Fermo e Lucia/Tomo Quarto/Cap VIII: differenze tra le versioni

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All’intorno del picciolo tempio v’era un picciolo spazio sgombro di capanne, e Fermo giungendovi, lo vide occupato da una folla distinta in ragazzi, in donne, e in uomini, tutti composti e in gran silenzio, fra il quale si udiva distintamente una voce alta ed oratoria che veniva dal tempio. Questo, elevato d’alcuni gradi al disopra del suolo, non aveva allora altro sostegno che le colonne disposte in circolo; nel mezzo v’era un altare che si poteva vedere da tutti i punti del lazzeretto, per mezzo agli intercolunnj vuoti, che in oggi sono murati. Ritto, su la predella dell’altare stava un capuccino, alto della persona, fra la virilità, e la vecchiezza; teneva con la destra una croce posata al suolo che gli sopravvanzava il capo di tutto il traverso; e con l’altra mano accompagnava di gesti il discorso che andava facendo. Era questi il Padre Felice sopraintendente del Lazzeretto. Fermo, giunto sull’orlo di quella adunanza avrebbe voluto avanzarsi a trascorrerla, e cercare ciò che gli stava a cuore; ma senza contare un altro capuccino che, con un aspetto tanto severo anzi burbero, quanto quello dell’oratore era pietoso, stava ritto in mezzo alla brigata per tener l’ordine; quella quiete generale, quell’attento silenzio, e quella unica voce bastarono ad avvertire il nostro ansioso che ogni movimento sarebbe stato in quel luogo scompiglio, e irriverenza. Stette egli dunque alla estremità della brigata ad aspettare, e udì la perorazione di quel singolare oratore.
All’intorno del picciolo tempio v’era un picciolo spazio sgombro di capanne, e Fermo giungendovi, lo vide occupato da una folla distinta in ragazzi, in donne, e in uomini, tutti composti e in gran silenzio, fra il quale si udiva distintamente una voce alta ed oratoria che veniva dal tempio. Questo, elevato d’alcuni gradi al disopra del suolo, non aveva allora altro sostegno che le colonne disposte in circolo; nel mezzo v’era un altare che si poteva vedere da tutti i punti del lazzeretto, per mezzo agli intercolunnj vuoti, che in oggi sono murati. Ritto, su la predella dell’altare stava un capuccino, alto della persona, fra la virilità, e la vecchiezza; teneva con la destra una croce posata al suolo che gli sopravvanzava il capo di tutto il traverso; e con l’altra mano accompagnava di gesti il discorso che andava facendo. Era questi il Padre Felice sopraintendente del Lazzeretto. Fermo, giunto sull’orlo di quella adunanza avrebbe voluto avanzarsi a trascorrerla, e cercare ciò che gli stava a cuore; ma senza contare un altro capuccino che, con un aspetto tanto severo anzi burbero, quanto quello dell’oratore era pietoso, stava ritto in mezzo alla brigata per tener l’ordine; quella quiete generale, quell’attento silenzio, e quella unica voce bastarono ad avvertire il nostro ansioso che ogni movimento sarebbe stato in quel luogo scompiglio, e irriverenza. Stette egli dunque alla estremità della brigata ad aspettare, e udì la perorazione di quel singolare oratore.

Versione delle 15:20, 17 apr 2011

[[Fermo e Lucia/Tomo Quarto

|Tomo Quarto]] - Capitolo Ottavo ../Cap VII ../Cap IX IncludiIntestazione 9 novembre 2008 75% Romanzi

Tomo Quarto - Cap VII Tomo Quarto - Cap IX

All’intorno del picciolo tempio v’era un picciolo spazio sgombro di capanne, e Fermo giungendovi, lo vide occupato da una folla distinta in ragazzi, in donne, e in uomini, tutti composti e in gran silenzio, fra il quale si udiva distintamente una voce alta ed oratoria che veniva dal tempio. Questo, elevato d’alcuni gradi al disopra del suolo, non aveva allora altro sostegno che le colonne disposte in circolo; nel mezzo v’era un altare che si poteva vedere da tutti i punti del lazzeretto, per mezzo agli intercolunnj vuoti, che in oggi sono murati. Ritto, su la predella dell’altare stava un capuccino, alto della persona, fra la virilità, e la vecchiezza; teneva con la destra una croce posata al suolo che gli sopravvanzava il capo di tutto il traverso; e con l’altra mano accompagnava di gesti il discorso che andava facendo. Era questi il Padre Felice sopraintendente del Lazzeretto. Fermo, giunto sull’orlo di quella adunanza avrebbe voluto avanzarsi a trascorrerla, e cercare ciò che gli stava a cuore; ma senza contare un altro capuccino che, con un aspetto tanto severo anzi burbero, quanto quello dell’oratore era pietoso, stava ritto in mezzo alla brigata per tener l’ordine; quella quiete generale, quell’attento silenzio, e quella unica voce bastarono ad avvertire il nostro ansioso che ogni movimento sarebbe stato in quel luogo scompiglio, e irriverenza. Stette egli dunque alla estremità della brigata ad aspettare, e udì la perorazione di quel singolare oratore.

«Diamo adunque», diceva egli, «un ultimo sguardo a questo luogo di miserie e di misericordia, pensando quanti vi sono entrati, quanti ne sono stati tratti fuora per la fossa, quanti vi rimangono, quanto pochi al paragone siam noi, che ne usciamo non illesi, ma salvi, ma colla voce da lodarne Iddio. L’anima nostra ha guadato il torrente; l’anima nostra ha guadate le acque soverchiatrici: benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia, benedetto nella morte, benedetto nella salvezza, benedetto nel discernimento ch’Egli ha fatto di noi in questo sì vasto, sì smisurato eccidio! Ah possa essere questo un discernimento di clemenza! possa la nostra condotta da questo momento esserne un indizio manifesto! Attraversando questo mare di guaj, diamo uno sguardo di pietà, e di conforto, a quegli che si dibattono tuttavia con la tempesta, e dei quali, ah quanto pochi, potranno come noi afferrare un porto terreno. Ci vedano uscirne, rendendo grazie per noi, ed elevando preghiere per essi! Attraversando la città già sì popolosa, noi scarsa restituzione dell’immenso tributo ch’essa mandò in questo luogo, mostriamo agli scarsi suoi abitatori un popolo scemato sì, ma rigenerato. Procediamo con la compunzione nel volto, e coi cantici su le labbra. Quegli che son ritornati nella pienezza dell’antico vigore, porgano un braccio soccorrevole ai fiacchi; gli adulti reggano i teneri, i giovani sostengano con riverenza e con amore i vecchj, ai quali la salute ritornata non apporta che pochi giorni di stento. E se in questo soggiorno di prova, in questo stesso crogiuolo di purgazione abbiam peccato; se abbiamo abusato anche dei flagelli, se abbiamo sciupati i doni e le ricchezze dello sdegno, come già quelli della benignità; ebbene! non abbiam però potuto esaurire il tesoro del perdono: ricorriamo ad esso di nuovo.

Per me...»

E qui l’oratore fece pausa, straordinariamente commosso; poi tolse una corda che gli stava ai piedi, se la avvinghiò al collo come ad un malfattore, cadde ginocchioni, e proseguì:

«Per me, e per tutti i miei compagni, i quali, sebbene immeritevoli, siamo stati per una ineffabile degnazione trascelti all’alto privilegio di servir Cristo in voi; se, come è pur troppo, non abbiamo degnamente corrisposto ad un tanto favore, se non abbiam degnamente adempiuto un sì grande ministero... perdonateci! Se la fiacchezza, o la ritrosia della carne ci ha resi men pronti ai vostri bisogni, alle vostre chiamate, perdonateci! se una ingiusta impazienza se una noja colpevole ci ha fatto talvolta nei vostri mali mostrarvi un volto severo, e fastidito, perdonateci! Se la corruttela d’Adamo ci ha fatto trascorrere in qualche azione che vi sia stata cagione di tristezza, e di scandalo, perdonateci! Nessuno porti fuor di qui altra amaritudine che delle sue proprie colpe!»

Così detto, stette egli ginocchioni, come aspettando un segno che l’umile e cordiale suo prego era accetto ed esaudito. Un singhiozzo, un pianto, un gemito universale si levò da quella turba a rispondere. Dopo qualche momento il frate s’alzò, prese la croce ad ambe mani, e l’inalberò; scese dalla predella, e quivi depose i sandali; gridò ad alta voce: «andiamo in pace»; poi intonò il Miserere; e scalzo, portando dinanzi a sè quell’alta croce pesante, scese gli scaglioni del tempio dalla parte rivolta alla porta meridionale del lazzeretto che sbocca dinanzi alla mura della città; e s’incamminò verso quella. Dietro lui s’avviò la torma dei fanciulletti, di quelli cioè che potevano reggersi, e sapevano condursi da sè; poi le donne, alcune delle quali tenevan per mano, o nelle braccia fanciulline, o bambini, e con fioca voce cantavano il salmo intonato dal guidatore; poi gli uomini pur cantando; poi carri di convalescenti, e delle bagaglie di quei che partivano: quelle che in tanta confusione s’eran potuto serbare, e raccogliere. Ultimo veniva quell’altro capuccino che abbiamo menzionato, con un gran vincastro in mano; e coi cenni di quello, con gli occhi e con la voce, teneva in sesto il convoglio. Era questi un Padre Michele Pozzobonelli, il coadiutore più autorevole, e come il primo ministro del Padre Felice, in quel regno di desolazione.

Fermo, tosto ch’ebbe veduto questo scender dal tempio, e notato da che parte s’avviava, entrò di nuovo fra le capanne per pigliare i passi innanzi, senza dare né ricever disturbo e sboccar poi di nuovo su la strada per dove la processione doveva passare. Dalla porta meridionale al tempio v’era infatti come una strada, uno spazio che s’era lasciato sgombro di capanne per dar passaggio ai carri degli infermi che per lo più entravano da quella porta, e da quello spazio poi si distribuivano a dritta e a sinistra, come si poteva. Fermo riuscì su quella, al mezzo in circa; e vide venire il vecchio crocifero, lo vide passare, vide passare i ragazzi, e poi con un gran battito al cuore, esaminò le donne che pur passavano; e lo potè fare a suo agio, perché elle procedevano a due a due. Passa, passa; guarda, guarda: qui non v’è, qui né pure; più che la metà è passata; poche ne rimangono; compajono le ultime della fila femminile; ecco gli uomini: Lucia non v’era. Quanta speranza svanita! Rimanevano però i carri ancora: Fermo gli vedeva venire; e i primi erano carichi di donne. Stette dunque aspettando, lasciò passare la schiera degli uomini; guardò ad uno ad uno quei carri. Passavano lentamente, si arrestavano talvolta come accade nelle processioni e nelle marce d’ogni genere; di modo che Fermo potè aver la trista certezza che nessuna di quelle donne era sfuggita alla sua vista; e che Lucia non v’era. Le braccia gli caddero, quando si vide finire in mano l’unico, o almeno il più forte filo delle sue speranze. Anche prima di vedere trascorrere quella per lui sì trista rassegna, egli sentiva pur troppo, quanto era più probabile che Lucia fosse nel numero dei tanti portati fuora dal lazzeretto sui carri, che dei pochi risanati: ma pure, come si suole egli metteva il suo desiderio sul guscio della speranza, e faceva traboccare le bilance da quella parte. Ma ora, egli credeva di dovere esser certo che Lucia non era tra i guariti, né tra i convalescenti: la contingenza più lieta per lui, l’unica sua speranza (quale speranza!) era ormai ch’ella fosse ivi languente, ma viva.

Passato tutto il convoglio, passato il Padre Michele, Fermo si mise senza troppo pensare dove andasse, su quella via rimasta sgombra, e le sue gambe lo portarono dinanzi al tempio.

Quivi gli vennero alla mente le parole del buon frate Cristoforo: — Se non ve la scorgi, fa cuore tuttavia... Cercala con rassegnazione. — Si prostrò su gli scaglioni del tempio, fece a Dio una preghiera, o per dir meglio, un viluppo di parole scompigliate, di frasi interrotte, di esclamazioni, di domande, di proteste, di disdette, uno di quei discorsi che non si fanno agli uomini, perché non hanno abbastanza penetrazione per intenderli, né sofferenza per ascoltarli; non sono abbastanza grandi per sentirne compassione senza disprezzo. Si levò di là più rincorato e si avviò. Dal tempio alla porta che divide il lato settentrionale a cui tendeva Fermo, scorreva, come dalla parte opposta, un viale sgombro di capanne; e si sarebbe potuto chiamare la via dei morti, perché ivi facevano capo e giravano i carri, che portavano alla fossa di San Gregorio le centinaja che perivano ogni giorno nel lazzeretto. Fermo scelse quella via come la meno impedita, e la più breve; e studiando il passo alla meglio, tra l’incontro continuo dei carri e l’inciampo frequente di altri tristissimi ingombri, pervenne a pochi passi dalla porta. Ma quivi un occorrimento di carri vuoti che entravano, di colmi che uscivano faceva in quel punto un tale imbarazzo, che Fermo anziché affrontarlo, o aspettare lo sgombro, stimò meglio di entrare tra le capanne per riuscire di quindi al fabbricato. Le capanne in quel luogo eran tutte abitate da donne; ed egli procedeva lentamente d’una in altra, guardando. Or mentre passando, come per un vicolo, tra due di queste, l’una delle quali aveva l’apertura sul suo passaggio, e l’altra rivolta dalla parte opposta, egli metteva il capo nella prima, sentì venire dall’altra, per lo fesso delle assacce ond’era connessa, sentì venire una voce... una voce, giusto cielo! che egli avrebbe distinta in un coro di cento cantanti, e che con una modulazione di tenerezza e di confidenza ignota ancora al suo orecchio, articolava parole che forse in altri tempi erano state pensate per lui, ma che certamente non gli erano mai state proferite: «Non dubitate: son qui tutta per voi: non vi abbandonerò mai».

Se Fermo non mise uno strido, non fu perché lo rattenesse il riguardo di fare scandalo, il timore di farsi troppo scorgere e d’essere preso o cacciato; fu perché gli mancò la voce. Le ginocchia gli tremarono sotto, la vista gli s’appannò un momento; ma come accade per lo più quando dopo una gran sorpresa rimane qualche cosa d’importante da farsi o da sapere, l’animo gli ritornò tosto, e più concitato di prima. In tre balzi girò la capanna, fu su la porta, vide una donna inclinata sur un letto, che andava assestando.

«Lucia!» chiamò Fermo con gran forza e sottovoce ad un tempo: «Lucia!»

Trabalzò ella a quella chiamata, a quella voce, credette di sognare, si volse precipitosamente, vide che non era sogno, e gridò: «Oh Signore benedetto!» Fermo rimase su la porta tacito e ansante, e Lucia pure dopo quel grido stette immota in silenzio più tempo che non bisogni a raccontare in compendio le sue vicende dal punto in cui l’abbiamo lasciata.

Ella era sempre rimasta nella casa di Don Ferrante; e fino ad un certo tempo sotto la vigilanza severa di Donna Prassede. Ma allo spiegarsi della peste questa signora, messe da un canto tutte le altre cure, dimenticate tutte le brighe, non solo le sue proprie, ma anche quelle di cui prima andava tanto volentieri in cerca, non ebbe più che un pensiero, di guardarsi dal pericolo comune. Pensò ella che, per fare del bene, la prima condizione è di essere in vita, e per allora, volle assicurar questa. Quanto al prossimo, non pensò più a regolarlo, ma soltanto a tenerselo lontano, tanto che non gli comunicasse la pestilenza. Don Ferrante invece, persuaso che tutte le precauzioni immaginabili non avrebbero potuto fare che la congiunzione di Saturno con Giove non fosse avvenuta, né stornare le conseguenze di un avvenimento di quella sorte, non cangiò nulla al suo tenore solito di vita: e contrasse la pestilenza, che in un giorno lo spicciò. Donna Prassede s’era ritirata con la signora Ghita, nella stanza più remota della casa; Prospero che alla morte di Don Ferrante era certo di dovere andare a spasso, pensava a farsi un po’ di fardello, il resto della famiglia seguiva il suo esempio; e il povero astrologo sarebbe morto abbandonato, se Lucia non avesse avuta la carità di prestargli qualche servigio. Il giorno stesso in cui Don Ferrante morì, Lucia fu presa da un gran sopore, rimase come insensata, e cadde senza forze: donna Prassede ordinò tosto che ella fosse portata nella via, ad aspettare un carro o una bussola che la portasse al lazzeretto. Così fu fatto, e così avvenne. Lucia deposta in quella capannuccia, stette alcuni giorni fuori di sè, senza prender cibo, né rimedii, lottando il vigore della natura con la violenza del male; e non riprese l’uso delle sue facoltà se non quando il male fu superato. Ma quale risvegliamento! in quel tumulto di morte, in quello scompiglio di guai, senza vedere un volto conosciuto, senza udire una voce famigliare! Pure, in quel tempo, come in tutte le grandi calamità la vista o il racconto, e l’aspettazione continua dei mali rendeva preparati a tutto anche gli animi i meno agguerriti; questa preparazione, la gran ragione della necessità, la cascaggine stessa che il male aveva lasciata addosso a Lucia, la fecero avvezzare ben tosto alla sua situazione; la fiducia in Dio gliela raddolcì. La capannuccia non capiva che due letti, o covili che fossero: in pochi giorni Lucia cangiò più volte di compagnia. Finalmente, quando ella cominciava a potersi reggere, vi fu portata una donna che era moglie, anzi vedova d’un ricco mercante di stoffe, madre, anzi orba di due figli: la peste le aveva tutto portato via. Questa rimasta sola in casa, e sentendosi pure colpita dal morbo, aveva chiamato un commissario della sanità che conosceva per sua buona sorte, e che per una sorte ancor più rara era un galantuomo; e gli aveva raccomandata sè e la sua casa. Egli la fece chiudere e sigillare, promise di vegliarla, e fece portare la donna al lazzeretto, con tutta quella cura particolare che si poteva in quelle circostanze. Lucia assistette la sua compagna, che superò pure la malattia; e come è facile ad intendersi, tra quella che prestava sì pietosi servigj, e quella che gli riceveva, ambedue deserte, buone ambedue, s’era formata una strettissima amicizia. La vedova, prima di venire al lazzeretto aveva nascosta nella sua casa una buona somma di danari, e vi aveva lasciate molte mercanzie protette dal sigillo publico, e ancor più dalla indifferenza dei monatti per le robe che non fossero di pronto uso o di facile smercio. Trovandosi quindi sola e doviziosa, ella aveva proposto a Lucia di tenerla con sè, come una sua figlia, e Lucia ringraziando Dio che le aveva preparato un asilo, e la buona donna che glielo offeriva, lo aveva accettato, ma solo per qualche tempo, tanto che potesse aver notizie di sua madre, e pensare a prendere una risoluzione stabile. Ciò ch’ella aveva promesso alla sua compagna era di non abbandonarla finch’ella non potesse uscire dal lazzeretto; e per ciò, Lucia, non s’era unita ai convalescenti che erano partiti quel giorno alla guida del Padre Felice. Ma la buona vedova avvezza a quella dolce compagnia, e atterrita dal solo pensiero di restarne priva, nella desolazione, esprimeva di tempo in tempo quel suo terrore, e si faceva rinnovare da Lucia la promessa in cui trovava la quiete dell’animo suo. E per dissipare appunto una di queste dubitanze Lucia aveva dette le soavi parole che colpirono l’orecchio di Fermo, e che abbiamo riferite.

Fermo era dimorato su la porta; e di là il suo secondo sguardo s’era rivolto su la persona alla quale quelle parole erano state dirette; e fu molto contento quando vide a che sesso ella apparteneva.

«Ah! siete viva; e v’ho trovata!» diss’egli quando potè ricuperar la parola; ed entrò nella capanna.

«Voi!» sclamò Lucia.

«Son venuto qui per cercarvi, e v’ho trovata!» rispose Fermo.

«E la peste?»

«L’ho avuta».

«Ah!» fece Lucia con un gran respiro, che significava assai più che un: — me ne rallegro infinitamente —. «Ma come... qui?»

«Son venuto a cercarvi in Milano, appena ho potuto; m’hanno detto che eravate qui; ci son venuto».

«Oh Signore!» disse Lucia, stringendo le mani giunte, alzando gli occhi al cielo, e con una voce che i singhiozzi stavano per interrompere. Poi, come entrata di repente in un altro pensiero, chiese ansiosamente: «Sapete qualche cosa di mia madre?»

«L’ho veduta jeri; è sana, vi saluta, e potete credere... era tutta in pensiero per voi, e sospira di vedervi».

Lucia rispose con un altro respiro di consolazione.

Fermo continuò: «sospira di vedervi, e crede... tiene per sicuro... Ma voi,... voi, mi parete stupita... ch’io sia venuto a cercarvi. Io... son sempre lo stesso... non vi ricordate...? che è avvenuto, Lucia?»

«Tante cose!» rispose ella sospirando.

«Ecco!» disse Fermo: «sa il cielo che cosa v’avranno detto di me!»

«Che importa», rispose Lucia, «quel che dica la gente?»

«Dunque...»

«Dunque... io credeva... che dopo tanto tempo... dopo tanti guai... non avreste più pensato a me».

«L’avete creduto? e me lo dite? quando son qui...»

«L’ho creduto», disse Lucia troncando in fretta le parole appassionate di Fermo, «l’ho creduto, perché sarebbe stato meglio... è meglio».

Lucia aveva sempre tenuti gli occhi bassi; ma proferendo non senza fatica queste parole, chinò anche la testa, e la tenne appoggiata sul petto, come per riposarsi d’un grande sforzo.

«È meglio!» disse Fermo, stordito e contristato di quel mistero, e guardando fiso nel volto di Lucia per trovarvi la spiegazione di quelle tronche ed oscure parole. «È meglio! che cosa v’ho fatto io? è colpa mia se... Non sono io quello a cui avete promesso? Che vi mancava perché foste mia? un momento... e... ma gli ho perdonato, non siete voi più quella...? Dopo tanto sperare! dopo tanto pensare a voi! dopo... Parlate chiaro: dite che non mi volete più; dite il perché; non mi fate...»

«Fermo», disse con voce più riposata e solenne, Lucia che mentre egli parlava, aveva cercato di raccogliere tutte le sue forze. «Fermo! ascoltatemi tranquillamente: pensate dove siamo: vedete questa buona creatura che ha bisogno di quiete: ascoltatemi. Io non sarò mai di nessuno... e non posso più esser vostra».

«No non l’avete detta voi questa parola»; rispose Fermo, «no che non l’ascolto: che ho fatto io? perché? chi ve l’ha detto? chi è entrato fra voi e me? chi c’è entrato? voglio saperlo».

«Zitto zitto, non andate avanti, per amor del Cielo», disse Lucia. «Quando lo saprete, se siete ancora quello di prima, se temete Dio come una volta, non direte così».

«Parlate per amor del cielo!»

«Sapete voi in che casi, in che spaventi io mi son trovata, in che pericoli?»

«Lo so, lo so, e... gli ho perdonato».

«Ora sappiate quello che nessuno, né pure mia madre, ha udito finora dalla mia bocca. In una notte... Vergine santissima! qual notte!... lontana da ogni soccorso... senza speranza di liberazione... sola... io sola, in mezzo... all’inferno, ho guardato in su, ho domandato l’ajuto di quel Solo che può fare i miracoli... ho domandato un miracolo, e ho dovuto fare una promessa... mi son votata alla Madonna, che se per sua intercessione, io usciva salva da quel pericolo, non... sarei mai stata sposa d’un uomo».

«Ahi! che avete fatto!» sclamò dolorosamente Fermo: «che avete fatto!»

«Ho ottenuto il miracolo», riprese Lucia: «la Madonna mi ha salvata».

«Bastava pregarla, e vi avrebbe salvata. Che avete fatto! Che avete fatto! Non dovevate fate un tal voto».

«L’ho fatto: che giova parlarne più? Che giova pentirsi? Pentirsi? No no, Dio liberi! Egli pure è sempre a tempo a pentirsi d’avermi salvata. Può lasciarmi cadere ancora in un pericolo, e allora, chi pregherò io? che promessa potrei fare?»

«Lucia!» disse Fermo, «e se non fosse il voto...? dite; sareste la stessa per me?»

«Uomo senza cuore!» rispose Lucia, contenendo le lagrime, «quando mi avreste fatte dire delle parole inutili, delle parole che mi farebbero male, delle parole che sarebbe forse peccati, sareste voi contento? Partite, scordatevi di me: non eravamo destinati; ci rivedremo lassù». Dopo queste parole, le lagrime soverchiarono, e fra i singhiozzi ella continuò: «dite a mia madre ch’io son guarita, che ho trovata questa buona amica che pensa a me; ditele che spero ch’ella sarà preservata da questi guai, che Dio provvederà a tutto, e che ci rivedremo. Partite, per amor del cielo; e non vi ricordate di me, che quando pregate il Signore».

«Lucia!» disse Fermo con tuono riposato e solenne egli pure; «noi siamo due poveri figliuoli senza studio: quel brav’uomo, quel gran religioso, quel nostro padre, il padre Cristoforo...»

«Ebbene?»

«È qui, nel lazzeretto, ad assistere gli appestati».

«È qui!» disse Lucia: «ah! non mi fa maraviglia: oh se potessi vederlo, sentir la sua voce! È egli sano?»

«È in piedi», disse Fermo, «ma il suo volto... Dio voglia che sieno gli anni, e le fatiche!»

«Voi l’avete veduto!» disse Lucia.

«L’ho veduto, e gli ho parlato», rispose Fermo: «egli mi ha fatto animo, a cercarvi, mi ha fatto promettere che tornerei a rendergli conto delle mie ricerche. Corro da lui: egli ci ha sempre ajutati; e spero che ci ajuterà anche in questa occasione».

«Che dite voi? che volete ch’egli faccia? preghiamo Dio che ci ajuti... che vi ajuti a sopportare. Ditegli che io ho sempre pregato per lui; che se può venga a trovarmi, a consolarmi, e voi... voi...» — Non tornate più qui per amor del cielo, — voleva ella dire, ma non lo disse. Dopo fatto quel voto, Lucia aveva sempre creduto di essersi legata irrevocabilmente, e non aveva supposto mai che alcuna autorità potesse annullare un patto col cielo; aveva rispinto come colpevole il pensiero stesso, e non aveva mai confidato a persona il suo doloroso segreto. Ma quando Fermo parlò d’una speranza nel padre Cristoforo, quella stessa speranza confusa entrò nel cuore di Lucia; le balenò nella mente un: — chi sa? —, intravide come non impossibile che il Padre Cristoforo potrebbe trovar qualche mezzo... e in quel dubbio ella stimò inutile di dire risolutamente a Fermo: «non tornate». Egli partì, senza far altre parole, come un uomo che pensa di tornar ben tosto, e s’avviò alla capanna del buon frate.

La vedova compagna di Lucia era rimasta con gli occhi sbarrati a guardare quel personaggio sconosciuto e ad udire quel dialogo nuovo per lei; giacché Lucia, la quale, come si è potuto vedere in altre parti di questa storia, era molto discreta, non le aveva mai parlato né della sua promessa di matrimonio, né per conseguenza delle vicende conseguenti. Ma ora non potè scusarsi di fargliene il racconto; e a dir vero, la disposizione d’animo di Lucia in quel momento s’accordava assai bene con le voglie curiose e benevole ad un tempo della vedova. Quelle memorie compresse e rispinte per tanto tempo, s’erano ora presentate tutte in tanta folla e con tanto impeto all’animo di Lucia, che il parlarne diveniva per lei quasi uno sfogo necessario. Dopo aver dunque risposto alla meglio ai rimproveri che la vedova le fece di un tanto segreto tenuto con lei, cominciò il racconto che fu spesso interrotto dai suoi singhiozzi, e dalle esclamazioni e dalle inchieste della ascoltatrice.

Fermo intanto era giunto alla capannuccia del Padre Cristoforo, e avendolo veduto lì fuori presso, che pregando, chiudeva gli occhi ad un morente, si era ritirato nella capannuccia senza dar voce né far segno che turbasse quel pio e doloroso uficio. Quando il poveretto fu spacciato, Fermo si mostrò, e il Padre Cristoforo andò a lui, che tosto gli raccontò la lietissima scoperta ch’egli aveva fatta di Lucia viva e sana, e quell’altra scoperta che era venuta, come a tradimento, a guastargli una tanta consolazione. Benché egli in questa parte del racconto volesse aver l’aria di chi propone un dubbio superiore ai suoi lumi aspettando il giudizio d’un sapiente, pure non lasciò scappare nessuna occasione di qualificare d’imprudenza e di pazzia quel voto che veniva per lui così male a proposito. Così faceva sentire che per la parte sua il giudizio era bell’e fatto; e intanto guardava attentamente al volto del Padre Cristoforo per iscoprire un pensiero, dal quale avrebbe potuto dipendere la sua sorte. Ma non potendo leggervi nulla, terminò con una aperta domanda: «Che ne dice, padre?» Il Padre stava pensoso: combattuto fra il desiderio di rivedere Lucia, e la speranza di consolarla forse, e il timore di rendersi colpevole, abbandonando per qualche tempo i suoi infermi.

Dopo essere così rimasto alquanto, pronunziò ad alta voce la conclusione del dibattimento che era stato tra i suoi pensieri. «Ho un dovere con quella creatura», diss’egli. «Dio l’aveva in altri tempi indirizzata a me, ed ora non me l’ha fatta venir così presso perché io ricusi di esserle utile. Andiamo».

Lasciò per la seconda volta i suoi ammalati alla cura del Padre Vittore, e si mosse con Fermo.

Questi andava innanzi tacito facendo la guida per quel triste labirinto, e dirigendosi al viale per cui era passato la prima volta, e il Frate pur tacito gli teneva dietro.

Gli oggetti che ad ogni mutar di passo si succedevano alla vista, tenevano occupato l’animo di quella compunzione che non trova parole; e in quel momento su quel mesto spettacolo pareva che scendesse e pesasse una mestizia più cupa e più grave dell’ordinario.

Una nuvola comparsa all’occidente aveva a poco a poco coperto tutto il cielo: e alla oscurità crescente, avresti detto che il giorno era finito, se il sole lontano ancor forse due ore dal tramonto non avesse mostrato come dietro ad un velo spesso ed immobile, il suo disco grande e biancastro, donde partivano, non vivi raggi e diretti, ma un barlume scialbo e circonfuso che mandava una caldura morta e gravosa. L’aria non dava un soffio: non si vedeva muovere una tenda delle trabacche, né piegar la cima d’un pioppo nelle campagne d’intorno. Solo si vedeva la rondine, sdrucciolando rapidamente dall’alto, rasentare con l’ali tese, per un picciol tratto la superficie ingombra e confusa di quel terreno; e tosto risalire, volteggiare per l’aria in cerchii veloci, e piombar di nuovo. Un’afa faticosa prostrava gli animi con una oppressione straordinaria: la lotta del morire era più affannosa; i gemiti dei languenti erano soppressi dall’ambascia; il movimento delle opere era stanco, rallentato, come sospeso: quella dubbia luce dava al colore della morte e della infermità un non so che di più livido; un non so che di più squallido all’abbattimento ond’erano atteggiate le figure dei sani: e su quel luogo di desolazione non era forse ancor passata un’ora amara al par di questa.

Eppure quegli che sopravvissero rammentarono quell’ora con gioja per tutta la vita; era la preparazione d’una burasca, che scoppiò la notte, e menò poi per due giorni una pioggia continua, dopo la quale il contagio cessò quasi ad un tratto.

Sotto il fascio di quella comune gravezza, procedevano il giovane e il vecchio, con la fronte bassa il primo e con l’animo diviso fra lo studio della via, fra l’orrore delle cose che vedeva, e l’ansietà del suo destino futuro; e l’altro levando di tratto in tratto al cielo la faccia smunta come per cercare un più libero respiro, e per secondare con quell’atto una speranza interna.

«È qui», disse Fermo con voce tremante accennando la capanna; e v’entrarono che Lucia col volto lagrimoso stava proseguendo il suo racconto.

Al riveder Fermo ella trasalì, e al vedere il Padre Cristoforo balzò dal saccone di paglia ov’era seduta, e gli si gettò incontro su la porta.

«Oh Padre!... Signore Iddio! come sta ella?» soggiunse poi tosto vedendogli i segni della morte in volto.

«Come Dio vuole, mia buona figlia», rispose il Frate: «e presto spero starò bene affatto».

«Come?...» disse Lucia.

«Come Dio vorrà», riprese egli tosto. «Parliamo ora di voi, per cui son venuto».

«Oh Padre! quanto tempo! quante cose!» disse Lucia.

«Quante cose!» ripetè il Frate: «e certo se fossimo là ai vostri monti, seduti in su la porta della casetta di quella buona Agnese, mi lascerei andar volentieri a farne lunghi discorsi. Ma qui il tempo è misurato». E tosto trattala in disparte in un angolo della capanna, continuò:

«Fermo mi ha detto che avete fatto voto di non maritarvi».

«È vero», rispose Lucia, arrossando.

«Avete voi pensato allora», proseguì il vecchio, «che voi avevate un impegno solenne di matrimonio, e che offerivate alla Vergine una libertà della quale avevate già disposto? E che riprendevate una parola già data, senza sapere se quegli che l’aveva ricevuta avrebbe consentito a restituirvela?»

«Ho fatto male?» chiese Lucia, con sorpresa, e con un rimorso che non era tutto doloroso.

«Avete voi confidato a nessuno questo vostro nuovo impegno?» interrogò di nuovo il Frate: «avete chiesto consiglio?»

«Non ho ardito», rispose Lucia.

«Ed ora», proseguì egli, «che vi dice il vostro cuore di quel voto?»

«Che vuol ella che me ne dica?» rispose Lucia arrossando più che mai e chiudendo quasi del tutto gli occhi ch’erano già chini a terra.

«Se non lo aveste fatto, lo fareste?»

«Se... non fossi in quel pericolo... in un grande pericolo... e poi, se non è permesso... non lo farei».

«Se non lo aveste fatto, sareste tuttavia risoluta di sposare quell’uomo a cui avevate promesso?»

«Io credeva... che fosse male il pensarvi... ma poi ch’Ella me ne domanda... ah Padre sì!»

Fermo intanto adocchiava ansiosamente verso quell’angolo, e la vedova anch’essa stava in una tacita aspettazione. Il Frate si fece presso a loro, accennando a Lucia, che lo seguì con gli occhi bassi. Allora egli con voce spiegata le rivolse questa nuova interrogazione:

«Credete voi che la santa madre Chiesa ha ricevuta da Dio l’autorità di sciogliere e di legare?»

«Lo credo», rispose Lucia.

«Credete voi dunque che ella possa in suo nome ricevere, confermare, o rimettere i voti che gli son fatti, interpretando la sua volontà in questo come nel perdono dei peccati, e usando una potestà che tiene da Lui?»

«Lo credo», rispose ancora Lucia.

«Domandate voi alla Chiesa di essere sciolta dal voto di verginità che avete fatto, o inteso di fare alla Madre santissima di Dio?»

«Lo domando», rispose Lucia con una prontezza, alla quale Fermo non ebbe nulla a desiderare, e che potrà parere forse troppa a chi non essendo stato presente a quell’atto, non rifletta che la solennità della richiesta, l’aria autorevole di chi l’aveva fatta, non lasciavan luogo a titubamenti leziosi, e che ivi la verecondia doveva essere tutta nella sincerità.

«Ed io», disse allora il buon Frate, con tuono ancor più solenne, «prego umilmente la Vergine regina di tutti i santi, che abbia sempre per aggradito il sentimento del vostro divoto e travagliato sacrificio, e lo offra al suo e nostro Signore; e con l’autorità che la Chiesa mi ha affidata, vi sciolgo dal voto, annullando ciò che vi potè essere d’inconsiderato, e liberandovi da ogni obbligazione, se ne avete contratta».

Non parleremo dell’effetto, che queste parole produssero nell’animo dei due giovani: la buona vedova era tutta commossa. Il Frate continuò rivolto a Lucia: «Siate moglie pudica, moglie affettuosa moglie contenta di quella contentezza che conduce all’eterna. Questo Iddio ha voluto e vuole da voi». Quindi levò le mani verso i due giovani come per parlare ad ambedue. Essi caddero ginocchioni ai suoi piedi, ed egli tutto assorto, e quasi senza avvedersi di quell’atto, stese le mani su le loro teste, e stette un momento pensoso. Erano nel fondo della capanna, come chiusi tra quello e il letto della vedova che teneva gli occhi fissi su di loro: i giovani inginocchiati con la fronte bassa, e il Frate ritto dinanzi a loro con le spalle rivolte alla porta.

«Figliuoli», disse egli, «che ho amati, e che amerò sempre, ricordatevi che se la Chiesa vi assolve da un sagrificio, non lo fa per procurarvi le consolazioni di questa vita che deve esser tutta un sacrificio; ma per mettervi su la via della santificazione. Amatevi, come compagni di viaggio, col pensiero di avere a lasciarvi, con la speranza di ritrovarvi ancora e per sempre. Rendete grazie al cielo che vi ha condotti a questo stato non con le allegrezze turbolente e passeggiere, ma coi travagli, e fra le miserie per disporvi ad una gioja raccolta temperata, e continua. E nei vostri discorsi qualche volta, e sempre nelle vostre preghiere, ricordatevi...»

Queste parole che rinchiudevano come un presentimento, e un tristo addio, rinnovarono nell’animo di Lucia l’impressione dolorosa che le aveva prodotta l’aspetto di chi le proferiva. Levò ella gli occhi quasi involontariamente, tutta commossa, a riguardarlo di nuovo; ma insieme con l’oggetto che cercava il suo sguardo un altro inaspettato le se ne offerse su la porta della capanna, alla vista del quale ella mandò uno strido repentino. Tutti gli occhi si rivolsero a quella parte donde le era venuta quella subita commozione.