e per essi aver parte nei vari avvenimenti, che vennero mutando le sorti del paese, doveva anche conservarne le traccio e i ricordi, siccome appunto, e specialmente accade per simili particolari rilievi del terreno dai quali il circostante e sottoposto piano viene naturalmente, e per ogni rapporto dominato3. Nè San Colombano contraddice col fatto a quelle premesse, poiché nel terreno suo ed in quello delle vicinanze nei passati anni erano frequenti le scoperte di avanzi [p. 279 modifica]murali in larghi tavelloni e laterizi quali soglionsi dire romani, in amplissimi frammenti di pavimento in calcestruzzo, in urne cinerarie, fibule, bronzi, stoviglie e monete tanto imperiali romane quanto giù discendendo e di epoca più recente. Il Riccardi nei suoi studi sul territorio di San Colombano4 accenna opportunamente e con dettaglio a quelle scoperte, e rileva come di esse e di quelle che si facessero nei contorni si occupasse, facendone premuroso studio e ragguardevole raccolta, il sacerdote Luigi Gallotta, che stette proposto-parroco e vicario foraneo nel borgo di San Colombano per ben cinquant’anni, dal 1828, cioè, al 1877 in cui morì di ottantanni al 31 dicembre. Di quanto poteva raccogliere l’ottimo proposto Galletta teneva diligente nota, e deve insieme augurarsi, che quei cimelî non vadano dispersi, e che non ne rimangano disgiunte le memorie colle quali lo studioso raccoglitore amava constatare il tempo di ogni scoperta, il luogo e le eventuali circostanze in cui fosse avvenuta5.

Fra le monete da lui raccolte, il nostro proposto considerava, e giustamente, più preziosa un aurea, agevolmente conosciuta per longobarda al nome del re Desiderio, ma di cui non gli riesciva di completamente interpretare il rovescio, dove dopo la parola FLAVIA vedevansi alcune [p. 280 modifica]lettere a prima giunta, e non difficilmente leggibili, ma che nella loro riunione non sembravano prestarsi ad applicazione pratica, a città qualsiasi, non che fra quelle già note per monete al nome di Desiderio, ad altra che pur si fosse già soggetta a quell’ultimo dei re longobardi.

Quella importante moneta era stata trovata nel luogo detto oggi Camatta ed anticamente Campomalo, a brevissima distanza da San Colombano presso le pendici sud dei suoi colli, in adiacenza alla strada, che da Pavia conduce a Cremona passando per Corteolona, ove sin dai tempi di re Liutprando esisteva un regio Palazzo. Camatta o Casamatta è attiguo al sito ove sorgeva il Castello di Montemalo che ora si nasconde nel modesto cascinale detto Castellazzo nel comune di Chignolo di questa provincia di Pavia6.

Era viva nel proposto Gallotta la brama di avere completa l’interpretazione del cimelio longobardico di cui gli era riuscito d’impedire l’emigrazione, ed essendogli balenato alla mente il pensiero, che appartenendo esso ad altro dei re longobardi, potesse essere sortito dalla zecca non lontana della loro capitale, Pavia, ne comunicò le impronte al chiarissimo professore Turroni della nostra [p. 281 modifica]Università7 e quindi anche a chi scrive8. Poco per vero poteva il richiesto avviso essere agevolato da quelle impronte fatte su cera lacca di vario colore e quasi a modo di suggello, e quindi ogni cenno dovette limitarsi a confermare il molto pregio del cimelio, in quanto era indubbiamente un genuino tremisse battuto per re Desiderio, lasciando affatto impregiudicata la tesi della località distinta al rovescio del pezzo coll’onorevole predicato di FLAVIA, e solo negativamente semplificandola coll’escludere il TICINO ed il MEDIOLANO a cui le lettere scolpite dopo quella parola non si prestavano in nessun modo. Il professore Turroni ebbe poi anche opportunità di vedere, e forse ripetutamente, presso il proposto Galletta a San Colombano il nostro tremisse, ma non mi consta, che formulasse determinata opinione sulla leggenda del rovescio, il che anche a me non riusci, allorchè la compiacenza del possessore me ne offriva possibilità in una visita, ohe appositamente io gli volli fare.

Allora però io feci precisa annotazione dei caratteri di quella leggenda, e lo studio che le dedicai nella quiete domestica, ripassando libri e storie, che mi trasportassero colla mente all’epoca dell’ultimo re dei longobardi, e quasi mi ponessero in mezzo alle sue vicende, ed ai luoghi, che esso ebbe, riebbe e perdette, mi apri uno spiraglio di luce, che tentai fissare ed ampliare, siccome l’ansia numismatica voleva e suggeriva. Senonchè a compiere quello studio e renderne sicuri e più evidenti le conclusioni, vedevo l’assoluta necessità di avere nelle mani il prezioso tremisse, non fugacemente, e per qualche istante concesso da gentile compiacenza, ma con ogni agio come solo avviene di cosa propria. L’ottimo proposto Gallotta peraltro che se lo avea [p. 282 modifica]giustamente carissimo, se spontaneamente mi assicurava di non privarsene per altri se non per me, mi soggiungeva con franca sincerità di non sapervisi in nessun modo risolvere.

Trascorsero così molti anni, e venuto a morte il proposto Gallotta, anche gli eredi suoi, possessori dei cimeli da lui raccolti rispondevano con parole assai gentili, ma in fatto conformi a quelle del loro buon zio, alle richieste, che io mi permettevo di loro rinnovare, e frattanto il tremisse rimaneva materialmente nell’elegante astuccietto, che lo custodiva, e scientificamente non era restituito alla città che doveva onorarsene. Azzardata però con recente opportunità una nuova domanda per la cessione del tremisse trovò essa un cordiale ben augurato assentimento per la gradita cooperazione di un egregio amico, ed ora dopo lunga serie di anni mi è possibile di portare il tremisse di San Colombano a quella pubblicità che esso ben merita.

E appunto per l’importanza attribuitagli e credo con molta ragione che io sono venuto esponendo per così dire la storia del cimelio che forma argomento al presente qualsiasi lavoro. Sono in certo qual modo i documenti del suo processo, e se da essi si ha motivo di dar merito al Gallotta, che dal solo fatto del nome di re Desiderio conobbe la preziosità del pezzo e ne assicurò la conservazione, essi pur concorrono a stabilire colla sua constatata provenienza, e se pur ve ne fosse bisogno, la genuinità del cimelio, per quanto esso possa apparire singolare e peregrino.

Il tremisse di cui mi propongo tentare l’illustrazione è lavorato in oro come suol dirsi pallido, perchè mescolato con discreta proporzione all’argento, ed anche per questo riguardo si conforma a simili monete di epoca longobarda già edite e ben conosciute. Ha il diametro di circa diecisette millimetri, ed il suo peso è di grammi 1,0509. E [p. 283 modifica]contrassegnato da quel consueto e largo orlo liscio, che verso la parte centrale coniata passa a formare un anello rilevato che circonda il nome del principe segnato nella moneta, lasciando al rovescio le traccie dello stesso anello apparenti in incavo con qualche danno della leggenda ivi scolpita. Al centro del diritto vi ha una croce potenziata a braccia eguali, ed in capo alla leggenda altra simile piccola croce. In seguito da destra: DND ESIDERIVR (Dominus Noster DESIDERIVs ReX). La lettera N è in nesso colla successiva D, in alto dopo la prima D vi ha un bisante, e le due lettere E sono indicate con due punti o bisanti accostati ad un’asta od I.

Il rovescio la cui parte coniata è più ampia, presenta due circoli al cui centro sta una stella a sei raggi accantonata da fogliuccie; in giro dopo una piccola croce eguale a quella segnata nel diritto corre la leggenda FLAVIA SIDRIO in qualche modo resa meno semplice, ed anzi effettivamente complicata dalla presenza di alcuni bisanti o punti rilevati, e dei quali se ne contano ben sei, cioè due dopo la L, uno fra le braccia della V, uno dopo l'I di FLAVIA ed uno rispettivamente dopo l’I e dopo l’O di SIDRIO.

È consueta la presenza di alcuno di quei punti rilevati o bisanti nei tremissi longobardi al tipo del presente, appartengano essi al re Astolfo (749-756) ovvero a Desiderio (756-774), ed appaiono poi più numerosi e variamente aggruppati in simili pezzi ed anche nei denari d’argento col nome del re Carlo di Francia detto il Magno quali si [p. 284 modifica]hanno singolarmente di Lucca10. Quei bisanti o punti rilevati, se scarsi ed isolati, erano ragionevolmente ritenuti quali semplici segni di zecca; ma fu ben osservato dal Massagli raccoglitore diligentissimo, ed illustratore delle monete di Lucca11, che se moltiplicati, e più se variati di forma, come venne verificandosi per Carlo Magno, passavano a costruire un modo di ornamento che accenna a progresso di tempo, e ad epoca diversa, e più inoltrata. Ritengo opportuno il prendere nota di questa osservazione per assodare che il tremisse di cui mi occupo, e riguardo al quale ho fatto rilevare la presenza di non pochi di quei bisanti, debba ritenersi lavorato non nei primi anni del regno di Desiderio ma piuttosto verso l’epoca per lui infelicissima in cui dovette soggiacere alle estreme umiliazioni inflittegli dal re dei Franchi12.

Non credo possa esservi dubbio nello esporre la leggenda del rovescio ritenendola costituita dalle due distinte parole FLAVIA e SIDRIO, essendomi sempre sembrato, che qualche eccezione potesse farsi all’assunto dell’Azzoni-Avogaro, di aprirsi la strada a leggere il nome della città di Treviso in tremisse di Desiderio col riunire al FLAVIA una S che gli fa seguito13. SIDRIO adunque ecco il nome della città colla inflessione simile al TICINO, che per re Desiderio si volle segnato nel nostro tremisse.

È noto che di re Desiderio si hanno tremissi stellati non solo al nome di questa sua capitale Pavia, ma anche di altre per lui occupate, quali Lucca14, Milano15, [p. 285 modifica]Piacenza16, ed anche Treviso secondo l’Azzoni-Avogaro17. Rarissimi tutti quei cimeli, si hanno singolari in alcune raccolte privilegiate, e siccome appunto la somma loro rarità doveva essere forte stimolo alla triste genia dei falsificatori, così nè questi mancarono, nè vi fu scarsità di amatori illusi ed ingannati. Ma difficile era che la falsificazione raggiungesse il minuto ed affatto speciale lavoro dei tremissi originali, e la rarità stessa di questi, diveniva al tristo falsificatore massimo ostacolo a fare che l’indegna sua opera potesse essere condotta a tale risultato da trarre in inganno chi avesse sufficiente esperienza nello studio pratico delle antiche monete. Dobbiamo alla diligenza di Guid’Antonio Zanetti la narrazione ben dettagliata di una serie di falsificazioni di monete longobarde ai nomi di Cuniperto, di Liutperto, ed anche appunto di Desiderio tutte con applicazione alla città di Milano (FLAvia MEDIOLANO)18, e per vero lo Zanetti collo aver constatato ben chiaramente il processo di quella grande falsificazione, che doveva però presto scoprirsi, essendosi esplicata anche con impossibili tremissi lavorati in argento, ha reso ottimo servigio ai numismatici divenuti assai più guardinghi e severi nell’accettare simili cimeli. Ci occorre infatti di incontrare anche in alcuna delle raccolte numismatiche più distinte avvertita la falsità di qualche tremisse longobardo, conservato probabilmente quale saggio od imitazione per la mancanza della moneta genuina originale. Ciò trovai verificarsi per la grande collezione imperiale di Vienna19; per quella si rinomata del Welzl de Wellenheim venuta in vendita nell’anno 184420; ed in qualche catalogo recente di monete poste all’incanto ci [p. 286 modifica]accadde pur di trovare annunciato alcuno di quei tremissi, se non colla franca dichiarazione di conio moderno, con quella abbastanza significante di dubbio21.

Poiché ho segnalati i tremissi stellati di re Desiderio fra le monete più rare che ci siano pervenute per l’epoca in cui signoreggiava fra noi la nazione dei longobardi, accennerò esser mio avviso, che quella somma rarità sia da ascriversi agli avvenimenti gravissimi, ohe debbono aver preceduta ed accompagnata la catastrofe con cui i franchi posero termine alla signoria dei longobardi percorrendo e saccheggiando ogni luogo del loro dominio, e tenendo assediata Pavia per ben otto mesi, dalla quale città, con Desiderio fatto prigione, venne tolto e predato il regio tesoro distribuendolo fra le truppe vincitrici. Già scarso il denaro fra la popolazione per le condizioni dei tempi, e sempre peregrine le monete auree battute nella zecca regia, giacché agli ordinari bisogni del paese in tempi appena tranquilli provvedeva la moneta bizantina della quale, particolarmente per quella di rame, è ovvio il trovare non meschini ripostigli, i pochi tremissi locali in qualsiasi modo venuti in mano ai soldati del re franco, saranno stati avidamente presi e via trasportati a trofeo e ricordo della spedizione felicemente compiuta, perdendosene fra noi quasi ogni traccia.

Per tutte le fatte considerazioni io trovai sempre più interessante e prezioso il tremisse di cui ragiono, e mi sentivo animosamente confermato nel proposito di pur giungere a formulare riguardo alla città, che vi si volle commemorata, un concetto che avesse base ragionevole, e consistenza di attendibilità. Dopo varie ipotesi più presto svanite che non proposte, tornatami vana ogni possibile applicazione del SIDRIO a luogo qualsiasi fra quelli soggetti notoriamente al dominio dei longobardi, io pensai portare la mia speciale e minuta attenzione alle città, che i longobardi, e massime [p. 287 modifica]l’ultimo loro re Desiderio ebbero più o meno lungamente ad invadere. Alternati e frequenti erano stati sempre per parte dei re longobardi, e più sotto Astolfo e Desiderio, i tentativi per estendere la loro dominazione, e resistere reagendo alle pretese dei pontefici sempre pronti dal canto loro a promovere, ed implorare l’intervento delle armi dei franchi, dopoché la lontananza e la debolezza degli imperatori di Costantinopoli e degli esarchi, che in queste regioni li rappresentavano, avevano aperto l’adito fra altre ambizioni a quella appunto dei pontefici, per un dominio loro proprio ed affatto indipendente.

Scorrendo fra altri libri che reputai utili al mio studio l’istoria di Viterbo di Feliciano Bussi22, m’incontrai, laddove quell’autore intende stabilire l’autenticità giustamente contrastata del marmo in cui Viterbo conserva scolpito un decreto per essa molto onorevole di Desiderio re dei longobardi, in un brano della Cosmografia dell’Anonimo Ravennate edita a Parigi nel 1688 dal P. Placido Percheron in cui nominandosi molte città vicine a Roma è scritto: Item juxta Romam est Civitas quae dicitur Civitate Novas. Item Sabbatis, Foro Globi. Item juxta territorium Civitatis, quam superius diximus Battanis; ad partem Tusciæ est Civita, que dicitur Sudrio Magnensis, item foro Casi, Beterbon, Balneon Regis, Orbevetus, Bulsinis, Pallia, Clusion, etc. Fu quello lo spiraglio di luce che fermò la mia attenzione, aprendo alle successive ricerche un campo più ristretto e determinato in cui conoscere, e stabilire se i rapporti di Desiderio colla città di Sutri potessero effettivamente essere stati tali, che il suo nome comparisse in moneta di quel re dei longobardi, come vi troviamo quello di Milano, di Lucca, di Piacenza. Poiché nessun dubbio poteva presentarsi nel ritenere, che Sudrio stesse nell’Anonimo Ravennate per Sutri, ciò essendo evidente per il testo medesimo di quello scrittore, che nomina le città poste juxta Romam ed anche pel Magnensis che segue il Sudrio, e che accenna [p. 288 modifica]alla Selva magna, la quale si sa essere nel territorio appunto di Sutri.

M’importa però di qui accennare che, se il concetto di attribuire a Sutri il nostro tremisse si trovava abbozzato nella mia mente appena essa fermossi sul brano dell’Anonimo Ravennate riferita dal Bussi, e con ciò era resa in me più acuta la brama di possederlo, il forte dubbio, che ciò pur potesse effettivamente verificarsi, e la non esclusa possibilità che avuto modo di una prolungata o tranquilla considerazione del singolarissimo pezzo, questa aprisse il varco a diverse conclusioni, mi distoglievano dall’insistere attivamente in uno studio, che rimaneva ne’ miei propositi, ma in certo modo sospeso, in quanto la direzione poteva esserne per avventura errata.

Ma come già ho esposto mi riuscì dopo tanti anni di avere quel tremisse, e di conformarne con scrupoloso esame ed in via assoluta, l’interpretazione. Compiutone pertanto, secondo poteva riuscire, lo studio, mi è data la soddisfazione di comunicarne la conclusione ai colleghi amatori della numismatica.

Mia prima cura, dopo essermi assicurato della giusta ed inappuntabile interpretazione delle leggende, ed aver quindi ripresa l’indagine colla guida già fissatami, fu di accertarmi, che esatta fosse la citazione di Feliciano Bussi riguardo all’Anonimo Ravennate di cui mancavami ogni edizione. Qui mi soccorse la compiacenza del Dott. Paolo Orsi della Biblioteca Nazionale di Firenze, che oltre avermi fatto certo per riguardo al Sudrio della relativa concordanza colla edizione primitiva fatta dal Percheron nel 1688 sul codice della Biblioteca Nazionale di Parigi, mi diede notizia della edizione più recente, che dell’Anonimo Ravennate erasi fatta dai sigg. Pinder Parthey23. Su questa ho potuto io stesso constatare a pagina 285 sussistere letteralmente il Sudrio ad indicare la città di Sutri. Né può esservi dubbio [p. 289 modifica]di errore di copista o di amanuense. I sigg. Pinder e Parthey essendosi proposto di procurare una edizione veramente completa ed accurata dell’importante lavoro dell’Anonimo di Ravenna, non ebbero ricorso soltanto al codice parigino come il Percheron, venuto perciò in qualche sospetto al nostro eruditissimo Muratori24, ma ne fecero riscontro coi codici della Vaticana, e di Basilea, senza trascurare le riproduzioni fattene da Giacomo Gronovio nel 1696, e da altri successivamente. Fra le molte varianti minutamente rilevate dai signori Pinder e Parthey nessuna ebbero essi ad accennarne di relativa al nostro proposito.

Confermano i nuovi diligentissimi editori dell’Anonimo Ravennate, coadiuvati nel loro importante lavoro da non pochi altri eruditi, doversi ritenere che lo stesso Anonimo dettasse la sua Cosmografia nel settimo secolo dell’era volgare, e non potersi esso confondere, siccome vi inclinava il Muratori, in una sola persona con Guido prete pur di Ravenna, appartenente ad epoca posteriore, e forse al secolo IX.

Notevolissima è l’autorità che devesi attribuire all’Anonimo Ravennate, sia pel tempo in cui ritiensi aver scritto, sia per appartenere a quella città di Ravenna, che dopo l’epoca di Teodosio II era importante centro per le cose geografiche25.

Sutri come si denomina questa fra le antichissime città italiane, e di origine etrusca, ora appartenente alla provincia di Roma, circondario di Viterbo; trovasi indicata nelle storie, e negli antichi codici ed itinerari col nome Σουτριον, di Sutrium, di Sutrio, e finalmente di Sudrio dall’Anonimo Ravennate. Si disse Respublica Sutrinorum, e secondo i tempi anche Colonia Iulia Sutrina quando ebbe una nuova colonia, imperando Augusto; Sutrinus fu chiamato il vescovo che essa città ebbe dalla Chiesa.

Non è punto a ritenersi troppo strano il trovare [p. 290 modifica]nell’Anonimo Ravennate indicata Sutri, col Sudrio anziché col Sutrium, invece usato dall’altro Ravennate il prete Guido26. Il nostro Anonimo così scrivendo attenevasi molto probabilmente al parlar volgare de’ suoi tempi in cui assai comunemente accadeva di sostituire alla T nelle denominazioni la più dolce lettera D che mancava agli antichi toscani ed etruschi; dal che ne vennero mutati HATRIA in HADRIA (Adria), TVTER in TVDER (Todi), BVTRIVM in BVDRIVM (Budrio). E quanto fosse in fatto frequente il mutare la T in D ed anche viceversa ci è constatato da antiche iscrizioni ove abbiamo, a cagion d’esempio SID, invece di SIT tibi terra levis, non che da moltissimi documenti, e questi anche precisamente del secolo VIII, dei quali io mi limiterò ad accennare quelli riportati, e di tale epoca nel Codice diplomatico Sant’Ambrosiano27.

Tutto ciò per altro vale pel Sudrio invece di Sutrio, ma non avrebbe conveniente rapporto col cambiamento della U in I come si verifica sul tremisse di San Colombano ove leggiamo non SVDRIO ma SIDRIO. Mi occorre quindi rilevare, che se era nella bassa latinità ovvia la mutazione della T in D e viceversa, ciò avveniva anche fra loro riguardo alle lettere I V (od U) ed Y. Scorrendo il Glossario Italico di cui siamo debitori all’erudizione di Ariodante Fabretti28, e così le ricordate opere dell’Anonimo Ravennate, e del prete Guido, noi ci incontriamo in un frequente scambio — quelle lettere nei nomi propri di persona, come Surus di Syrus — Sirus; Suiia e Sitia; Tutius e Titius; così nella denominazione di non poche città, e già in uso in tempi remoti, come Dirachium, Dyrachium, Durachium; Siracusa Syracusa, e Suracusa; Sirentum e Surrentum, e con [p. 291 modifica]analogo esempio ci vien fatto di leggere Trasimenus — Trasymenus, e Trasumenus ed anche Tharsomenus pur variato con particolare ortografia a norma dell’uso e dei tempi. Ciò io credo appunto avvenisse per l’uso della Y che sostituita alla V (U), ed avendo suono analogo alla lettera I conduceva poi ad un notevole mutamento di ortografia e di pronuncia, quale appunto occorre per noi in quel Sidrio invece del Sudrio, dove forse lo zecchiere, ch’avea a scolpire al seguito del FLAVIA e dopo la S una V alla quale riesciva scarso materialmente lo spazio, come pur lo era per una Y, si attenne al comodo lavoro di una I, che nella fuliggine del tempo, e nelle ristrette sue cognizioni compiva, convenientemente il senso e la parola.

Credo dopo le cose fin qui dedotte, mancando assolutamente gli elementi di una diversa conclusione, che per sa, ed anche fatta astrazione da ogni argomento, che d’altronde potesse concorrere a tale affermazione, in quel SIDRIO abbastanza nettamente scolpito nel nostro tremisse coll’onorevole titolo di FLAVIA, applicato per le più cospicue città dei re longobardi, che per le loro persone avevano adottato quello stesso titolo abbia a ravvisarsi senz’altro indicata la città di Sutri.

Non potevo però ignorare che oltre la città di Sutri nel dominio romano esista in Italia pur una borgata, che egualmente si denomina Sutrio, e questa non lungi da Tolmezzo in provincia di Udine a cui estendevasi notoriamente il regno dei longobardi. Ma sebbene tale comune avesse già un castello, non vi manchino scoperte di antichità, e possa ritenersi non vana l’opinione29, che ne fosse fondatrice una colonia venuta dal Sutri romano, non era il caso di dar seguito a relativo dubbio, poiché, modestissimo luogo mai sempre, popolato da poco più di mille abitanti, non è posto in evidenza da fatto qualsiasi che potesse aprir l’adito a credere, che anche momentaneamente regnando la nazione dei longobardi avesse assunto [p. 292 modifica]importanza, e tanto meno poi tale e siffatta da essere equiparata alle città di quel dominio.

Ristretta pertanto ogni considerazione al Sutri appartenente alla Toscana romana, e poi al ducato di Roma, era ovvio doversi esaminare se gli avvenimenti storici svoltisi qui in Italia nel secolo VIII permettessero di darci giustificata ragione del fatto di cui la comparsa del nome, di Sutri in tremisse di re longobardo, sarebbe stato effetto, e costituirebbe positiva affermazione.

La città di Sutri, ridotta oggidì a più modeste proporzioni per estensione e importanza, e pel numero de’ suoi abitanti, è luogo fortissimo per la posizione su di una eminenza di tufo, che a guisa di scoglio è tagliato perpendicolarmente da ogni parte. Divenuta dopo la distruzione di Veio, da etrusca romana, Sutri ebbe considerazione di claustrum Etruriae, ossia di valido baluardo per Roma verso quella parte della Toscana cui la stessa città già prima aveva appartenuto.

Le storie dettate da Tito Livio accennano ripetutamente ad avvenimenti in cui va congiunto il nome di Sutri, con quelli gloriosissimi di Furio Camillo, di Emilio Barbula, di Quinto Fabio Massimo. Augusto apprezzando l’importanza strategica di Sutri, vi inviava una nuova colonia da cui denominossi Colonia Iulia Sutrina.

Più volte i Goti devastarono la misera città, che posta sulla via Cassia, che presso Roma staccandosi dalla Flaminia conduceva a Firenze, e per l’Emilia a Bologna, si trovava per la stessa sua forte postura esposta alle più gravi vicende di guerra, essendone il possesso desiderato, e robustamente contrastato tanto dalle orde invaditrici, quanto dai difensori, e dagli stessi cittadini.

Nell’anno 569 i Longobardi, ohe alla lor volta chiamati da Narsete scesero ad invadere l’Italia, estendendosi dall’Umbria, anche in quella parte dell’Etruria o Toscana, che più prossima a Roma, dicevasi romana, occuparono con altre città di quella regione anche Sutri, che solo parecchi anni più tardi al cadere del secolo VI fu loro ritolta dall’Esarca Romano Patrizio, e ritornata all’impero.

[p. 293 modifica] Successivamente Sutri rimase vincolata alle sorti di Roma e del suo ducato di cui si trovò far parte, e nell’anno 727, quando Liutprando re dei longobardi, approfittando dell’acuto contrasto sorto fra l’ardente iconoclasta imperatore Leone Isaurico, ed il pontefice Gregorio II si fece contro di questi minacciosamente aggressivo, Sutri pensò di tutelare la propria sicurezza facendo omaggio allo stesso pontefice di obbedienza devota e di fedeltà. Nell’anno 728 però Liutprando entrava in Sutri, e, se dopo qualche mese indottovi dai doni e dalle preghiere del pontefice acconsentiva a partirsene, non lo faceva a titolo di restituzione siccome avrebbe voluto Gregorio II ma per vantato ed espresso atto di liberalità, e per ossequio verso San Pietro ed a titolo di dono alla Chiesa, nel che si accordano gli storici, per quanto le parole adoperate possano essere diverse30.

Se io non erro nel fatto che Liutprando ben credette aderire alle preghiere del pontefice, accompagnate da cospicui donativi, ma colla forma di liberalissimo dono sì diversa da quella di una restituzione, sta già un richiamo del possesso, che di Sutri avevano preso i re longobardi a cominciare da re Alboino nei primordi della loro invasione, e quasi una riserva di nuova occupazione non difficile a prevedersi nello stato delle relazioni fra i pontefici ed i Longobardi, assai aggrovigliate pei ripetuti tentativi della parte imperiale per riprendere autorità in domini sostanzialmente perduti.

Nell’anno 740 la ribellione di Trasemondo duca di Spoleto, che si volle fosse promossa od almeno fomentata dal pontefice Gregorio III, che lo accolse in Roma, condusse nuovamente Liutprando nel ducato romano di cui gran parte venne da esso occupata, togliendosene solo dopo due anni per accordi col nuovo pontefice Zaccaria, che il re longobardo ricevette molto rispettosamente in Terni. Fra [p. 294 modifica]le altre concessioni fatte allora da Liutprando noto pel mio assunto quello della valle quæe vocatur magna appartenente a Sutri31, ma ancora e ripetutamente a titolo di liberalità e di volontaria donazione, siccome di territorio proprio, comunque occupato per ragione di guerra.

Ciò avveniva nell’anno 742, e nel successivo 743 Liutprando aveva nuovo convegno, ma in Pavia sua capitale, col pontefice Zaccaria fattosi questa volta intermediario di Eutichio esarca di Ravenna.

Eletto a reggere la nazione dei Longobardi Astolfo (anni 749-766), questi che si trovava allora padrone di Ravenna, e ne aveva anzi fatta la sua residenza, spingevasi vigorosamente nel ducato romano et suæ jurisdictioni civitatem romanam vel subjacentia ei castra indignanter asserebat32. Fu allora Sutri non solo nuovamente occupata ma anche miseramente devastata, quando nell’anno 746 il re Astolfo, fermo nel proposito di rendersi padrone di Roma e del suo ducato, anche dopo gli inutili uffici dell’imperatore Costantino V Copronimo, ed un primo assedio posto dai Franchi di Pipino a Pavia e tolto a condizioni per lui gravissime, volle rinnovare i suoi tentativi, dando così occasione ed una seconda discesa dei Franchi, ad un nuovo assedio di Pavia, ed a conclusioni assolutamente disastrose per sé e per la nazione sua.

L’importanza grandissima, che si diede alle disposizioni di Pipino, e dei Franchi da lui condotti nei rapporti col pontefice riguardo al dominio temporale di questo e della sede romana, fanno emergere gli avvenimenti momentaneamente chiusi colla seconda capitolazione di Astolfo a seguito dell’assedio di Pavia, fra i più segnalati dalla storia nel più ampio suo significato.

Poco tempo sopravisse Astolfo alla sua sconfitta, ed a lui con breve intervallo succedeva Desiderio (766-774), che per salire al trono, escludendone l’avversario suo Rachis, seppe chiedere ed avere l’appoggio del pontefice Stefano II.

[p. 295 modifica] Ed anche col pontefice Paolo I come con Pipino e cogli immediati suoi successori, Desiderio conservò per una serie d’anni non breve relazioni almeno in apparenza amichevoli, sebbene la dignità di Patrizio romano attribuita ai re dei Franchi, rendesse meno facili i comuni rapporti. Ma fra gli anni 769 e 772 rimasto da prima solo sul trono presso i Franchi Carlo detto il Magno salito poi alla sedia pontificia Adriano uomo vigoroso ed intraprendente, e promosse da questo od utilizzate largamente le ribellioni fra i personaggi più distinti di nazione longobarda, il re Desiderio, che dal canto suo non sapeva né poteva rinunciare alle antiche aspirazioni de’ suoi predecessori, si trovò circondato dalle maggiori e più stringenti difficoltà. Indarno cercò Desiderio di scongiurarle con una possibile ma rifiutata riconciliazione col pontefice, e col creare difficoltà nella famiglia stessa del re dei Franchi, non più suo genero pel ripudio della di lui figlia Desiderata (a. 771); col promovere alleanze ed aiuti alla corte imperiale di Costantinopoli. Avuto in fine ricorso risoluto alle armi. Desiderio invase una volta ancora il ducato romano, Roma stessa minacciando di formale assedio.

Fu precisamente nell’anno 772 che l’esercito longobardo s’impadroni delle maggiori città del ducato romano, non risparmiando devastazioni e rovine, fra le quali si ebbe a maggiormente deplorare quella di cui fu vittima Blera, dove colta la miglior parte della popolazione al momento di raccogliere tranquilla le messi, venne quella crudamente passata, per quanto si narra, a fil di spada. Già si avanzavano (773) per le note vie Cassia da Sutri da tempo occupata, e Flaminia da Otricoli i Longobardi condotti personalmente dal re Desiderio col figlio e socio Adelchi verso Roma, quando, forse per le minaccie del focoso Adriano, ma ben più probabilmente per l’annunciato approssimarsi ai confini del regno dell’esercito franco sollecitato, non solo dal pontefice, ma anche da parecchi influenti ribelli, Desiderio si ritrasse coli’ esercito suo riducendosi rapidamente in Lombardia per avvisare alle difese, qui dove più gravi incalzavano i pericoli. È ben noto come Carlomagno, che [p. 296 modifica]nell’anno 773 passate le difficili chiuse mercè non ben determinati ma facilmente designati ausiliari, era giunto a Verona, poi a Roma per ossequiarvi il pontefice confermando le famose donazioni fatte dal padre Pipino, nell’anno 774 dopo un assedio di oltre otto mesi prendesse Pavia, facendo prigione Desiderio, che seco condusse in Francia colla moglie Ansa, e che per tal modo ebbe triste fine il regno dei Longobardi durato poco più di due secoli.

Non è in nessun modo per me il caso di aggiungere parola su quell’ultimo e memorando periodo del dominio dei longobardi fra noi. Le molte questioni, cui la storia di quella nazione nel suo complesso, e per la catastrofe, che ne fu la conclusione ha dato luogo, furono ampiamente trattate da insigni scrittori. Sia lecito osservare che per quanto nei loro egregi lavori quei valentuomini sapessero elevarsi con proposito di schietta imparzialità, indipendente dai partiti e dalle idee preconcette, non poterono ancora raggiungere suffragio di comune e generale acquiescenza. Oggi poi quelle questioni sono fors* anche più difficili ad essere toccate, altri ostacoli aggiungendosi agli antichi derivanti dalle fonti stesse cui attingere, e che appaiono e sono eccessivamente partigiane.

Per l’assunto che io doveva propormi bastami aver posto in sufficiente evidenza il fatto che la città di Sutri come fu una delle prime ad essere occupata dai longobardi nel ducato romano, fu anche una di quelle più frequentemente ripresa, ed una poi delle ultime ad essere sgombrata.

Se si pon mente alle condizioni in cui trovavasi re Desiderio negli anni 772 e 773, quando avvertito del minacciato ed effettivo intervento di Carlo Magno coi Franchi, esso stava per prendere le estreme sue risoluzioni, sia per procedere dalla forte posizione di Sutri verso Roma onde tentare di rendersi rapidamente padrone, ovvero per raccogliere ogni sua forza e ritrarsi a difendere la sua capitale, si può ben comprendere come in lui sorgesse il pensiero di constatare il suo possesso su quella città, baluardo e difesa del ducato romano, facendone scolpire il nome in [p. 297 modifica]altra delle monete nelle quali già figuravano quelli di diverse importanti città, come fu già accennato.

Né è fuor di luogo il qui prender nota che Sutri a differenza di altre città, ed anche della vicina Nepi non ebbe mai un proprio duca, e come a volta a volta, e poi definitivamente si ritenne soggetta al pontefice insieme al ducato romano, ma si trovasse in possesso diretto del re longobardo, quando questi ebbe a portarvi il suo campo, dimorasse poi anche secondo le esigenze del momento in Viterbo od in Terni33.

Quanto all’officina monetaria nella quale il nostro tremisse possa essere stato lavorato, ammetto senza difficoltà le eccezioni che si affacciano per ritenere che una simile officina fosse attivata precisamente nella città di cui quella moneta porta il nome. Può piuttosto credersi, che fosse lavoro di quell’officina, che per le loro monete i re longobardi tennero sempre e sicuramente aperta in Pavia. Non vorrei però escludere, che Desiderio, quando nell’anno 773 lasciava Pavia col figlio Adelchi, e coll’intiera sua corte, per mandare a compimento la divisata impresa contro Roma ed il pontefice, avesse per avventura al suo seguito anche gli officiali preposti alla moneta, dai quali nella regia corte e cum jussione regis, quello ed altri simili tremissi potessero essere preparati.

La rapidità con cui corsero e si mutarono gli avvenimenti memorabili dell’estremo periodo della storia di Desiderio e dei longobardi, si aggiunge alle cose già esposte circa la rarità dei tremissi al nome di quel re, per spiegarla abbondantemente riguardo al cimelio che mi è dato di pubblicare colle sin qui svolte note illustrative.

Se le mie congetture e le mie conclusioni si trovano accolte ed accettate, la città di Sutri già tanto illustre per le sue remotissime origini; pel suo anfiteatro scavato nella [p. 298 modifica]massa del tufo su cui essa sorge; per le sue mura etrusche; pei concilii ripetutamente inaugurativi, pei valentuomini finalmente cui ha dato la nascita, avrà nuova ragione di gloriarsi, avendo il suo nome raccomandato al tremisse da me segnalato all’attenzione dei numismatici.

Tale moneta pel momento in cui è a ritenersi ordinata ed emessa è un monumento di grande ed assoluta importanza storica, ed altra ne acquista per essere esemplare delle ultime monete che si sarebbero lavorate per la nazione dei Longobardi, e che di essa serbino memoria.






Note

  1. Questo studio fu per la prima volta pubblicato in fascicolo separato nel 1889 a Pavia.
  2. Alessandro Riccardi, Le località e territorj di San Colombano al Lambro, Pavia, 1888. Pag. 198.
  3. Ricordo por abbondanza di simili memorie in avanzi di costruzioni murarie, sepolcri, monete ed arnesi personali e domestici, i luoghi elevati sol circostante piano di Casteggio nell'Oltrepò, e della Madonna delle Bozzole in Lomellina, provincia di Pavia.
  4. Opera citata. Pagine 125, 181, 132, 135, 204, 205.
  5. Quando don Luigi Gallotta nel 1828 era eletto a proposto-parroco di San Colombano per voto unanime di quel comune, egli proveniva da Lodi ove ora professore in quel Seminario diocesano. Dotto e studiosissimo seppe congiungere l’efficacia della parola ai benefici dell’operare, quale gli era suggerito da un cuore schietto e tenerissimo. Fu ispiratore benemerito del filantropo fondatore di uno Spedalo, di cui S. Colombano mancava. Come buon sacerdote seppe anche essere buon italiano in tempi difficili, e vivente ebbe giusta fama di uomo saggiamente caritatevole, e lode singolare ed incontestata per virtù vera, costante e scevra da ogni ostentazione. Lasciò molti scritti, ma non fece alcuna pubblicazione, trattenutone al certo da modestia sincera, che non fu vinta neppure dall’intima relazione tenuta per comunanza di studi e di opinioni col non mai abbastanza lodato vescovo di Pavia Luigi Tosi, che però a dir vero di quella stessa modestia dava a lui il più luminoso esempio.
  6. Devo alla compiacenza dell’egregio Cav. Fiorani, medico primario dello Spedale maggiore di Milano, la notizia del luogo ove il tremisse di Desiderio venne scoperto e raccolto. Egli per me la ricercò e trascrisse dalla memoria originale del proposto Galletta di cui era congiunto. Montemalo col suo castello era località di molta importanza in relazione ai munimenti del vicino e dominante San Colombano e la vicinanza sua all'antica grande strada pavese, ed alla Corte regia, che prese il nome dall’attiguo fiume Olona, dà modo anche di spiegarsi come appunto nella stessa località potesse andar smarrita e quindi scoprirsi la preziosa nostra moneta. Tengo poi anche sicura informazione essersi ivi rilevata resistenza di antiche sepolture in parte già violate e scomposte, e ritenute da chi le ebbe ad esaminare di epoca assai remota. Il nome di Campomalo ricorda dolorosamente una vittoria dell’arcivescovo Ariberto a capo dei militi maggiori o capitani milanesi, contro i concittadini del partito dei militi minori o valvassori, e fuorusciti alleati ai lodigiani nell'anno 1036.
  7. Gerolamo Turroni era erudito e coltissimo professore di storia, e teneva presso il nostro Ateneo le veci del mancante professore di archeologia, conservandone il gabinetto ed il medagliere. Morì nell’anno 1864.
  8. Ebbi le impronte a mezzo del benemerito proposto della Basilica reale di San Michele don Federico Cattaneo, defunto nel 1864, e che era amicissimo del Galletta.
  9. I tremissi di re Desiderio col flavia ticino da me pubblicati fra le Monete di Pavia, Ta7. I, 5 e 6, pesano rispettivamente gr. 1,065 e 1,010.

    Discorrendo delle monete di Pavia, ho potuto porre in evidenza come dei tremissi lavorati per i re longobardi abbiansene a distinguere specialmente mente quattro tipi, dei quali i primi sono pure e semplici imitazioni dei tremissi bizantini, di quelli in ispecie al nome di Maurizio Tiberio. Conoscersene quindi altri che portano al diritto il busto ed il nome del re longobardo, ripetuto lo stesso nome anche al rovescio intorno alla figura alata di tipo pur bizantino; poi aversi in terza linea tremissi col busto ed il nome del re al diritto e la figura di San Michele colla sua leggenda al rovescio; chiudersi infine la serie coi tremissi stellati fatti a somiglianza di quelli di Lucca, e dove non più compare il busto ma solo il nome del re intorno ad una croce, e nel rovescio vi ha la stella a sei raggi col nome della città onorata colla qualifica di flavia.

  10. Massagli, Memorie e documenti per servire alla Storia di Lucca, Lucca, 1870. Tav. III o IV.
  11. Opera citata, pag. 12.
  12. I due tremissi stellati di Desiderio da me pubblicati ai N. 5 e 6, Tav. I delle Monete di Pavia al loro rovescio non hanno che un solo bisante dopo la l di flavia, e tre ne portano segnati al diritto
  13. Zanetti, Delle monete che ebbero corso in Trevigi. Nuova raccolta. Tomo IV.
  14. Cordero di Sanquintino, Della zecca e delle monete di Lucca. Lucca, 1860. Pag. 15.
  15. Dom. Promis, Monete di zecche italiane. Torino, 1867. Pag. 16.
  16. Feuardent, Revue numismatique, 1862. Pag. 55.
  17. Op. cit. Pag. 56.
  18. Zanetti, Nuova raccolta, ecc. Tom. IV. Pag. 519. Lettere inedite pubblicate da B. Biondelli. Milano, 1861. Pag. 46.
  19. Arneth, Synopsis numorum veterum qui in Museo Cesareo Vindobonensi adservantur, 1812. Pag. 211, 212.
  20. Catalogue de la grande collection de monnaies, ecc. Vienne, 1844. Vol. II. Pag. 159 N. 2733.
  21. Veggasi il catalogo della collezione Taggiasco. Roma, 1887 ai N. 974 e 975.
  22. Roma, 1742. Pag. 25.
  23. Ravennatis Anonimi Cosmographia et Guidonis Geographica, Berolini, 1860.
  24. Rerum Italicarum Scriptores, Tom. 10. De tabula Chorographica Medii Aevi. Pag. XV.
  25. Lèlewel; Géographie du Moyen-âge.
  26. Guidonis Geographica, a seguito dell’Anonimo Ravennate di Pinder e Parthey. Pag. 488.
  27. Fumagalli, Codice diplomatico Sant’Ambrosiano, Milano, 1805. Pag. 88, 39, 41 ed altrove. Vedasi anche Du Cange, Glossarium, ecc. Basileae. Tom. I, Pars secunda. Pag. 702. D mutatur in T non semel ut SET pro SED aut vicissim.
  28. Torino, 1859 e seguenti.
  29. Nispi-Landi, Storia di Sutri. Pag. 73.
  30. Anastasio Bibliotecario, Rerum Ital. Script. Tom. III. Pag. 157. Sigonio, De regno Italico. Bologna 1580. Pag. 110. Muratori, Annali, Anno 728.
  31. Anastasio Bibliotecario, Op. cit. Pag. 162.
  32. Idem, idem, pag. 166.
  33. Paolo Bondi, Memorie storiche della città Sabazia, e saggio storico sull’antichissima città di Sutri, Firenze, 1886.
    Gaetano Moroni, Dizionario di erudizione — Voce Sutri.