Ricerche sopra l'aritmetica degli antichi: differenze tra le versioni

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Luigi Boschetti

1834 R Indice:Ricerche sopra l’aritmetica degli antichi.djvu Matematica matematica Ricerche sopra l’aritmetica degli antichi Intestazione

[p. 3 modifica]È maraviglia come gli Antichi abbiano rivolto sì grande studio alla matematica e ad ogni scienza che si fondi sui principj di essa, mentre poi sì deboli presso loro appajono i progressi dell’aritmetica, se di questi progressi e di quello studio vorremo giudicare dagli avanzi, che l’età ne ha lasciati. Qui non ci faremo ad annoverare i libri tutti che ci rimangono su tali argomenti. Un catalogo ne fu già formato da Eduardo Bernhard, e ne fu proposta la collezione in quattordici volumi, come può vedersi nella vita, che dello stesso Bernhard scrisse Tommaso Smith (Fabric. bibl. gr. 3, 23). Non però vorrà dirsi che un tempo si riconoscessero meno i pregi dell’aritmetica, e perciò gli uomini dotti vi si addessero meno; avvegnachè la riguardavano anzi la più antica d’ogni altra scienza e la più necessaria, siccome quella che all’altre ne scorta (V. Jamblich. in Nicomach. Arithm. pag. 10, edit. Arnhem. 1668). Essa è, come osserva Platone, che attende a spiegar le ragioni, ed a condurre gli affari dell’umana società: essa è a’ filosofi utilissima, non meno che a’ condottieri d’eserciti: essa forma l’ingegno, e lo dispone a più nobili dottrine (de rep. dial, 7).

[p. 4 modifica]È per questo che alcuni fra’ pagani l’attestarono insegnata da Minerva, cioè dalla sapienza celeste (Liv. 7, 3. Conf. Meurs. denar. Pythag. c. 1). Di vero, essa nacque da tempi antichissimi, allorchè nuovi bisogni sorsero allo stabilirsi della vita sociale. Mal vorremmo però attribuirne l’invenzione ad Edris, cioè ad Enoch, siccome anche in oggi pensano i maomettani (Herbeloth bibl. orient. art. Edris), o approvare l’amor proprio di chi diede un tanto merito agl’individui di sua nazione. Così Flavio Giuseppe asserì con troppo coraggio, che Abramo avea dato agli Egiziani la prima idea dell’aritmetica e dell’astronomía, e che da essi poi le impararono i Greci (antiq. Judaic. l. 9); i quali con pari vanità stimavano inventato il numero da Palamede (V. Meurs. l. c.). Più verisimilmente parve ad alcuni che i Fenicj, applicati al commercio fin dall’età più rimota, dovessero prima ch’altri occuparsene. Tal è in fatti la sentenza di Strabone, che asserisce coltivata l’aritmetica da’ filosofi di Sidone (lib. 16 et 17). Anzi, se crediamo a Cedreno (hist. compend. 19), Fenice figliuol d’Agenore scrisse intorno alla filosofia de’ numeri un trattato in lingua fenicia. Tra gli autori moderni l’Ab. Andres ha soscritto al parer di Strabone (Orig. d’ogni Lett. t. 4. c. 2). Ma non ci si dia taccia di soverchio ardire, se dissentiamo da queste autorità, fondati ad un’altra più antica, e senza fallo validissima, quella cioè di Platone. Vuol egli che lo studio del calcolo si praticasse prima in Egitto, ed assicura che gli Egiziani lo riputavano introdotto da Theuth (in Phaedr.). Ma qualunque ne fosse l’inventore, non è malagevole il persuadersi ch’essi quasi costretti dalla geografica loro posizione a creare la geometria, se ne facilitassero l’esercizio coll’occuparsi dell’aritmetica, indivisibile compagna della prima.

Usavano eglino a conteggiare di non so quali pietruzze e cubi (Plat. l. c.); ed i loro sacerdoti, come narra Diodoro (lib. 1), esercitavano a lungo i fanciulli nell’una e nell’altra disciplina. [p. 5 modifica]

È più probabile che i Greci traessero l’aritmetica dall’Egitto per mezzo di Talete e di Pitagora, anzichè l’imparassero dagli Ebrei (Montucla hist. des Mathém. part. 1, liv. 2, §. 2), che forse anch’essi la tolsero di colà, e se ne valsero prima de’ Greci stessi (Bevereg, Arithmet. chronol. 1, 2. §. 1 et 2). Ma senza dubbio Pitagora, di ritorno da quella terra, fu il primo a trattarla come una scienza. Nulla ei ne scrisse, che che pretendano alcuni (S. Isidor. orig. 3, 1; Tennul. not. ad Jamblich. Arithm.): ma se ne occupò grandemente, come se ne occuparono i discepoli suoi, fra gli altri Eudosio, i seguaci d’Ippaso, Filolao, Timandrida (Jamblich. l. c. - Tennul. ad 4. l.); ai quali si ponno aggiugnere Aristeo e Megillo (Meurs. l. c. c. 1), fors’ anche Apollodoro aritmetico, rammentato da Ateneo (deipn. l. 10.), e sopra tutti Archita di Taranto. Ne lasciò poi tre libri Euclide, che sono il settimo, l’ottavo ed il nono dei suoi elementi, dove ragiona sulle proprietà e le affezioni de’ numeri; e dopo lui ne discorsero fra i Greci Archimede, Teone di Smirne, Nicomaco e Diofanto.

A Nicomaco dobbiamo l’averci conservate le teorie di Pitagora nell’opera che ha per titolo: Arithmetices Institutionum libri duo, di cui Apulejo fece una prima traduzione latina, in oggi smarrita, ed una seconda Boezio (S. Isidor. l. c. - Cassiodor. de mathem. disciplin. c. de Arithmet.). Quest’ultimo trasportò pure nel suo Trattato d’Aritmetica molte notizie di un’altra opera più estesa, ed ora perduta, di Nicomaco (Conf. Boet. Arithm. in praef. Fabric. l. c. 4, 22, §. 3). Un estratto delle Instituzioni avea già lasciato Fozio nella sua biblioteca (cod. 187), dove però chiama vani i raziocinj dell’autore, ed occupazione d’ozio perduto. Nondimeno il gusto delle speculazioni metafisiche sui numeri eccitò molti scrittori ad illustrare Nicomaco, e ad esporne i principj. Ciò fecero Erone, Proclo Laodiceno, Asclepio, Tralliano, Giovanni Filopono (Fabric. l. c.); ma in principal modo Jamblico, più antico degli altri, che ne distese un lungo trattato col titolo d’Introduzione all’Aritmetica di Nicomaco Geraseno, [p. 6 modifica]ed è il quarto de’ Comentarj Pitagorici d’esso Jamblico, tradotto dal greco in latino per opera di Samuele Tennulio, ed arricchito delle note di quest’ultimo, e delle osservazioni di Gioachino Camerario (Arnhemiae et Daventriae 1668, in 4.°). L’originale poi di Nicomaco era uscito alla luce in Parigi colle stampe di Cristiano Wechelio nel 1538. Rimane il dubbio, se a lui, o a Teone di Smirne, o a Jamblico si debba l’altra opera Theolegumena Arithmetica, già stampata in greco dal predetto Wechelio (Parisiis 1543, in 4°), dove si parla degli attributi fisici, etici e teologici de’ numeri: nondimeno il Fabricio inclina a favore di Jamblico (l. c. 2, 13; et 4, 22, §. 7); come certamente a Teone appartiene il libro: Eorum quae in Mathematicis ad Platonis lectionem utilia sunt expositio, etc. gr. lat. Parisiis 1644, in 4.°). A questi scrittori greci un altro può aggiugnersi assai più moderno, vo’ dire Michele Psello, che fioriva intorno all’anno 1008, e di cui si ha un Compendium quatuor Artium, Arithmeticae, Musicae, Geometriae, Astronomiae, gr. lat. per Xylandrum et per Murenum, Basileae 1556, ristampato altre volte.

A tutti però si potrebbono applicare le accuse di Fozio contro Nicomaco, siccome vedemmo, ed in generale quelle di Sesto Empirico contro i Matematici (Adv. mathem. lib. 4). Al nulla in fatto ne guida il sognar con Pitagora, che i numeri sono il principio d’ogni essere (V. Plutarch. de placit. philosophor. l. 3), o il collocare con quel filosofo nella scienza de’ numeri la somma felicità, o il riguardare come numero il mondo e l’anima, o il considerarlo anzi come una divinità, o il vagare fra mille altri arditi fingimenti, e pravi assurdi, ed aride sottigliezze. (Conf. Meurs. l. c. c 1, et seq.). Si vuol però eccettuare Diofanto Alessandrino, vissuto intorno all’anno 150 dell’Era volgare, uno tra i pochi antichi Scrittori aritmetici, a noi restanti, che della scienza de’ numeri abbia fatto utilissime applicazioni ne’ sei libri esistenti de’ tredici da lui composti su tale argomento (V. Fermat. fil. in monit. ad Diophant. Arithm. Tolosae 1670).

[p. 7 modifica]E il difetto de’ Greci si comunicò ben anche ai Latini, se dobbiamo giudicarne da ciò che ne abbiamo di Boezio e di Cassiodoro, i quali poc’altro fecero che tradurre i i primi, come si è visto d’esso Boezio, che oltre l’Aritmetica di Nicomaco, citata da noi, trasportò in latino la musica di Pitagora, l’Astronomia di Tolomeo, la Geometria d’Euclide, la Logica d’Aristotele, la Meccanica d’Archimede (Tiraboschi Stor. della Lett. It. T. 3, l. 1, c. 4); e come può vedersi di Cassiodoro nel libro suo intorno alla Matematica. Parimente ciò che ne rimane del Ven. Beda sui numeri, e sulla maniera di conteggiar colle dita (de computo vel loquela per gest. digitor.), e ciò che alla sfuggita ne hanno scritto S. Isidoro (l. c. 3, 1 et seq.), e Marciano Capella (lib. 7), si può tenere in luogo di curiosa più che d’utile cognizione. Ed è pur singolare che mentre ci sono stati conservati gli opuscoli elementari di Prisciano, di Remino Fannio, di Volusio Meciano, di Baldo, di Valerio Probo sulle figure ed i nomi dei numeri, sulle monete, sui pesi e le misure (V. Grev. antiq. Rom. T. II, circa fin.; Auctores lat. ling. a Gothofred. pag. 1477, 1526 et 1546; Auctores grammat. latinae a Putschio, pag. 1683 et seq.), niun autore più sia, che insegni come i Romani usassero in pratica delle note numeriche, e se ne valessero almeno nelle quattro principali regole della somma, della sottrazione, della moltiplicazione e della divisione.

Alcuni libri sulle Discipline compose Terenzio Varrone, uno de’ quali riguardava l’Aritmetica; e Vetranio Mauro afferma d’averlo veduto in Roma presso il Cardinale Lorenzo Strozzi, (in Vit. Varron. - V. Fabric. bibl. lat. 1, 7, §. 9). Altri poi ne compose S. Agostino ad imitazione di Varrone sulle Discipline, non però compiuti, dove nominatamente si contenevano i principj dell’Aritmetica (retractat. 1, 6). Se queste opere tuttora esistessero, abbiamo alcun titolo a congetturare che ne darebbono lume sul metodo di conteggiare presso i Romani.

Nè deve dubitarsi che ad essi non fossero palesi e familiari le regole mentovate. Moltissimi luoghi potrebbono [p. 8 modifica]citarsi d’antichi autori latini, dove s’incontrano i vocaboli relativi all’arte de’ ragionieri, ed allo studio de’ conti. Ora egli è chiaro che se vi avevano i termini, dovevano del pari conoscersi le operazioni corrispondenti.

E quanto a’ greci, non era forse mestieri l’addurne altra prova, fuor quella che naturalmente procede dall’esame del numerativo loro sistema (Conf. Tennul. not. in Jamblich. Arithm. pag. 157. et seq.), da cui risulta ch’eglino conoscevano la progressione decupla, senza però lo zero, introdotto dagli Arabi, al quale supplivano con alcune indicazioni particolari. È per questo che l’Aritmetica presso loro si applicò alle scienze meglio che fra’ Romani. Che se pur Euclide e Diofanto ne composero libri senza richiamarne le regole principali, ciò mostra che le supponevano già note a’ leggitori, come anzi si dichiara in modo non dubbio dallo stesso Diofanto (Arithm. lib. 1, defin. 10): ed è anche argomento a giudicare che prima di loro n’esistessero trattati elementari. Certo è che Anatolio Alessandrino Vescovo di Laodicea, vissuto nel terzo secolo (Euseb. Eccl. hist. 7, 28) lasciò dieci libri d’Instituzioni aritmetiche, grandemente ammirate al tempo di S. Girolamo, che ne dà cenno (Catal. script. ecclesiast. 84). Pare altresì che Pappo scrivesse intorno all’Aritmetica volgare: anzi pur nel terzo volume dell’opera di Wallis è un frammento del secondo libro delle Collezioni matematiche d’esso Pappo, dove si parla delle operazioni dell’Aritmetica antica (V. Montucla, l. c. part. 1, liv. 5, n. 8). Del resto il Delambre ha illustrata l’Aritmetica de’ Greci con erudite indagini, dirette a spianare il metodo seguito presso loro nel trattare le note numeriche: dalle quali ricerche però si trae ch’essi non sempre avevano regole fisse per esprimere le quantità, usandone in un modo Eutocio, ed in altri Diofanto e Pappo. Di più, vale osservare che il citato Delambre eseguisce la sottrazione colle lettere greche, qual si pratica da noi colle arabiche cifre, dichiarando di non aver trovata presso i Greci alcuna norma, onde stabilire come da lor si eseguisse (hist. de l’Astron. ancienne, t. 2, c. 1).

[p. 9 modifica]Per tutto ciò è forza convenire dell’equivoco preso da Montucla, quando stima che gli antichi travagliassero al computo colla mente, non già colla scorta di regole brevi e spedite, ed allorchè giudica difficilissima per essi la moltiplicazione colle lettere, traendone argomento da un luogo di Pappo, ch’ ei medesimo confessa di non aver inteso abbastanza (l. c. part. I, liv. 3, §. 9). Io al contrario dedurrei facile questa operazione anche pe’ Romani dal ve dere presso Columella come se ne prevalessero comunemente gli agrimensori a misurare i terreni, qualunque ne fosse la figura superficiale (de re rust. 5. 2, et seq.). Nè voglio negare che l’Aritmetica loro fosse imperfetta in molte parti, confrontata colla nostra: ma ripeto che non meno dell’anzidetta operazione, le altre tutte principali e più necessarie dovevano lor essere facili ad impararsi ed a praticarsi.

Abbiamo già esposto come da’ sacerdoti egiziani si effettuassero col mezzo di picciole pietre, e come s’insegnassero a’ fanciulli. Anche i greci si giovarono a tal uopo di lapilli o calcoli, come Laerzio ne porge non ambiguo contrassegno1: e pare che l’uso ne fosse imitato dai Romani, e che ne derivasse il vocabolo di calcolatori (V. S. Isidor. l. c. c. 10, lit. c), applicato non meno ai maestri di calcolo2, che ai ragionieri3. Ed in questi elementi ancora in Roma si ammaestravano i più teneri giovinetti, come l’indica Orazio4, e come, al dir di Giulio [p. 10 modifica]Capitolino, il fu Elvio Pertinace, poscia Imperatore: puer literis elementariis et calculo imbutus (in Pertinac.). Anzi era pur generale il costume fino al tempo di S. Agostino di cominciare gli studj dall’imparare a leggere, a scrivere e numerare (Confess. l. 13): oltre che i Pagani ebbero la loro Dea Numeria, invocata per far profitto ne’ conti (Id. de Civ. Dei, 4, 11 ).

E valga il vero, l’ingrandirsi della società, il perfezionarsi dell’arti e delle scienze, l’estendersi del commercio, l’ampliarsi delle private ricchezze dovea produrre una inclinazione maggiore allo studio dell’aritmetica, resa omai professione scientifica e pubblica e lucrosa. Conciossiachè com’essa diventò necessaria a’ Geometri, agli Agrimensori, agli Architetti (Columell. 5, 1), così non è a credersi che i vastissimi patrimonj de’ Crassi, de’ Luculli, degli Apicj si amministrassero senza registrarne i proventi e le spese. V’ebbero effettivamente i computisti, siccome si trae da Seneca, nominati da’ Greci logisti o logoteti, fossero gli stessi padroni, o fossero particolari agenti, che si occupassero di simile ministero5; e sono forse que’ medesimi, che il ricordato S. Agostino appella numerarj o numeratori6. Sappiamo da Livio, che Lucio Scipione produsse in Senato il libro de’ conti, librum rationis, di P. Scipione suo fratello, per giustificarsi del delitto di peculato, di cui era accusato (38, 55): e Nipote, favellando di Pomponio Attico e delle sue dimestiche spese, dice in espressi termini: Scimus non amplius quam terna millia aeris, peraeque in singulos menses, ex ephemeride eum expensum sumptui ferre solitum (25, 13, n. 6 ). L’Ernesto (ad h.l.) per Effemeride [p. 11 modifica]intende Giornale o Diario, fondato ad un passo d’Asconio Pediano, secondo il quale solevano i Romani notare in ciascun giorno i proprj redditi e l’escita7. Nè questo era forse diverso dal Calendario, mentovato pur da Seneca8, maniera di libro in forma di rotolo, che dal volgersi acquistò la denominazione di volume, come spiega Erasmo (ad Senec. l. c.), e di cui si valevano specialmente gli usuraj, che ritraevano i frutti del danajo alle calende: onde appunto si chiamò Calendario (V. Lipen. Strenar. hist. c.4, §. 13).

Ma più diveniva importante l’ufficio di questi numerarj o tabellarj o attori delle somme, quali si citano da Svetonio (in Domitian. 11), per tener conto dell’entrata pubblica, dell’erario fiscale, delle gabelle. Intorno a questi si può consultare il Codice di Giustiniano (12, 30). Egli è perciò, che fra gl’italiani non cessò di coltivarsi l’aritmetica ne’ secoli bassi, allorchè gli altri studj giacevano dimenticati o negletti, siccome n’è riprova l’averne il Re Carlo Magno nell’anno 787 condotti seco d’Italia i maestri, destinati ad erudirne i francesi suoi (Tiraboschi l. c. tom. 3 l. 3, §. 12). Ed un tale insegnamento si continuò in que’ secoli anche in altre parti d’Europa per opera speciale degli Ecclesiastici, come ne dimostra il dottissimo Signor Professore D. Severino Fabriani (sull’immortale benefizio dagli Ecclesiastici recato alla Letterat. part. 2. §. 3. e 4. V. Mem. di Relig. Tom. 18, pag. 500 e seg.).

Dalle cose fin qui dette siamo inclinati ad arguire senza ritegno, che agli Antichi non fu disagevole il conteggiare colle lettere loro. E quanto a’ Greci, questa verità ne [p. 12 modifica]appare abbastanza confermata. Quanto però a’ Romani, opporrà taluno per avventura che, qualunque genere di calcolo si voglia stabilire, non si proverà identico mai con quello, ch’essi adoperarono veramente. Ma se privi d’ogni documento non intendiamo di assicurare che le funzioni aritmetiche si effettuassero col disporre in una o in altra maniera le quantità, ci basta nondimeno di asserire con fondamento ch’eglino conobbero un tal metodo, e se ne valsero con usuale facilità.

La notizia poi della progression per decine fu non meno che a’ Greci, comune a quasi tutte le nazioni del mondo, come Aristotele ne assicura (probl. sect. 15, quaest. 3), e Plutarco dopo di lui (de placit. philosophor. 1, 3), se vogliano eccettuarsi pochi barbari, siccome i Traci, che per difetto di memoria ne’ loro conti non oltrepassavano il quattro (Aristot. ib.), e gli Albani, popoli d’Asia fra l’Iberia ed il Mar Caspio, che si arrestavano al numero cento (Strabon. lib. II). Pitagora, come abbiamo superiormente accennato, agevolò il cammino a quest’arte, imitato da’ Pitagorici, che al dir di Boezio (geometr. lib. 1 circa fin.), ritrovarono nove segni, ordinati nell’Abaco o Mensa, dal nome loro chiamata Pitagorica, mediante la quale poterono compiere le operazioni con più comoda semplicità. Di qui conghietturarono alcuni che da’ Greci fossero conosciute le cifre arabiche: la qual conghiettura però è dimostrata priva d’ogni sodezza (Montucla l. c. part. 2, l. 1, §. 8), come lo è di conseguenza che gli Arabi apparassero l’aritmetica da loro (V. Fermat. l. c. - Andres. l. c. t. 1, c. 10).

Ma è anche più ardito il pensamento che simili cifre si conoscessero pur da’ Romani. Un autore anonimo ha stesa una dissertazione de numeralium Notarum minuscularum origine (Opusc. Caloger. vol. 48, pag. 21), dove pretende mostrare che da tempi più remoti, cioè sino dall’epoca di Tirone, e forse di Pitagora, si adoperavano queste cifre. Non dubita egli di pronunziare che gli antichi se ne valsero ne’ conti familiari, e di supporre che se ne valessero fin ne’ calcoli più astrusi. È incontestabile, [p. 13 modifica]com’egli osserva, che i Romani ebbero un vasto commercio, infinite gabelle, giurisdizione amplissima, che amministrarsi non poteva senza un grand’uso nel conteggiare. Allega poi l’asserto d’Uezio (Dem. Evang. prop. 4. c. 13. n. 9) che le note Romane fossero inette alle aritmetiche operazioni, e soggiugne che le cifre da noi adoperate in oggi debbono credersi derivate da’ Romani. Ei quindi nega che venissero dall’Arabia, e suppone che il famoso Gerberto, poi sommo Pontefice col nome di Silvestro II, imparasse la dottrina de’ numeri non dagli Arabi, ma da Boezio. Noi non ci arrestiamo di più su questo articolo, ch’altri già combatterono, e che non mancò eziandio d’ardenti sostenitori. Confessiamo però, che l’addotta opinione risulta lieve troppo a confronto degl’irrepugnabili argomenti forniti dalla storia, e valevoli a convincere come le cifre moderne, inventate da’ filosofi dell’Indie, passassero agli arabi, e da questi s’insegnassero nella Spagna (Montucla l. c. part. 2. liv. 1, §. 8; Andres l. c. t. 1, c. 10.). Di là portolle Gerberto in Francia intorno agli anni 970, o 980 (Montucla part. 3. liv 1, §. 3.) e secondo alcuni, anche in Italia (Andres l. c.). Da lui sappiamo (epist. 17) il disiderio ch’ebbe d’acquistare una copia Libelli de multiplicatione et divisione numerorum a Josepho Hispano editi: il qual Giuseppe o fu Arabo d’origine, o imparò dagli Arabi l’arte sua. E questo libretto forse gli prestò alcun sussidio nella composizione del trattato de Abaco, cioè de Arithmetica, già conservato nella Biblioteca Ottoboniana, da riguardarsi, cred’io, come lo scritto latino, che prima si componesse in materia fuor della Spagna. Si sa inoltre che nel secolo XI si fissò in Italia Costantino d’origine Spagnuolo, divenuto Monaco di Monte Cassino, che fra noi dilatò il sapere degli Arabi, e probabilmente ancor l’Aritmetica, ben da lui conosciuta, siccome Pietro Diacono riferisce (V. Muratori, Dissertaz. sopra le Antich. Ital. 44). Ma più comunemente si pensa, che le cifre arabiche a noi giungessero dall’Affrica per opera di Leonardo Fibonacci, cioè figliuol di Bonaccio Pisano, di cui esiste nella Magliabecchiana in Firenze un codice ms. [p. 14 modifica]col titolo: Incipit liber Abaci compositus a Leonardo filio Bonacci Pisano anno 1202, descritto dal Dott. Gio. Targioni Tozzetti, che pretende anch’ egli aver gli Arabi tolto il modo di contare dai Greci de’ secoli bassi (Relaz. d’alcuni viaggi, ed. 2. t. 2., pag 58, ec. V. Tiraboschi l. c. t. 4, l. 2, c. 2, §. 10). Certamente Leonardo è da riporre fra gli scrittori più antichi dell’aritmetica moderna: ma il suo trattato rimase nell’ oscurità per lungo tempo; e fu Giovanni di Sacro Bosco, che primo si valse di tali cifre nell’ opera de Sphaera, pubblicata in Parigi verso la metà del Secolo XIII (Andres l. c.).

Ora per tornare donde partimmo, non solo ai Romani furono esse ignote, ma si è fin dubitato, se conoscessero la progression per decine. Sembra che ne’ primi secoli la scienza de’ numeri facesse fra loro così deboli avanzamenti, come il fecero le altre discipline. Di fatto vediamo fino nell’ anno di Roma 392 praticata la ceremonia di figgere un chiodo al destro lato del tempio di Giove, qual segno del numero degli anni, perché rare a quel tempo erano le lettere, come Livio ne accenna (7, 3). Da ciò venne che ad indicare i numeri notassero da prima tante unità con altrettante virgole o segni I, come pel quattro segnassero IIII, pel cinque IIIII, e così di seguito; a’ quali poi ne sostituirono altri diversi, come additeremo qui appresso (V. Valer. Preb. de not. numeror.). Di più, credono alcuni che i Romani antichi non sapessero contare oltre il numero centomila (V. Alex. ab Alexandro gen. dier. 2, 25). Quanto poi alla tavoletta, ch’ essi chiamavan Abaco, descritta dal Pignorio (de Servis), dove per mezzo di chiovelli condotti per certe scanalature facevano alcune aritmetiche operazioni, e quanto all’uso di contar colle dita, riferito, come si è detto, dal Ven. Beda, furono instituzioni posteriormente immaginate per ammaestrare i fanciulli, e per soccorrere agl’individui meno esperti, anzichè per essere di grande e d’universale giovamento. Ma riguardata l’Aritmetica in genere, dobbiamo giudicare che in origine i Romani traessero dalla Grecia il costume di segnare [p. 15 modifica]colle lettere majuscole i numeri, e adoperassero poi ne’ loro calcoli queste sole lettere, che non furono più di sette, come ognun sa, cioè I, V, X, L, C, D, M (Priscian. de fig. et nom. numeror.).

Le note numeriche presso i Latini ci sono state conservate, come vedemmo, da’ Grammatici, o si traggono dagli antichi monumenti (Conf. not. numeror. ex antiq. Cod. inter Grammat. lat. Auctor. a Putschio pag. 1683, ec. - Tennul. 1. c. pag. 159 - Muratori, thes. vet. inscript. t. 4, pag. MMCXXVI - Bevereg. l. c.); dove non trovando alcun cenno d’altra specie di numeri, convien persuadersi che appunto di queste sole note si valessero a conteggiare.

Dalla loro inspezione oserei sospettare che l’Aritmetica romana fosse quinaria, se non mi arrestasse una riflessione, che saggiamente mi si oppose dall’illustre antiquario e letterato Signor Professor D. Celestino Cavedoni ; vo’ dire che nelle due favelle, greca e latina, le voci de’ numeri avanzano, come presso noi, dall’uno al dieci, e le altre decine continuano sino al cento, aggiugnendo sempre le nove prime voci all’ espressione di cadauna decina. Potrebbe allegarsi altresì che se le nazioni quasi tutte, come avvisammo, calcolarono secondo questa progressione, anche i romani pei rapporti ch’ ebbero in ogni parte ne avranno conosciuta ed ammessa l’usanza. È indubitato però, che il metodo quinario non è nuovo in pratica, veggendosi pure impiegato da qualche popolo moderno (Montucla l. c. t. 1, part. 1, liv. 2, §. 2). Nè dovrebbe dirsi lontano dal vero chi lo giudicasse proprio eziandio ad essi romani, fondato all’ordinamento delle loro cifre, che ha il suo primo limite al numero v, il secondo al x, figura composta di due v opposti l’uno all’ altro, il terzo al xv formato di tre, il quarto al xx di quattro, e così progressivamente sino al L, che da principio forse non era, se non un v inclinato, procedendo poi da questo numero egualmente agli altri limiti successivi. Fu parimente col segno v che indicarono la libbra o l’asse (Ven.Beda de ration. unciar.). Oltracciò sappiamo che il numero quinto si tenne in grande venerazione, gli si attribuirono [p. 16 modifica]le più sublimi prerogative, specialmente perchè corrisponde alle cinque zone celesti (Macrob. Somn. Scipion. 1, 6. Conf. Virg. georg. 1, 233): vi si aggiunsero anche idee superstiziose (Virg. ib. 1, 277: V. Erasm. adag. chil. 2, cent. 3, n. 1), e si considerò sacro a Minerva, non già, come dice Servio (ad Virg. georg. 1, 277) perchè la Dea fosse infeconda, ma verisimilmente perchè si riputava inventrice de’ numeri, siccome vedemmo.

Epilogando, conchiudiamo che l’aritmetica, d’invenzione antichissima e d’uso il più necessario, ebbe ad essere insegnata e praticata, singolarmente all’ingrandirsi ed all’ arricchirsi delle più colte società: che in effetto si prova molto esercitata presso i Greci, come doveva pur accadere stante il sistema loro numerico, di poco dissimile al nostro: che se questo non può da noi applicarsi alle lettere de’ Romani, non dobbiamo a primo tratto stimarli privi d’ogni maniera di computo, ma piuttosto attribuire la nullità dei nostri lumi alla perdita d’ogni notizia relativa, com’altre se ne perderono, importanti per la fisica e per le arti: che all’incontro, se ai Romani, e ad altre nazioni eredi della loro grandezza fu indispensabile l’uso dell’Aritmetica, e se ne tennero aperte le scuole, convien trarne argomento favorevole all’esistenza presso loro d’alcun metodo regolato ed agevole di numerare. Il dar opera per iscoprire qual ei si fosse, mi pare, se ben veggio, una parte non tocca di classica erudizione, alla quale amerei che alcuno di me più valente applicasse l’ingegno, pago abbastanza, se le poche mie considerazioni valgano almeno di stimolo ad altri per accignersi ad investigazioni più luminose.

Note

  1. Qui apud tyrannos auctoritate valerent, eos calculis, quibus in computandis rationibus utimur, (Solon) comparare consueverat. Ut enim illi interdum majorem numerum, interdum minorem significant, ita et tyrannos horum quemque, prout libitum fuerit, aliquando illustrem et inclytum, aliquando obscurum habere et ignobilem (Laert. l. 1. in Solon.).
  2. Nec calculator, nec notarius velox (Martial. 10. epig. 62, Schrevel. ad h. l.).
  3. Si forte vel librarius, vel nomenclator, vel calculator sit (Ulpian. leg. 7. ff. lib. 8. tit. 1).
  4. Romani pueri longis rationibus assem
    Discunt in partes centum diducere.
    (de art. poet. 325).
  5. Cum in patrimonium ventum est, diligentissimi computatores sic rationem ponitis singulorum, quibus pecuniam credituri estis, aut beneficia (Senec. epist. 87 ).
  6. Multos novi numerarios aut numeratores, vel si quo alio nomine, vocandi sunt, qui summe atque mirabiliter computant (de lib. arbitr. 2, 11).
  7. Moris fuit unumquemque domesticam rationem sibi totius vitae suae per dies singulos scribere, quo appareret quid quisque de redditibus suis, quid de arte, foenore, lucrove seposuisset quoque die, et quid item sumptus damnive fecisset (Ascon. ad 3. Verr.).
  8. Divitem illum putas..... quia magnus Kalendarii liber evolvitur (epist. 87)