La Circe/Dialogo terzo: differenze tra le versioni

Da Wikisource.
Contenuto cancellato Contenuto aggiunto
Nessun oggetto della modifica
Alebot (discussione | contributi)
Aggiunta template qualità indeterminata
Riga 1: Riga 1:
{{Qualità|avz=indeterminato|data=27 luglio 2010|arg=Da definire}}{{IncludiIntestazione|prec=../Dialogo secondo|succ=../Dialogo quarto}}
{{IncludiIntestazione}}
{{Capitolo
| CapitoloPrecedente = Dialogo secondo
| NomePaginaCapitoloPrecedente = ../Dialogo secondo
| CapitoloSuccessivo = Dialogo quarto
| NomePaginaCapitoloSuccessivo = ../Dialogo quarto
}}
{{Pagina|Opere di Giovan-Batista Gelli.djvu/91}}
{{Pagina|Opere di Giovan-Batista Gelli.djvu/91}}
{{Pagina|Opere di Giovan-Batista Gelli.djvu/92}}
{{Pagina|Opere di Giovan-Batista Gelli.djvu/92}}
{{Capitolo
| CapitoloPrecedente = Dialogo secondo
| NomePaginaCapitoloPrecedente = ../Dialogo secondo
| CapitoloSuccessivo = Dialogo quarto
| NomePaginaCapitoloSuccessivo = ../Dialogo quarto
}}

Versione delle 22:51, 27 lug 2010

Dialogo secondo Dialogo quarto
[p. 91 modifica]
DIALOGO TERZO.


-
ULISSE CIRCE E LEPRE.

Ulisse.
Se io non sapessi quanto sia l'amore che tu mi porti, nobilissima Circe, io dubiterei certamente che tu non volessi concedermi quella grazia che io ti ho domandata; e non volendo negermela, mi avessi fatte parlare solamente a que' che tu sai che hanno l'animo tanto deliberato di non tornar uomini, che nessuno lo potrà persuader loro mai, e così io mi tolga da l'impresa.
Circe.
Non ti caschi ne l'animo un simil pensiero di me, Ulisse; chè questo non si conviene nè a l'amor che io ti porto, nè a la grandezza e nobiltà de l'animo mio, intento sempre e glorissime imprese: che tu sai bene che chi non sa disdire i piaceri, non sa ancora fargli.
Ulisse.
Oh! tu mi hai fatto parlare a uno il quale è molto più ostinato che quegli altri; e dove io mi credeva fargli un bel dono, facendolo tornar uomo e rimenandolo a la sua patria, quella sua ostinazione l'accieca tanto, ch'e' dice che peggiorerebbe assai cambiando quello essere a questo.
Circe.
Se tu avessi provato ancora tu lo stato loro, Ulisse, tu faresti forse ancora tu così.
Ulisse.
Costui, mentre che fu uomo, dice che fu medico; i quali, come tu sai, non veggon mai altro che mali, dolori, brutture e infermità de gli uomini; non sentono mai altro che lamenti e pianti di quegli. De la qual cosa ricordandosi egli ora (perchè sempre si ritengono a la memoria più i mali che i beni), mi penso che non voglia ritornare uomo.
Circe.
In tutti gli stati de gli uomini sono molti più gli affanni e le miserie, che i contenti e le felicità.
Ulisse.
Male avrebbe fatto adunque, se così fosse, quel nostro Sapiente, che in fra l'altre cose de le quali egli ren-

[p. 92 modifica]

deva ogni giorno grazie a gli Dei, era che l'aveven fatto uomo, e non fiera.
Circe.
Egli lo faceva perchè così è l'opinione de la maggior parte de gli uomini, tirati da quelle ragioni che si possono cavare dal discorso ragionevole. Ma e' si debbe molto più credere o costoro, che, avendo provato l'una e l'altra vita, lo conoscono per la esperienza e per la cognizione sensitiva, la quale non solamente eccede e supera di certezze tutte le altre, ma è origine e fondamento di tutte.
Ulisse.
Sì, ma e' non si debbe comparare quella de gli animali a la nostra, essendo ella molto più imperfetta.
Circe.
Questo non credo io già, perchè veggio di molti animali che hanno i sensi molto più perfetti di voi, e che nelle operazion di quegli vi superano di gran lunga.
Ulisse.
Se bene e' ci vincono in qualche senso particolare, come fa, verbigrazia, l'Aquila nel vedere, il Cane ne l'odorare e l'Oca ne l'udire; e' ci sono poi inferiori tanto nel far giudizio de le cose sensibili, per non avere il senso comune tanto perfetto quanto noi, e per mancare al tutto del discorso ragionevole e del poter comparare l'un sensibile con l'altro, che le nostre cognizioni sensitive sono molto più perfette de le loro. Ma fammi favellare con qualcuno altro, ch'io non penso però che tutti ebbino ad aver così perduto il vero conoscimento de la ragione come questi tre ai quali io ho parlato; che certamente non furono senza cagione trasmutati da te in così imperfetta specie d'animali, avendo eglino come uomini sì imperfetto discorso.
Circe.
Io son contenta: parlerai con quella Lepre che tu vedi che pasce a l'ombra di quella quercia: va là, e chiamala, chè io le ho conceduto il favellare.
Ulisse.
Lepre, se gli Dii ti dìeno quel che tu desideri, non ti fuggire, ma aspettami e dégnati dì rispondermi, chè Circe mi ha detto che tu puoi.
Lepre.
Ohimè, che vuol dir questo? io ho riavuto l'intendere il significato de le parole umane: oh sorte mia infelice, perchè mi hai tu ricondotto in così fatta miseria?
Ulisse.
Chiami tu però miseria lo intendere il favellar de gli uomini?