Le porretane/Novella I: differenze tra le versioni

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Novella I

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Prologo Novella II

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NOVELLA I

Triunfo da Camarino, famiglio de stalla, se conviene col patrone de volere una ora del giorno per sé; nella quale facendose imperatore, striglia li cavagli e spaza la casa, e alfin se trova vergognato.

Misser Piero de li Ubaldini, clarissimo conte e voi nobilissima compagnia, fu gentilomo e cavaliero de la citá de Urbino, de egregi costumi, de buona fama e di beni de fortuna molto copioso, il quale, togliendo uno famiglio per il bisogno de li soi cavagli, nominato Triunfo da Camarino, epso Triunfo patteggiò seco che ogni giorno voleva una ora di tempo per lui, la quale avesse ad essere a misser Piero meno sinistra de tutte l’altre. Misser Piero, vedendo Triunfo de buono aspetto, e parendoli quello consequente al nome, il tolse, concedendoli quanto adimandava. Triunfo adunque usando cum discrezione la sua servitú, il patrone, la casa e li cavalli cum tanta fede e diligenzia serviva e governava, che era una meraviglia; il che tanto piaceva a misser Piero e a tutta la sua brigata, che per cosa del mondo non l’avrebbe lassato da sé partire.

Onde acadeva che, avendo facto lui ogni giorno tutto quello che doveva fare ed era obbligato, se ne andava, per il tempo de quella ora aveva pattegiato, nella sua camera, e quella molto bene serrata che persona non li potesse entrare senza sua licenzia, distendea al muro d’epsa camera una cortina di tela nera, in la quale era dipincto il papa cum li cardinali in modo quando fanno concistoro, e molti re, principi, signori e duci cristiani. E lui poi in luoco de lo imperatore presso loro, cum una diadema in capo e cum uno sceptro in mano ornatose, se poneva, e, [p. 8 modifica]incominciando in persona del papa a propone certe cose in salute de li communi Stati cristiani, diceva: — Lo effecto de la nostra congregazione, fratelli miei e figliuoli in Cristo, si è che ve dobiate amare l’uno l’altro insieme e avere pietosamente recomandato li nostri populi e lassare le arme e guerre fra voi, e quelle prendere solamente in defensione de la cristiana fede, che da quelli infideli e rabidi turchi è tuttavia afflicta e cruciata. Questo mio proponimento non essendo da voi cum altro animo abrazzato, perdereti alfin la grazia de questo mondo e la gloria del cielo, e andereti a l’infernali regni, dove eternamente sarete tormentati. Si che, benedicti figliuoli, affectuosamente intendete le mie parole e sequite el mio consiglio. — E avendo decte queste e molte altre simile parole in nome del papa, sputando tuttavia tondo, in nome poi de l’imperatore, de cui avea abito indosso, respondea: — Padre sancto, voi diceti molto bene, e sarebbe ben facto se facessi quello che dice Vostra Sanctitá, quando altri però vel credesse, e non lo abiate a male. Ma volete voi che a le vostre persuasione se creda? Cominciate prima, come bon pastore, dare exemplo a noi. E se questo exemplo non darete, io intendo quanto per me goldere il mio reame senza paura de turchi né de inferno. Nel quale me rendo certo sia bon stare, perché questa nocte ad in somnio essendomeli cum mio grande piacere trovato, giocai ala balla cum molti signori e baroni, e poi cavalcai sopra belli e sfogiati corsieri, che Cicilia, Puglia, Calabria e la Iberia simile non ebbeno mai. E ultimamente, giocando e dandome piacere cum le piú belle e zucherate donne del mondo, vidi Lucifero, che uno palmo aveva li denti fuori della boca, uscire de uno superbo palazzo per montare a cavallo. A cui volendo per reverenzia correre a tenere la staffa, me fu decto non li andassi, perché me devorarebbe. Pur senza paura alcuna li andai; e lui, facendome le piú sbudellate feste e pecerlecche del mondo, me dixe: — Figliuol mio, tu sii adesso e per sempre el ben venuto. — E, montato poi a cavallo, andò per il suo regno, abitato da infinita gente. Poi, volendome io partire per andare a mangiare, me fu decto da un gentil scudiero: — Dove vai, imperatore cristiano? Tu pòi ben tu ancora mangiare quivi. — [p. 9 modifica]Resposi io: — Dunque se mangia in questo luoco? — Se beve e mangia alla gagliarda — me fu risposto. Alora dissi: — Da poi che quivi se golde e squaquara, non me voglio piú partire. — Si che, per il barbuto sancto Antonio, poi che li se trionfa e dasse piacere, buon tempo e chiara vita, intendo ch’el beneplacito, quale usate voi a la domestica, sancto Padre, piú che tutti li altri, cum li vostri figlioli cardini della Chiesia, me sia licito. — E, decto questo, mandando fuori uno festevole grido cum uno saltoletto insuso, incominciava a parlare de opere d’arme e de gran facti de guerra, e, prendendo la striglia in mano, scrimiva denanti a quelli re, principi e signori, e poi in nome de loro respondeva le magior papolate del mondo. E, facto questo, ponendo il mondo sotto sopra in arme, diceva: — Fratelli miei, se non sequireti il mio volere e consiglio per amore del maco e della suppa, cadareti nella mia disgrazia, se ben dovesse spendere questa mia corona, — ponendo tuttavia la mano sopra una carta tonda dorata avea in capo. E come existimava avere in questo piacere consumato l’ora, talvolta piú presto e talvolta piú tardi usciva de la camera e andava a spazare la casa e a strigliare li cavalli, e a far tutte quelle altre cose, che gli erano state commesse e imposte, cum summa diligenzia. E a questo modo, becandose dolcemente il cervelletto, se persuadeva per quel tempo essere imperatore.

Del qual tempo maravigliandose misser Piero, né potendo pensare né imaginare in che cosa Trionfo el spendesse, deliberò vederne l’effecto: onde, postose un giorno secretamente in ascosto, vide il suo Trionfo, per una certa fessura del muro de la camera, far questo solazzo. Di che, credendo scoppiare seco de le risa, vòlse che alcuni suoi domestici partecipassono seco tanto piacere, fra’ quali la bona memoria del mio padre dixe era stato uno de quilli che l’avea cum un grandissimo solazzo inteso e veduto. Dove, quando poi parve tempo a misser Piero avere preso assai piacere de lui, dixe: — O Trionfo mio, io me alegro summamente, a consolazione de’ tuoi e della tua patria, che de servo de cavalli sii imperatore de cristiani divenuto: cosí te priego, fin che Fortuna te mantiene ne la felice summitá de la [p. 10 modifica]sua rota, che di me a le volte recordare te piada. — Triunfo, sentendosi chiamare dal patrone, se smarritte oltra modo; e, tolto prestamente la sua cortina dal muro e quella piegata, senza prendere licenzia se partí de casa e della terra, e dove s’andasse pare non se sapesse mai.


La piacevole opera, excelso principe e caro mio signore, de Triunfo da Camarino, non fu auscultata senza festevol riso da la nobile brigata, dicendo ch’el defecto del pazzo si è ch’el crede essere savio (ove, se la sua pacia cognoscesse, se occiderebbe), e concludendo che in questo mondo non è magior riposo che contentarse del stato suo, come faceva Triunfo, il quale, secondo la sua zuca vòta, se dava ad intendere esser imperatore, non piú oltra curandose, ché tanto a lui valeva come proprio fusse stato. E sopra ciò ponendose fine, Guidantonio Lambertino, dignissimo genero del conte, uomo de li umani e filosofici studi amantissimo, e di sangue, di costumi, de liberalitá e de ogni altra virtú quanto altro de la nostra citá nobilissimo e grazioso, cum ilaritá, com’è costume de la sua gentile natura, un piacevole e cauto accidente in questa forma narrò.