Satire (Persio)/Note/Alla Satira V: differenze tra le versioni

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Occorre tuttavolta al pensiero una riflessione, che torna in molta lode del Venosino. Augusto, spenta la libertà della patria, propostosi di estinguere pur anche le memorie delle inique sue proscrizioni, vide esser poco l’aver sopito colla clemenza il furore delle congiure, che contra lui rinascevano tutto dí piú ostinate e piú fieredal sangue stesso in cui le affogava; e vide (e fu Mecenate che gliel fece vedere) che l’unico partito a cui appigliarsi, era quello di comprare co’ benefici la benevolenza e il perdono degli scrittori; vide che l’opinione non dipendeva dalle aste che li circondavano, ma dalla penna taciturna e romita de’ letterati; vide esser questi, e non altri, che nel gran libro della fama registrano l’ignominia, o la gloria de’ correttori delle nazioni, e che la posterità, ricevendo come sacre le sentenze dello storico e del poeta, istituisce il suo rigoroso giudizio secondo il processo che da questi le vien consegnato. Assistito adunque nel maneggio delle cose politiche da quell’accorto Toscano, Augusto ebbe il buon senno di seguirne esattamente i consigli. La corte si cangiò pressoché in un liceo, e mecenate accarezzando i buoni poeti, precipui dispensatori della pubblica lode, e cacciando i cattivi, la cui lode è grandissimo vituperio, due buonissimi effetti ne conseguí; e il primo fu quello di mansuefare coll’incantesimo delle Muse l’indole sanguinaria d’Augusto; l’altro di tirare a poco a poco il velo della dimenticanza sulle passate carnificine.
 
In questo stato di cose l’epicureismo divenne il sistema meno pericoloso che si potesse da’ poeti abbracciare. Quando non è piú lecito il parlare di libertà, quando le profonde e calde commozioni dell’animo vengono considerate come attentati contro l’assoluto comando, non rimane ai talenti altro miglior partito che quello della prudente ed onnipotente necessità, tacere e godere. Si abbandona il sentimento d’una libertà divenuta impossibile, ma si conserva allo spirito (ragiona quí con molta finezza mad. de Staël) un qualche avanzo di dignità nel seno medesimo del servaggio, nobilitando le indolenza della vita, e dando alla stessa voluttà una cert’
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ariacert’aria di filosofia, consolatrice de’ mali che incessantemente tormentano l’esistenza. ''Le riflessioni sulla brevità della vita, che Orazio mesce di continuo alle sue piú ridenti pitture, l’immagine della morte ch’egli mai non resta di presentare al fianco medesimo della beatitudine, anche quando ragiona col dispotismo sul trono, queste verità coraggiose ristabiliscono tra lo schiavo ed il tiranno una qualche eguaglianza''. Elle sono una specie di citazione che la filosofia produce al tribunale della natura contro la tirannia.
 
Altronde il monarca di Roma e del Mondo nel seno della pace recente di che godevano le provincie, aveva bisogno di essere divertito e lodato. I talenti poetici che procacciavano ad Orazio l’amicizia d’Augusto e la benevolenza de’ grandi, non sarebbono stati bastevoli a conservargliela senza il talento d’una consumata prudenza, al sola virtú di cui sia permessa la pratica quando si è perduta la libertà. Orazio possedeva eminentemente questo utile requisito. Ei sapeva a maraviglia e quando tacere e quando parlare, e portato, com’era, dalla natura alla satira, egli l’esercitò di maniera da non ingerire giammai il sospetto di bilioso misantropo, qualità abborrita in tutte le corti, qualità che avrebbe distrutta la sua fortuna. Prese quindi il partito di non armarsi del pungolo della satira, che per ridere e trastullarsi alle spese del vizio.
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colorito, che sensitivi alla venustà dello stile e all’urbanità de’ concetti pospongono Orazio a Persio e a Giovenale, io mi sarò contento di porre per massima questa lode di Persio, di aver esso il primo nobilitata la satira, vestendola di Socratico paludamento, e di aver parlato della virtú non come cinico ed incoerente aretologo che morde il vizio per passatempo, ma come gravissimo Sofo che tende seriamente all’emendazione del vizio, meno sollecito di brillare che d’istruire. Egli ha spogliata la satira di quell’odiosa idea che seco porta il suo nome, sollevandola al nobilissimo officio di amica della virtú, e di rigida persecutrice del vizio solo; laddove Orazio coll’arme acutissima del ridicolo mette qualche volta in timore la virtú stessa, e le toglie la confidenza di se medesima per quei difetti, che inseparabill dalla mortal condizione accompagnano anche i caratteri piú generosi. Il ridicolo non risparmia le stesse qualità piú eccellenti; e Socrate, il piú virtuoso tra gli uomini, diventa oggetto di riso sotto la sferza del buffone {{Ac|Aristofane|Aristofane}}. Si ha delle armi contro l’arroganza, contro la calunnia, contra l’insulto, ma nessuna contra il ridicolo. Coneludo che al tribunale d’Orazio verun difetto è sicuro; e l’umana virtú, che mai n’è disgiunta, sta continuamente in sospetto di se medesima. Al tribunale di Persio non trema che il vizio.
 
Ciò dunque che cercasi da’ sapienti nello scrittore filosofo, indignazione col delitto, orgoglio colla fortuna, contumelia coll’ambizione, acrimonia colle turpi passioni, ciò tutto si è adempito da Persio rigorosamente, e la sua filosofia a petto dell’Oraziana è una vereconda matrona accanto ad una frizzante ed amabile cortigiana. E queste sono le precipue discrepanze che parmi di ravvisare fra il sistema morale de’ due satirici di cui parliamo. Quanto allo stile: castità di lingua, grazia di narrazione, attico sale, ed una certa inimitabile leggiadría che si diffonde perennemente per tutte le membra del suo discorso, sono le virtú eminenti e sentite dello stile Oraziano nel didascalico. Persio è grandemente al dissotto di tutte queste prerogative, ma piú acre, piú rapido, piú unito. Orazio disegna con grandissima accuratezza, e non trascura un capello. Persio tira il pennello alla maniera del Caravaggio, e ti presenta una testa con un tratto di linea. A queste dissimiglianze aggiungi l’altra dell’artificio poetico. L’esametro d’Orazio somiglia bene spesso piú al numero della prosa, che a quello d’un linguaggio soggetto a certe regole d’armonia. Questo troppo sprezzamento di verso a Persio non piacque
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verso a Persio non piacque punto, ed egli benché perpetuo imitatore d’Orazio, preferí un genere di verseggiare piú armonico, piú rotondo, e sovente cosí magnifico che si accosta alla maestà virgiliana. Ben so che questo per alcuni è difetto, prescrivendosi che il verso didascalico debba serpeggiare per terra. Ed io amo ancor io di vederlo qualche volta per terra, ma non cosí spesso, né in forma di rettile, né stramazzato, né privo di tutta poetica fisonomia. Chi piú tenue di {{Ac|Publio Virgilio Marone|Virgilio}} nelle {{TestoCitato|Georgiche}}, e chi piú molle, piú fluido, piú sonante nel tempo stesso? E pazienza ai versi zoppi nel didascalico: ma nell’eroico? e senza effetto, senza bisogno, senza ragione? Un cotale mi voleva un giorno persuadere dell’armonia imitativa di quel pentametro {{Ac|gaio Valerio Catullo|Catulliano}}: ''Troja virum, et virtutum omnium acerba cinis''. Io corsi a cercare una corda per legarlo e tradurlo nell’ospedale.
 
Se da Orazio s’impara a beffarsi del vizio, da Persio ad amar la virtú, da Giovenale impareremo a sdegnarci contra il delitto: e di lui adesso dirò, poiché nell’argomento, a cui posi mano, mi parrebbe fallo il tacerne.
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Dopo tutto (giacché è pur tempo di terminare), che verremo noi a concludere? Qual terremo piú in pregio de’ tre Satirici? Noi amiamo, noi stimiamo noi stessi ne’ libri che piú ci contentano, e riveliamo senza badarvi i segreti del nostro cuore. Un letterario giudizio, ove soprattutto intervenga la parte morale, non è dunque assai volte, che una gratuita imprudente manifestazione di ciò che coviamo dentro di noi. Tuttavolta affinché niuno m’incolpi d’aver voluto elevare o deprimere con passione, ove dal fin qui detto non apparisse chiaro abbastanza il mio pensamento, finirò d’aprirlo senza pretensione e timore.
 
L’Einsio incantato d’Orazio nulla vede in Giovenale ed in Persio che meriti l’onore del paragone. Il Casaubono aggiudica a Persio la palma su gli altri due. Salta in mezzo il Rigalzio con lo Scaligero, e dichiarano in principe de’ Satirici Giovenale. Un gran volgo di altri eruditi in qualità d’interpreti e traduttori si gettano chi di qua chi di là, anteponendo sempre l’autore che piú fatica lor costa. Se le cure che ho perdute su Persio dovessero far norma del mio giudizio, ognun vede a chi s’andrebbe il mio voto. Ma in opere di soggetto morale due doveri io distinguo nello scrittore; l’istruzione e il diletto, i bisogni del cuore e quei dello spirito. Se contemplo questi tre ingegni puramente come satirici, la lite di primazia può agitarsi tra Giovenale ed Orazio. Il mio Persio è troppo modesto per non entrare di competenza: ma ricordiamci ch’egli scriveva colla prima lanugine sulla barba, e i suoi rivali colla canizie. Se muovesi disputa dell’artificio poetico e dello stile, sarebbe delirio il contendere con Orazio. Ma lo stile di Persio derivato perennemente dall’
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Orazianodall’Oraziano è piú castigato che quello di Giovenale, oltre una certa tutta sua propria velocità d’espressione che lo rende unico e solo tra i classici tutti quanti. Se ponderiamo finalmente il valore delle sentenze, giudico Orazio il piú amabile, Giovenale il piú splendido, Persio il piú saggio. Confuso tra gl’infimi nelle lettere, non ligio né ad un sol libro, né ad un solo bello esclusivo, estimando tutti gli scritti secondo che mi commovono, nemico di tutte le parasite eleganze, e rapito di quelle uniche che mi portano qualche cosa nell’anima, con pace dell’Einsio, del Casaubono, e dello Scaligero, e di tutti i devoti d’un culto solo, io mi dono or all’uno or all’altro de’ tre Satirici, siccome il cor mi significa. Quando cerco norme di gusto, vado ad Orazio: quando ho bisogno di bile contra le umane ribalderíe, visito Giovenale: quando mi sforzo d’esser onesto, vivo con Persio; e omai provetto, qual sono, con infinito piacere mescolato di vergogna, bevo i dettati della ragione su le labbra di questo verecondo e santissimo giovanetto.
 
Son due le parti di questa eccellente satira v. La prima è una tenera significazione d’affetto e di gratitudine verso il suo precettore Cornuto. L’altra aggírasi tutta su quella nota sentenza stoica, che niuno è libero, fuori che il saggio.
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BULLAQUE SUCCINCTIS LARIBU5. ''v''. 31. — La porpora pretestale, e la bolla d’oro in forma di cuore, che i fanciulli ingenui portavano al collo per ornamento, deponevasi dagli adolescenti nell’entrare dell’anno decimo settimo, e consecravasi agli Dei famigliari, a cui Persio dà l’aggiunto di succinti, perché rappresentavansi in abito di viaggio. E perché in tal abito? Per indicare, cred’io, che queste domestiche e fedeli divinità stavano sempre pronte a seguire la fortuna del padrone di casa, ovunque gli piacesse di trasportarsi. Ecco finalmente Iddii discreti, e dabbene.
 
CANDIDUS UMBO. ''v''. 33. — La toga virile. ''Umbo'' è propriamente il centro dello scudo. Qui significa il centro delle pieghe nella toga medesima, che corrugata aveva appunto sembianza di scudo. La gioventú,
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gioventú, assunta questa toga, girava a suo senno per la città ''custode remoto''. La ''Suburra'', il quartiere delle bagasce.
 
PUBLIUS. ''v''. 74. — Allorché davasi ad uno schiavo la libertà, se gli poneva pure un prenome qualunque di cittadino romano, di Publio p. e. , di Marco, di Quinto ec. Persio dunque avarissimo di parole pone qui un ''Publio'' assoluto, con che vuole s’intenda uno schiavo fatto libero col prenome di Publio. Velina è il nome della tribú, a cui si suppone ascritto il liberto. ''Tesserula'' diminutivo di ''tessera'' è la bulletta o contrassegno qualunque, mediante il quale si partecipava alla distribuzione di grano, che si dava gratuito ai poveri cittadini.
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VETERES AVIAS. ''v''. 92. — Cioè gli errori istillati dalle nonne, o dalle nutrici: espressione arditissima e rapidissima, di cui non credo capace la nostra lingua, benché il Salvini abbia giudicato diversamente traducendo al suo solito: ''Mentre dal tuo polmon nonnaie io svello''. Cosi l’edizione milanese.
 
TENUTA RERUM OFFICIA. ''v'' 93. — Sono quei dilicati doveri sociali non contemplati dalla legge, che legano vicendevolmente il core de’ cittadini, donde scaturiscano le amicizie, le parentele, e i riguardi scambievoli,
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riguardi scambievoli, senza i quali sarebbe uno stato di violenza la società. Ecco adunque in che si risolve il discorso di Persio coll’ex-mulattiere cittadino Marco Dama: ''il pretore poteva bensi di schiavo farti libero, ma non di sciocco un sapiente, né insegnarti creanza e procedere di galantuomo: senza di che tu rimani mai sempre nella condizione di schiavo''. Di questi Dama io ne ho veduti e provati ben molti sei anni fa, imberettati, tosati, ciarpati, ma scopati nessuno.
 
FIXUM NUMMUM. ''v''. 111. — Il fanciullesco trastullo di conficcare una moneta in terra, o legarla ad un filo per uccellare l’avidità dei passanti, dura anche al dí d’oggi.
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GRANDES GALLI. ''v''. 186. — Sacerdoti di Cibele, cosí chiamati dal fiume Gallo nella Frigia, le cui acque inducevano, dicesi, la pazzía: di che fa prova la castratura, a cui si assoggettavano per degnamente servire quella vecchia divinità.
 
CUM SISTRO LUSCA SACERDOS. ''ibid''. — Cioè, la losca sacerdotessa d’Iside. Ma perché losca? Fra le varie opinioni mi soddisfa quella dello Scoliaste: ''lusca autem ideo quod nubiles deformes, cum maritos non inveniant, ad ministeria deorum se conferant''.
=== no match ===
se conferant''.

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