I suicidi di Parigi/Episodio terzo/III: differenze tra le versioni

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Versione delle 21:46, 20 apr 2011

Episodio terzo - III. Ove si apprende: che tutto è bene ciò che riesce bene

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Episodio terzo - III. Ove si apprende: che tutto è bene ciò che riesce bene
Episodio terzo - II Episodio terzo - IV


La principessa Bianca, dicevano i cortigiani, è una Minerva, come se ne veggono ancora le statue nei Musei. Suo padre l’aveva chiamata Diana. Forse, ei sarebbe restato più nel vero se la si fosse addimandata una Venere contadina!1

La statura s’innalzava un poco al di sopra della mezzana, ma bene assisa sulle groppe e solidamente costrutta. Nell’insieme, svelta ed armoniosa. Non si appiccava l’epiteto di piccino nè ai suoi piedi, nè alle sue mani; ma le sue mani seducevano, i suoi piedi provocavano.

Io mi sono sempre dimandato perchè dei piedi graziosi, piccoli, inarcati, elastici, provocassero, solleticassero. Che mi si parli delle labbra, io lo comprendo. Delle labbra rosse, leggiermente umide, a pelle fina, a palpitazione soave, a polpa attraente - delle labbra, insomma, come quelle della principessa Bianca - sono un focolaio di amore a getto continuo, che danno i brividi. Que’ piccoli denti - che debbono morsicchiare sì bene - sembrano una frangia tagliata in un petalo di magnolia! Quegli occhi neri, grandi, lucenti, che vi avviluppano e vi penetrano; che riverberano l’infinito; che rivelano l’abisso; ove il piacere è re; ove l’amore è tiranno... appiccano l’incendio dovunque si posano, la disperazione dovunque passano, fanno paura se s’inalberano, uccidono se diventano languenti. Le sopracciglia che li coprono scoppiettano scintille se si aggrottano.

La fronte di Bianca non è alta, ma levigata e candida e si perde nelle onde infinite di una capigliatura nera e vellutata - che morde il freno, lo rode ed irrompe - correndo dietro alle carezze della brezza ed ai raggi del sole.

La sua fiera narice è crudele e voluttuosa, altera e provocatrice. Il soffio che l’agita, in passando, è elettrico.

La vita, esuberante, lussuosa, irresistibile, inebriante, impetuosa, esigente, scoppia da tutti i suoi lineamenti. Il color vivo delle sue guance la rivela. Bianca invita al festino degli dei, che inizia alla beatitudine, ma che uccide se vi vi si tuffa con abbandono. Chi non vorrebbe morire su quel petto, la bocca applicata a quel collo serico e bianco - il serpente dell’Eden?

Malgrado la vivacità e l’agilità della principessa, il suo portamento era reale. La sua voce, un po’ ruvida, commoveva. Il suo gesto, breve e vivo, era eloquente. Il suo andare seduceva. Assisa, era volgare; in piedi, imponeva; a cavallo, vi trasportava come una fanfara di guerra. Negli addobbi comuni delle donne ella era triviale. Su di lei i gioielli smorfiavano; il fiore appassiva; la gaze si screpolava. Il velluto, la seta la rimpicciolivano. Bisognava vederla nel suo costume virile di amazzone per ammirarla nella sua apoteosi. Ella rivelava l’androgenia dell’anima.

Nulla di più goffo se ella danzava. A ginocchio, un libro alla mano, nella cappella, alla messa, era disperatamente ridicola e meschina. Un bicchiere alla mano, a tavola, ella avrebbe fatto scoppiare Arianna di gelosia.

Non pertanto, ella suonava bene il piano, il quale sotto la sua mano potente scoppiettava come una frusta, scintillava, espettorava dei suoni come colpi di pistola. Laonde ella non suonava mai sempre che arie guerresche, inni spietati, sinfonie tempestose, finali gremiti di antitesi ed orripilanti.

Il piacere che l’ubbriacava era la caccia. Nei castelli reali si trovava un registro zeppo zeppo di più migliaia di pezzi di grosso selvaggiume ucciso dalla principessa Bianca. Si erano bene astenuti però d’iscrivervi altresì che ella aveva morti per sbaglio cinque o sei picchieri e parecchi contadini e guardacaccia. Il sangue, compreso il suo proprio, l’intimidiva poco.

Malgrado ciò, era sensibile alle lagrime, e gli atti generosi la facevano singhiozzare. Un uomo ucciso la colpiva; un fiore appassito l’inteneriva. Leggeva di raro; ma se prendeva un libro, era sempre un poeta: Schiller, Byron, Hugo, Köerner, Zorillas... Sapeva tutte le lingue.

Una principessa non è dessa una piuma, cui il vento deve un giorno trasportare Dio sa su quale riva?

Il moto era per lei la vita; il riposo la spegneva. Aveva l’audacia di un uomo; la volontà di bronzo... di una donna.

Eccola adesso sur un ginetto andaluso nei viali della foresta.

Quindici giorni di reclusione le davano il farnetico del movimento.

Il suo occhio si dilatava, le sue narici si gonfiavano, il suo seno si apriva. I suoi colori, un istante impalliditi, rifluivano trionfanti. La sua testa sfidava il nugoleto che si granulava di fulmine e s’imbeveva di uragano. La sua voce scoppiava e balzava.

I suoi fratelli e gl’invitati a quella caccia erano restati indietro, lontani, spauriti. I bracchieri, sperperati nella macchia, nei mille sentieri della foresta.

Un solo cavaliere, il duca di Balbek, si teneva ai suoi fianchi, attaccato al suo abito, gualcendo sovente la sua amazzone in quella corsa scapigliata. I loro cavalli erano ebbri di demenza. Tutto è fiamma intorno a loro: il pelo dei cavalli, i ferri dei piedi, gli occhi dei padroni, l’aria del cielo... tutto tramanda scintille! Lo spazio è un abisso: assorbe, attira, porta via, trasporta - dove Dio mise dei piedi, esso attacca delle ali.

Ove van dessi? verso il limite illimitato: in niun luogo! Avanti! poi avanti! avanti sempre!


Una frana a picco li ferma infine.

Bianca dà in un pazzo riso.

Il duca cava il suo cappello e saluta.

- Mica male! - sclama la principessa. Per un primo saggio ve la siete tirata bene. Promettete qualcosa.

- Non sono io l’ombra? - rispose il duca. Il corpo mi trasporta nell’orbita sua. Ove è il merito che Vostra Altezza mi fa l’onore di rilevare?

- Ritorniamo. La bufera bufonchia. Se il nuvolo crepa voi andrete a pigliare un cimorro; ne ò paura!

- Altezza, io non mi incatarro che al lume dei doppieri.

- In questo caso non vi accimorrerete mai al mio seguito. Voi non andate dunque mai al ballo, voi? mai allo spettacolo?

- O’ bisogno di ben foderarmi di flanelle, se par avventura sono obbligato di andarvi.

Rivennero su i loro passi e traversarono i cedui.

Era la fine di maggio. La natura fremeva ancora del suo immenso andare in amore - ciò che si armonizzava completamente con l’espressione di aspettativa appassionata cui la giovane coppia portava negli sguardi.

Camminavano adesso fianco a fianco, a passo lento, in silenzio. E’ cercavano forse un finale spontaneo, che perdesse quell’impronta per ordine, cui l’una aveva compreso nelle parole di suo padre, l’altro in quelle di suo zio. Il corpo era stanco della corsa sfrenata; l’anima dominava. All’agitazione tumultuosa succedeva il meditare ondulante. Galleggiavano nel vago.

La natura cantava sotto gli abbracciari del sole che divenivano più incalzanti. La cervia, sbalordita dal rumore cui la caccia spandeva lontano, si ritirava nei suoi folti appartati. Il caprioletto saltellava intorno ai cavalli. Il daino bramiva.

La caccia del giorno era ai lepri, ai conigli, agli uccelli, di cui si compiè un’abbattagione.

La volpe, cauta e curiosa, si teneva in distanza, l’occhio al fucile che pendeva dall’arcione di Bianca ed alla carabina che riposava sulla coscia del duca. Su i picchi delle roccie lontane, il lupo, assiso sulle sue lacche, faceva sentinella, inquieto ma grave, portando le sue orecchie puntute verso tutte le direzioni delle brezze che stuzzicavano l’aere sonnolento. Nel profondo dei boschi si udiva il grugnare sordo del quarteruolo e del vecchio solitario, che meditavano un’irruzione subdola, ma non osavano rischiarla.

Che gaiezza poi nei rami! Che cinguettìo, che garrito, che gorgheggi, che saltellare, che strepito di ali, che beccheggiare, che lascivia! Che negghianza negli uni, che inquietudini per la casa negli altri! Che spanto di pietre preziose negli occhi, nelle ali, nelle goliere, nei ciuffetti, nei pennacchi! Quei fiori dell’aria si abbandonavano ad un baccanale sfrenato. Quei piccoli bellimbusti tormentavano la quercia grave e screpolata dal fulmine, l’acero che protesta, l’elce che si stecchisce, l’olmo che cede, l’abete che si dondola realmente, il pino che se ne burla, l’agrifoglio che dà la berta, il biancospino che ride in mancanza di meglio, il ginepro, il cipresso, il larice, il tasso, che vanno in bestia. Quegli audacelli pigiavano sopra tutti; facevan peggio che salivare sulla faccia di quegli esseri secolari e serii, i quali, incappellati come i Grandi di Spagna innanzi al re, portavano il capo alto innanzi agli aquiloni.

Un olezzo indefinito si spandeva nell’aria e la saturava. Esso si esalava di dovunque: dalle thuye, che si schieravano in battaglia intorno ai grandi alberi; dai budleya ai grappoli di fiori azzurri; dalle piccole deutzie al loro nevigato di fiori di argento; dagl’indigoferi che sparpagliavano i loro getti di porpora, dai rhus che lasciavan folleggiare i venti lascivi nella loro bionde capigliature inanellate; dai vitex2 che innalzavano le loro lunghe spighe di fiori cilestri. Che irradiamento animato! Che invasione di vita! I viali ombreggiati, cui la principessa Bianca ed il suo cavaliere traversavano, sembravano degli squarci in un mare di smeraldo. La foresta era una sirena.

La natura fondeva i colori, i profumi, le voci, le scintille, i sentimenti ed i gradi.

Si aspettava Bianca ed il duca per asciolvere e tornare al castello.

Si era ucciso una montagna di lepri, di conigli, di palombi, di merli, qualche riccio, qualche istrice, qualche scoiattolo, molti fagiani. Si era ucciso per uccidere. Imperciocchè tutto ciò, in quella stagione, non valeva nulla. Non era la caccia, era l’assassinio. Quanti amori interrotti? Quanti orfani condannati a perire?

Bianca non aveva scaricato il suo fucile. Ella non era venuta per dar mano a quel massacro, ma per bagnarsi nell’aria aperta, dopo una settimana di città e di castello. Le sue guance, del resto, rifiorivano: la si vedeva di nuovo vivace e splendida.


L’indomani ella ricominciò. L’aveva ordinato il medico - e la principessa rispettava la scienza! Poi, il giorno dopo, e poi i giorni seguenti.

Il duca di Balbek l’accompagnava sempre.

Ed io mi penso che l’uomo cominciava a soppiantare il funzionario.

Gli staffieri ed i bracchieri, che li seguivano in distanza, li smarrivano talvolta nel laberinto dei folti e nei sentieri della foresta, cui gli stessi guardacaccia visitavano di raro.

La coppia fortunata cominciava per un galoppo vertiginoso, e quando si trovava immersa, sola, nella solitudine discreta, nei siti ove la natura libera si lasciava andare alla sua deboscia di creazione, rallentava il passo e scambiava qualche proposito.

La parola era misurata: lo sguardo indiscreto.

Poi, tutto di un tratto, Bianca partiva come un lampo, o faceva inalberare il suo cavallo sul suo compagno, e rideva; o si lanciava nelle terre paludose per inzaccherare il suo cavaliere - il quale si spaventava se la vedeva affondare.

E quanti accidenti in quelle scappatucce!

Ieri, l’era l’amazzone - che, appiccata ad un arbusto, aveva scoverto una gamba ammirabile! Oggi, l’è una bigonia che la spettina e le scioglie le trecce, cui bisogna dar opera a rannodare. Talvolta, era una robinia che le strappava la frusta dei suoi artigli rosati. Tal’altra, una betulla3 che le solcava il viso, e bisognava rinfrescarlo con una pezzuola intrisa nell’acqua.

- Che punto di vista magnifico. Voi non lo ammirate, voi?

- Altezza, io trovo che la natura è sciocca in tutte le sue manifestazioni, eccetto...

- Eccetto?

- La donna.

- Voglio arrampicarmi su quelle roccie, ove potrò trovare un nido di sparviero. Aiutatemi a smontare.

Ed il duca la riceveva sul suo petto.

- Aiutatemi adesso a rimontare a cavallo.

Ed il duca la prendeva nelle sue braccia, adagiava il di lei piede nella staffa, aggiustava, o disordinava l’amazzone.

- Oh! come quella glycina bleu è bella ed olezza bene! Andate a cogliermela.

Ed il duca correva, e le cacciava poi dentro al busto il grappolo del fiore colto.

- To’! quel filo di ruscelletto mi dà sete.

Ed il duca le prestava la sua spalla per saltar di cavallo. Ed ella toglieva i guanti, si stendeva lunga lunga alla ripa del rivolo, attingeva l’acqua nel cavo delle sue palme, beveva, si refrigerava il sembiante e...

- Bravo! ò perduto la mia pezzuola. Prestatemi la vostra, duca.

E poi a galoppare di nuovo. E dei motti interrotti: e degli impallidimenti subiti; e dei brividi indiscreti ad un tatto accidentale; ed un respirare oppresso e bruciante, quando si era di troppo vicini; e dei languori traditori, delle risposte vaghe, degli sguardi petulanti, delle reticenze eloquenti!!!

Una settimana sorvolò così.

Quanto cammino compiuto, ma quanta distanza ancora!

Non pertanto, il vaso si empiva, l’acqua saliva sempre e sempre, ad ogni passeggiata, ad ogni costa, in tutti gli angiporti della foresta ove si scambiava una occhiata, una parola. L’acqua saliva e saliva - ma gocciola a gocciola.

Una gocciola ancora!

Tuttavia, non mai un motto galante, non mai un’allusione. La parola sarebbe stato un delitto di lesa maestà, poichè la situazione era sì augusta.

L’amore non è parlamentare.

Gli antenati di S. M. Claudio III erano stati cacciatori.

La loro capitale era circondata di residenze di caccia l’una più bella dell’altra. Ve n’era una dozzina, tutte ricche di cacciagioni, pittoresche, confortevoli, deliziose. Era la sola cosa che fosse reale nella dinastia e nel regno!

Oltre quelle foreste, quei parchi, quei palazzi di caccia vicino alla città, ve n’erano poi altri più lontani, altri al centro stesso della contrada. Vi si facevano dei viaggi, e vi si restava delle settimane.


Un mattino, la principessa Bianca fu presa da un desiderio imprevisto di andare a cacciare i piccioni in quella bella residenza di Lacerta, che è la Versailles di re Claudio.

Bianca ed il suo cavaliere salirono in sedia di posta e vi arrivarono alle nove.

Due ore di viaggio, l’uno in faccia all’altra!

Si parlò poco.

L’occhio sembrava carico di procella. Chi sa se oggi non si darà battaglia!

Ma presto, in sella. Il sole carica: i suoi raggi sferzano; maggio spira. In via. Si servirà l’asciolvere nello châlet, ove re Zebulone IV cucinava i suoi salmis, confezionava le sue appetitose gibelottes. Che si attenda quivi. Avanti... avanti!

Ed il galoppo furibondo e scarmigliato cominciava.

Chi potrebbe seguire Bianca, che sembra pigliare le ali!

Ella s’ingolfa nel macchione; traversa le chiarelle, ove il duca la rivede, e galoppa al suo seguito. Volge a sinistra; sale sur un poggio e si ferma in una crocevia che rassomiglia alla rosa dei venti. Il duca la raggiunge. Ella s’immette in un sentiero coverto e sbocca in una specie di valle magica.

L’ombra di un pino, come un obelisco, segnava mezzodì sur una roccia.

In mezzo a quel guazzabuglio di pini, di cedri, di abeti, di criptomerie che si rizzano svelte e spigliate come colonne, si sarebbe creduto trovarsi nella moschea di Cordova - di cui si è fatta una cattedrale! Il sole, a traverso i rami, zebbrava il suolo di rabeschi fantastici. La mandevillea, dai grossi mazzi di fiori bianchi che olezzano il gelsomino, invadeva quelle colonne. La phylophora, dai pampani lucenti, circondava le loro basi e si slanciava in pergole. La maurandia, dai fiori purpurei, ed il phoseolus, dai fiori rosei carichi di profumo, spiegavano le loro cortine. Un ruscello accompagnava della sua sordina i gorgheggi dei rosignuoli, le improvvisazioni alla diavola di una folla di piccoli uccelli che si apparecchiavano a fare la loro siesta. Il suolo era tappezzato di una giovane felce tenera e fresca.

- Quest’alfana mi à stanca - sclamò Bianca. - Vorrei riposarmi un istante e dar la caccia alle farfalle, alle sponde di quell’acqua.

Il duca le porse il braccio. Ella si lasciò cadere in braccia a lui - tanto sembrava affaticata! Si assise sur un cespo di erbe, ed il duca legò i cavalli ad un albero.

Il silenzio della voce umana era completo. Il brulichìo indistinto della natura era un narcotico. Sul loro capo, le tortorelle, poco pudiche e poco intimorite, ricambiavano dei lunghi, lunghi baci. La freschezza soave ed imbalsamata insinuava il languore.

Il duca si assise a fianco di Bianca.

Ella impallidì.

La sua respirazione divenne a balzi. Le sue labbra si scolorarono. Le sue narici si dilatarono. I suoi occhi si velarono come il cielo negli istanti che precedono la bufera. Sembrava accasciarsi. Il sonno la guadagnava. Avrebbe voluto levarsi; ma quello sforzo la ravvicinò al duca, che si era collocato ad una certa distanza, discreto.

- Il mio ducato per un tappeto! - sclamò costui di una voce velata.

Bianca sorrise.

La di lei testa s’inchinò sulla spalla di Balbek, che si abbassò.

Gli aliti si confusero. Gli occhi si chiusero. I capelli dell’una sfioravano il viso dell’altro....

Come ciò avvenne? Per quale contorsione di collo ebbe ciò luogo? Nol so. Ma la bocca dell’uno si trovò contro la bocca dell’altra.

Bianca dormiva.

Le loro labbra tremolarono. Un rumore sordo, come una foglia di rosa che si squarci, ne seguì. Quelle due bocche restarono così a ricamare, per tutto il tempo che l’assopimento di Bianca durò.

Infine, ella si svegliò in sussulto e gridò:

- Guarda! io ò dunque dormito?

- Altezza, sì - e profondissimamente ancora!

- Fa sì caldo! si sogna in piedi. Ed io credo di aver sognato...

- Delle cose spaventevoli, Altezza?

- Non so. Siete voi poeta, duca?

- Che! vi sarebbero ancora dei poeti, dopo che non vi sono più delle Margherite di Scozia?

- Come! Vi sarebbero ancora degli Alain Chartier, che meritino di essere baciati sulla bocca dalle principesse... attempatelle?

- Io credo, Altezza, che qualunque uomo che dica ad una donna: Io t’amo! sia più poeta di messer Dante e di lord Byron, e meriti questa ricompensa. Del resto, ogni poesia non è che un ribiascico di questa strofa divina.

- L’avete voi mai cantata codesta strofa, duca!

- Io non l’aveva cantata ancora.

La principessa si alzò di un lancio e risalì a cavallo, appoggiandosi appena al braccio del duca.

Ella tirò un colpo di fucile e partì al galoppo.

Arrivata al crocicchio, Bianca tirò un altro colpo ed ordinò a Balbek di fare altrettanto. Poco dopo uno dei bracchieri comparve all’estremità di un viale.

La principessa entrò in un sentiero, al passo, ed il bracchiere la raggiunse.

Si seguì quella via.

Il silenzio era completo.

Bianca sembrava offesa; il duca affranto. E camminava dietro, apostrofando il suo cavallo.

Quella parte della foresta era scura e bassa. Delle roccie bianche, seminate qua e là, le davano l’aria di un carnaio di giganti, che avrebbero lasciato quivi delle ossa senza espressione. Il suolo era dell’ocra rossa. Dei serpenti solcavano le sabbie del sentiero. Delle gazzere davan la berta ai cavalieri e cominciavano una chiacchierata poco animata con uno stuolo di cornacchie in sentinella all’apice di un masso. Un pugno di piche si cacciò nella partita ed ingarbugliò la conversazione.

- Mastro Alain Chartier in prosa, capite voi ciò che quelli amabili piumiferi ci vogliono dire?

- Altezza, io m’immagino che quelle bestie irriverenti si burlino un poco del prossimo.

- Davvero! E che dicon esse dunque?

- Semplicemente questo: Oh! come il duca è brutto! oh! come la principessa è sirena!

- E voi non mandate loro una carica di piombo?

- Magari no! Quelle spiritose bestie ànno ragione.

Si volse a sinistra, ed un quadro maraviglioso si presentò ai loro sguardi.

Il viale metteva capo al lembo di un burrone. Di fronte, si rizzava altissimo uno scoglio rossastro a foggia di mitra, sormontato da un picco, come il corno dei dogi di Venezia. Un torrente scendeva ad infrangersi contro quel corno, e l’acqua, così respinta, si gettava in due nappi, a destra ed a sinistra, formando due cascate, che ricadevano da una altezza di cento piedi in una valle, e si riunivano. La parabola che descrivevano quelle due cascate formava come due archi che fiancheggiavano la roccia, e le due tese d’acqua rassomigliavano a due anse di un’anfora - un’anfora alla forma di una mitra episcopale. Un vapore di polvere di diamanti la covriva. Il sole l’animava e ne faceva un nembo d’iride.

Il Cristo, sul Tabor, ebbe a trasfigurarsi così.

- Oh! come è bello! - sclamò il duca, guardando il viso di Bianca, e per conseguenza volgendo le spalle alle cascate.

Bianca partì in uno scroscio di riso e disse:

- Piede a terra, allora, mastro Alain.

Lo staffiere prese i cavalli. La principessa si appoggiò al braccio del duca, e cominciò a discendere il burrone.

- Aprite dunque il vostro paracqua - diss’ella; - noi andiamo...

- A traversare il mar Rosso a piede secco, ma al capo innondato - soggiunse il duca.

Passarono infatti sotto la parabola della cascata, a destra, avendo sulla testa quella vôlta di cristallo soffusa di luce. Salirono qualche scaglione tagliato nella roccia, poi entrarono sotto una specie di galleria che forava il masso di lungo a lungo.

Quando furono al centro, si trovarono in una camera pellicciata di quercia. Un ovale, chiuso da un doppio cristallo, sporgendo sur una piccola piattaforma, rischiarava il luogo. L’ovale aprivasi in fronte alla roccia e dominava tutta la vallea percorsa dal torrente - il quale ricadeva in piccola cascata fino all’immenso bacino del parco, innanzi al castello. Dalle due porte aperte, a destra ed a manca, vedevansi le cortine di acqua delle due cascate.

Il sole del pomeriggio rischiarava la stanza. Il rumore della caduta d’acqua era ammortito. I giuochi di luce, di faccia e di lato, producevano dei bagliori magici, in mezzo alle cannas indicas dalle larghe foglie, dai fiori gialli e scarlatti che ostruivano un poco l’entrata della vôlta, e le cobee e le campanule che sbocciavano intorno all’ovale.

- Signor duca di Balbek - parlò la principessa Bianca, con una dignità tragica, che faceva fremere la deliziosa pelugine del suo labbro superiore; - io v’invito a colazione dopo domani, qui, con me; una colazione di due uova, che voi porterete nelle vostre saccocce, e di quattro biscotti, che io caccerò nelle mie.

- Mille grazie, Altezza. E che il buon Dio sia assai clemente e grazioso per mandarci del dessert dalla sua tavola.

- Voi siete un ghiottoncello, signor duca!...


La colazione ebbe luogo.

E due settimane dopo, fu celebrato il matrimonio della principessa Bianca con sua maestà Taddeo IX - rappresentato dal marchese delle Antilles.


Note

  1. Non vi pare d’intravedere qui la regina Cristina di Spagna? (N. dell’Editore)
  2. Nell’originale "vitx".
  3. Nell’originale "betula".