Breve trattato delle cause che possono far abbondare li regni d'oro e d'argento dove non sono miniere/Parte seconda/Capitolo III: differenze tra le versioni

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Ancorché basti per il mio proposito quanto si è provato, che, essendo vera la conclusione ed esperienza, non saria vera la sua massima che l’altezza del cambio sia causa della penuria; con tutto ciò per maggior chiarezza, conforme ho promesso, se discorrerá se siano vere la conclusione ed esperienza. E, incomminciando dall’esperienza, la quale par che mova piú della ragione, tenendo piú del senso e quella dell’intelletto, dico che, se bene mi bastaria negare, per essere suo fondamento detto assunto; con tutto ciò mi contento pigliare il peso di provare il contrario.
Cosa notoria è che quindeci, venti o trent’anni adietro, dato che il cambio fusse basso, mai vennero li detti denari della estrazione della robba in Regno in contanti, e in consequenzia mai abbondò di moneta, poiché, come si è provato nella prima parte, non vi è altra causa di aver denari in Regno. Lo che fa conoscere chiaro la somma, che per conto di detta robba sola saria venuta in Regno, oltre di quella, che per il guadagno nascea al mercante per la bassezza del cambio, come dice che saria venuta in Regno: quale somma in anni quindeci, a sei milioni l’anno, importaria novanta milioni. Sí che, se fusse vera la esperienza, oltre li denari che fussero stati prima in Regno nell’anno 1595, per li detti anni quindeci soli vi sariano stati li milioni novanta: quali tutti doveano essere in Regno, giaché, come esso confessa, dalla Maestá cattolica non solo non se ne cava moneta dal Regno, ma ve se ne invia; né meno sariano uscite le monete per le robbe che vengono da fuora e per l’entrate che tengono forastieri, stante la bassezza. Lo che quanto sia erroneo e falso non occorre dirlo, ché né in detto tempo, né prima, né mai vi si ritrovò né la predetta somma né la decima parte. Lo che basti a provare li continui fallimenti de’ banchi, li quali non son falliti né per malizia né per disgrazia, eccetto che, avendo impiegato li denari in mercanzia, quando si ha voluto cavare alcuna somma, in breve, di cento o ducentomilia docati, per la carestia di contanti, che non han possuto ritrovare per gli altri banchi (ché, se vi fussero stati, averiano avuto credito; ma, per la carestia che vi era, ognuno steva sopra la sua), son falliti. Ché se in detto tempo in banchi vi fussero stati solo tre o doi milioni di contanti e meno, al securo non saria successo fallimento. E a chi non bastasse questa prova, potria far diligenza e vedere nelle casce maggiori de’ banchi in quel tempo che contanti vi erano, ché ritrovará che né tre né doi e forse meno uno ve ne era di milioni; ché, se bene ve ne fussero stati diece e venti e trenta nell’anno 1590, meno arrivaria alla proporzione che vi dovea essere a rispetto della quantitá predetta. Veritá dunque certissima è che non sia vera la detta esperienza, ma imaginaria; e questa, reale e tanto differente dalla predetta, che è contraria. Oltre di ciò si può conoscere, questa sua abbondanza in detto tempo e penuria nell’altro, dall’argento che è venuto in zecca dall’anno 1581 indietro, nel qual tempo si permesse che si spendessero ordinariamente le monete spagnole, quale prima non si spendeano, ma andavano in zecca con tutte l’altre forastiere, che veneano in alcuna quantitá mediocre: ché mai si ritrovará esservi venuto ordinariamente, non che sei milioni, o quattro, o uno, ma sottosopra, per il calculo che ho fatto fare dall’anno 1548 insin alli 1582, repartendo tutta la summa a tutti l’anni, viene libre d’argento ventinovemilia centosessantasette che sono venute in zecca, quale, riducendole in valuta di monete, sono trecento e seimiliaducentocinquantatré ducati l’anno. E, se a questo mi si dicesse che questa poca somma saria a rispetto della moneta venuta in zecca, ma non per questo séguita che non sia venuta altra somma nel Regno, rispondo che la detta prova conclude benissimo che non è venuta altra somma in Regno, non solo a rispetto delle robbe che si estraeno, ma per ogni altro rispetto, mentre non si spendea non solo moneta forastiera d’altri prencipi, ma meno la spagnola, quale ha corso dopo il bando del prencipe di Pietraperzia, in quel tempo viceré in Regno, sí che di necessitá tutta andava in zecca. Perciò conclude benissimo che mai in Regno, ancorché il cambio fusse basso, ci è venuta la somma che dice, ma né la quarta né la decima parte. E, se si dicesse che questa poca summa è a rispetto delli molti anni che si è fatto il calculo, incomminciando dall’anno 1548, dico che poca e nulla differenza vi è fra gli anni primi e ultimi, e, se vi è differenza, vi è di maggior summa nei primi. E, per conoscere come l’altezza e bassezza del cambio non importa cosa alcuna per detto effetto, ho fatto fare il calculo dalli 1582 insin alli 1590, che, secondo lui, il cambio era basso, e dalli 1590 insin alli 1605, che, come dice, il cambio era alto, dell’argento venuto in zecca; e, partita la summa dalli 1582 insin alli 1590, son venuti ogni anno libre d’argento doimiliaseicentotrentasei, che, convertendosi in denari, sono docati ventisettemiliaseicentosessantaotto, nel qual tempo il cambio era basso; e per tutto il calculo dall’anno 1590 insin all’anno 1605, nel qual tempo il cambio era alto, viene per ogni anno libre d’argento ventiunamiliacentoquarantadue, quali, redotte in denari, sono ducati ducentotredicimiliatrecentonovantauno: qual calculo dimostra che non solamente nel tempo del cambio basso il Regno non abbondava di moneta, ma era tutto l’opposito. E, se si dicesse che in quel tempo correva la moneta spagnola in Regno, sí che non conclude la prova, tutto questo si concede: ma correa ancora dalli 1590 insin alli 1605, nel qual tempo il cambio era alto e andava tanta quantitá esorbitante in zecca, a rispetto del tempo nel quale il cambio era basso. E, se ancora si difficultasse e si dicesse che le monete andate in zecca in questo tempo erano monete che si trovavano nell’istesso Regno per farne mezzi carlini, nel tempo predetto dalli 1582 alli 1590 era il medesimo che si faceano mezzi carlini, e, se vi fusse stata moneta, si avriano fatte, come si fecero, della poca. Come dunque non si ha da concedere per coniettura certa, presunzione vera e prova ancora, che non sia vera l’esperienza che il Regno abbondasse di moneta nel tempo che egli dice che era il cambio basso, vedendosi tutto l’opposito? E, si bene quanto si è detto sia bastante e superabbondante, e a lui toccava provare il suo assunto con ragione ed esperienza reale e non imaginaria e non con sola affirmazione, pure vi ho voluto aggiungere questa altra prova: che, concedendoli che, nel tempo del cambio basso, anni quindeci e trenta adietro, come lui dice, venessero non solo li denari dell’estrazione della robba, e non ne uscissero di contanti, senza numerarvi ancora quelli che a rispetto del guadagno veneano (che almeno, come si è detto, senza li denari che vi erano in Regno, sariano milioni novanta nell’anno 1590), domando: se tanti denari erano in Regno, come incominciò il cambio alto? dove andôrno questi novanta milioni? Altro non può dire che, come il cambio fu alto, che si estrassero per il guadagno col farli ritornare per cambio in Napoli: e in questo si è risposto nel primo capo, che di necessitá bisogna che ritornassero in Regno con vantaggio. Ma lascio considerare a chi non è in tutto senza giudicio se simili pensieri siano o possano essere veri. E da questa risposta si viene a tutti gli altri inconvenienti, che si sono dati in detto luoco: che non solo andariano al presente girando per l’aria li novanta milioni, ma insin al suo tempo delli 1605 sariano arrivati alli milioni centoottanta, e al presente sariano ducentoventicinque o trenta che andariano volando per li cambi, e li uomini del Regno li avriano da riscotere da forastieri; lo che quanto sia lontano non pur dal vero, ma dal credibile e imaginabile, non m’affatigo di mostrarlo. Sí che è piú certo della certezza l’esperienza non esser vera, come lo dimostra l’altro che dice che in quel tempo il Regno abbondava di moneta di Fiorenza, Milano e Roma. Si risponde che, fuor di Roma, che in alcuna volta ve ne è stata alcuna picciola quantitá per altro rispetto particulare, in tutto il Regno d’altri luochi non vi si ritrovará, non che quantitá d’alcuna considerazione, ma neanco docati diecemilia e meno forse cinque o doi.

Versione attuale delle 23:17, 15 giu 2020

Capitolo III

../Capitolo II ../Capitolo IV IncludiIntestazione 16 giugno 2020 25% Da definire

Parte seconda - Capitolo II Parte seconda - Capitolo IV

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CAPITOLO III

Se è vera la esperienza detta di sopra.

Ancorché basti per il mio proposito quanto si è provato, che, essendo vera la conclusione ed esperienza, non saria vera la sua massima che l’altezza del cambio sia causa della penuria; con tutto ciò per maggior chiarezza, conforme ho promesso, se discorrerá se siano vere la conclusione ed esperienza. E, incomminciando dall’esperienza, la quale par che mova piú della ragione, tenendo piú del senso e quella dell’intelletto, dico che, se bene mi bastaria negare, per essere suo fondamento detto assunto; con tutto ciò mi contento pigliare il peso di provare il contrario.

Cosa notoria è che quindeci, venti o trent’anni adietro, dato che il cambio fusse basso, mai vennero li detti denari della estrazione della robba in Regno in contanti, e in consequenzia mai abbondò di moneta, poiché, come si è provato nella prima parte, non vi è altra causa di aver denari in Regno. Lo che fa conoscere chiaro la somma, che per conto di detta robba sola saria venuta in Regno, oltre di quella, che per il guadagno nascea al mercante per la bassezza del cambio, come dice che saria venuta in Regno: quale somma in anni quindeci, a sei milioni [p. 186 modifica]l’anno, importaria novanta milioni. Sí che, se fusse vera la esperienza, oltre li denari che fussero stati prima in Regno nell’anno 1595, per li detti anni quindeci soli vi sariano stati li milioni novanta: quali tutti doveano essere in Regno, giaché, come esso confessa, dalla Maestá cattolica non solo non se ne cava moneta dal Regno, ma ve se ne invia; né meno sariano uscite le monete per le robbe che vengono da fuora e per l’entrate che tengono forastieri, stante la bassezza. Lo che quanto sia erroneo e falso non occorre dirlo, ché né in detto tempo, né prima, né mai vi si ritrovò né la predetta somma né la decima parte. Lo che basti a provare li continui fallimenti de’ banchi, li quali non son falliti né per malizia né per disgrazia, eccetto che, avendo impiegato li denari in mercanzia, quando si ha voluto cavare alcuna somma, in breve, di cento o ducentomilia docati, per la carestia di contanti, che non han possuto ritrovare per gli altri banchi (ché, se vi fussero stati, averiano avuto credito; ma, per la carestia che vi era, ognuno steva sopra la sua), son falliti. Ché se in detto tempo in banchi vi fussero stati solo tre o doi milioni di contanti e meno, al securo non saria successo fallimento. E a chi non bastasse questa prova, potria far diligenza e vedere nelle casce maggiori de’ banchi in quel tempo che contanti vi erano, ché ritrovará che né tre né doi e forse meno uno ve ne era di milioni; ché, se bene ve ne fussero stati diece e venti e trenta nell’anno 1590, meno arrivaria alla proporzione che vi dovea essere a rispetto della quantitá predetta. Veritá dunque certissima è che non sia vera la detta esperienza, ma imaginaria; e questa, reale e tanto differente dalla predetta, che è contraria. Oltre di ciò si può conoscere, questa sua abbondanza in detto tempo e penuria nell’altro, dall’argento che è venuto in zecca dall’anno 1581 indietro, nel qual tempo si permesse che si spendessero ordinariamente le monete spagnole, quale prima non si spendeano, ma andavano in zecca con tutte l’altre forastiere, che veneano in alcuna quantitá mediocre: ché mai si ritrovará esservi venuto ordinariamente, non che sei milioni, o quattro, o uno, ma sottosopra, per il calculo che ho fatto fare dall’anno 1548 insin alli 1582, repartendo tutta la summa [p. 187 modifica]a tutti l’anni, viene libre d’argento ventinovemilia centosessantasette che sono venute in zecca, quale, riducendole in valuta di monete, sono trecento e seimiliaducentocinquantatré ducati l’anno. E, se a questo mi si dicesse che questa poca somma saria a rispetto della moneta venuta in zecca, ma non per questo séguita che non sia venuta altra somma nel Regno, rispondo che la detta prova conclude benissimo che non è venuta altra somma in Regno, non solo a rispetto delle robbe che si estraeno, ma per ogni altro rispetto, mentre non si spendea non solo moneta forastiera d’altri prencipi, ma meno la spagnola, quale ha corso dopo il bando del prencipe di Pietraperzia, in quel tempo viceré in Regno, sí che di necessitá tutta andava in zecca. Perciò conclude benissimo che mai in Regno, ancorché il cambio fusse basso, ci è venuta la somma che dice, ma né la quarta né la decima parte. E, se si dicesse che questa poca summa è a rispetto delli molti anni che si è fatto il calculo, incomminciando dall’anno 1548, dico che poca e nulla differenza vi è fra gli anni primi e ultimi, e, se vi è differenza, vi è di maggior summa nei primi. E, per conoscere come l’altezza e bassezza del cambio non importa cosa alcuna per detto effetto, ho fatto fare il calculo dalli 1582 insin alli 1590, che, secondo lui, il cambio era basso, e dalli 1590 insin alli 1605, che, come dice, il cambio era alto, dell’argento venuto in zecca; e, partita la summa dalli 1582 insin alli 1590, son venuti ogni anno libre d’argento doimiliaseicentotrentasei, che, convertendosi in denari, sono docati ventisettemiliaseicentosessantaotto, nel qual tempo il cambio era basso; e per tutto il calculo dall’anno 1590 insin all’anno 1605, nel qual tempo il cambio era alto, viene per ogni anno libre d’argento ventiunamiliacentoquarantadue, quali, redotte in denari, sono ducati ducentotredicimiliatrecentonovantauno: qual calculo dimostra che non solamente nel tempo del cambio basso il Regno non abbondava di moneta, ma era tutto l’opposito. E, se si dicesse che in quel tempo correva la moneta spagnola in Regno, sí che non conclude la prova, tutto questo si concede: ma correa ancora dalli 1590 insin alli 1605, nel qual tempo il cambio era alto e andava tanta quantitá esorbitante in zecca, a rispetto del tempo [p. 188 modifica]nel quale il cambio era basso. E, se ancora si difficultasse e si dicesse che le monete andate in zecca in questo tempo erano monete che si trovavano nell’istesso Regno per farne mezzi carlini, nel tempo predetto dalli 1582 alli 1590 era il medesimo che si faceano mezzi carlini, e, se vi fusse stata moneta, si avriano fatte, come si fecero, della poca. Come dunque non si ha da concedere per coniettura certa, presunzione vera e prova ancora, che non sia vera l’esperienza che il Regno abbondasse di moneta nel tempo che egli dice che era il cambio basso, vedendosi tutto l’opposito? E, si bene quanto si è detto sia bastante e superabbondante, e a lui toccava provare il suo assunto con ragione ed esperienza reale e non imaginaria e non con sola affirmazione, pure vi ho voluto aggiungere questa altra prova: che, concedendoli che, nel tempo del cambio basso, anni quindeci e trenta adietro, come lui dice, venessero non solo li denari dell’estrazione della robba, e non ne uscissero di contanti, senza numerarvi ancora quelli che a rispetto del guadagno veneano (che almeno, come si è detto, senza li denari che vi erano in Regno, sariano milioni novanta nell’anno 1590), domando: se tanti denari erano in Regno, come incominciò il cambio alto? dove andôrno questi novanta milioni? Altro non può dire che, come il cambio fu alto, che si estrassero per il guadagno col farli ritornare per cambio in Napoli: e in questo si è risposto nel primo capo, che di necessitá bisogna che ritornassero in Regno con vantaggio. Ma lascio considerare a chi non è in tutto senza giudicio se simili pensieri siano o possano essere veri. E da questa risposta si viene a tutti gli altri inconvenienti, che si sono dati in detto luoco: che non solo andariano al presente girando per l’aria li novanta milioni, ma insin al suo tempo delli 1605 sariano arrivati alli milioni centoottanta, e al presente sariano ducentoventicinque o trenta che andariano volando per li cambi, e li uomini del Regno li avriano da riscotere da forastieri; lo che quanto sia lontano non pur dal vero, ma dal credibile e imaginabile, non m’affatigo di mostrarlo. Sí che è piú certo della certezza l’esperienza non esser vera, come lo dimostra l’altro che dice che in quel tempo il Regno abbondava di moneta di Fiorenza, Milano e Roma. Si [p. 189 modifica]risponde che, fuor di Roma, che in alcuna volta ve ne è stata alcuna picciola quantitá per altro rispetto particulare, in tutto il Regno d’altri luochi non vi si ritrovará, non che quantitá d’alcuna considerazione, ma neanco docati diecemilia e meno forse cinque o doi.