Storia d'Italia/Libro XI/Capitolo IV

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Capitolo IV

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IV

Presa e sacco di Prato. Deposizione del gonfaloniere in Firenze. Accordi dei fiorentini col viceré. Riforma del governo in Firenze; restaurazione del governo de’ Medici. Errori che condussero i fiorentini alla perdita della libertá. Resa del Castelletto di Genova.

Niuna cosa vola piú che l’occasione, niuna piú pericolosa che il giudicare dell’altrui professioni, niuna piú dannosa che il sospetto immoderato. Desideravano la concordia tutti i principali cittadini, assuefatti dietro agli esempli de’ maggiori loro a difendere spesso la libertá dal ferro coll’oro; perciò facevano instanza che gli imbasciadori eletti subitamente andassino, a’ quali oltre all’altre cose si commetteva che di Prato si facesse porgere vettovaglia all’esercito spagnuolo, acciò che il viceré quietamente aspettasse se la concordia trattata aveva effetto: ma il gonfaloniere, o persuadendosi, contro alla sua naturale timiditá, che gli inimici disperati della vittoria dovessino da se stessi partirsi o temendo de’ Medici in qualunque modo [p. 230 modifica]ritornassino in Firenze, o conducendolo il fato a essere cagione della ruina propria e delle calamitá della sua patria, allungava artificiosamente la spedizione degli imbasciadori, talmente che non andorno il dí nel quale secondo la deliberazione fatta doveano andare. Dunque il viceré, astringendolo la penuria delle vettovaglie, e incerto se piú verrebbono gli imbasciadori, mutato la notte seguente l’alloggiamento dalla porta del Mercatale alla porta che si dice del Serraglio, donde si va verso il monte, cominciò a battere co’ due cannoni il muro a quella vicino: eletto questo luogo perché al muro era congiunto un terrato alto, dal quale si poteva facilmente salire alla rottura del muro di sopra che si batteva, la qual facilitá dal lato di fuora diventava difficoltá dal lato di dentro, perché la rottura che si faceva sopra il terrato rimaneva di dentro molto alta da terra. Roppesi a’ primi colpi uno de’ due cannoni, e l’altro, col quale solo continuavano di battere, per lo spesso tirare avea perduto tanto di vigore che alla muraglia pervenivano i colpi molto lenti e di piccolo effetto. Pure, poi che ebbono per spazio di molte ore fatta una apertura di poco piú che di dodici braccia, cominciorno alcuni de’ fanti spagnuoli montati in sul terrato a salire alla rottura e da quella in sulla sommitá del muro, dove ammazzorno due de’ fanti che lo guardavano. Per la morte de’ quali cominciando gli altri a ritirarsi, vi salivano giá i fanti spagnuoli colle scale; e benché dentro appresso al muro fusse uno squadrone di fanti con gli scoppietti e con le picche, ordinato per non lasciare alcuno degli inimici fermarsi in sul muro e per opprimere se alcuno temerariamente saltasse dentro o in altro modo discendesse, nondimeno, come cominciorno a vedere gli inimici in sulla muraglia, messisi in fuga da loro medesimi abbandonorno la difesa; onde gli spagnuoli, stupiti che in uomini vili e inesperti potesse regnare tanta viltá e sí piccola esperienza, entrati senza opposizione dentro da piú parti, cominciorno a correre per la terra, dove non era piú resistenza ma solamente grida, fuga, violenza, sacco, sangue e uccisioni, gittando i fanti spaventati l’armi in terra e arrendendosi a’ vincitori: dall’avarizia [p. 231 modifica]libidine e crudeltá de’ quali non sarebbe stata salva cosa alcuna se il cardinale de’ Medici, messe guardie alla chiesa maggiore, non avesse conservata l’onestá delle donne, le quali quasi tutte vi erano rifuggite. Morirno non combattendo, perché alcuno non combatté, ma o fuggendo o supplicando, piú di duemila uomini; tutti gli altri insieme col commissario fiorentino furno prigioni. Perduto Prato, i pistolesi, non si partendo nell’altre cose dal dominio de’ fiorentini, convennono di dare vettovaglia al viceré, ricevendo promessa da lui che non sarebbono molestati.

Ma a Firenze, come si intese il caso succeduto (per il quale gli imbasciadori che andavano al viceré, essendo a mezzo il cammino, ritornorno indietro), fu negli animi degli uomini grandissima alterazione. Il gonfaloniere, pentitosi della vanitá del suo consiglio, spaventato e perduta quasi del tutto la riputazione e l’autoritá, retto piú presto che rettore e irresoluto, si lasciava portare dalla volontá degli altri, non provedendo a cosa alcuna né per la conservazione di se medesimo né per la salute comune; altri desiderosi della mutazione del governo, preso ardire, biasimavano publicamente le cose presenti: ma la maggiore parte de’ cittadini, non assueta all’armi e avendo innanzi agli occhi l’esempio miserabile di Prato, benché amatrice del reggimento popolare, stava per timore esposta a essere preda di chi volesse opprimerla. Dalle quali cose fatti piú audaci Paolo Vettori e Antonio Francesco degli Albizi, giovani nobili, sediziosi e cupidi di cose nuove, i quali giá molti mesi si erano occultamente congiurati con alcuni altri in favore de’ Medici, e per convenire con loro del modo di rimettergli erano stati secretamente a parlamento in una villa del territorio fiorentino vicina al territorio de’ sanesi con Giulio de’ Medici, si risolverono di fare esperienza di cavare per forza il gonfaloniere del palazzo publico; e comunicato il consiglio loro con Bartolomeo Valori, giovane di simili condizioni e implicato per il troppo spendere, come era anche Paolo, in molti debiti, la mattina del secondo dí dalla perdita di Prato, che fu l’ultimo dí di agosto, entrati con pochi compagni in palazzo, dove, per [p. 232 modifica]il gonfaloniere che si era rimesso ad arbitrio del caso e della fortuna, non era provisione né resistenza alcuna, e andati alla camera sua, lo minacciorono di torgli la vita se non si partiva del palazzo, dandogli in tale caso la fede di salvarlo. Alla qual cosa cedendo egli, ed essendo a questo tumulto sollevata la cittá, scoprendosi giá molti contrari a lui e nessuno in suo favore, fatti per ordine loro congregare subito i magistrati che secondo le leggi avevano sopra i gonfalonieri amplissima autoritá, dimandorno che lo privassino legittimamente del magistrato, minacciando che altrimenti lo priverebbeno della vita: per il quale timore avendolo contro alla propria volontá privato, lo menorno salvo alle case di Paolo, donde la notte seguente bene accompagnato fu condotto nel territorio de’ sanesi; e di quivi, simulando di andare a Roma con salvocondotto ottenuto dal pontefice, preso occultamente il cammino d’Ancona, passò per mare a Raugia; perché per ordine del cardinale suo fratello era stato avvertito che il pontefice, o per sdegno o per cupiditá di spogliarlo de’ suoi danari, che era fama essere molti, gli violerebbe la fede. Levato il gonfaloniere del magistrato, la cittá mandò subito imbasciadori al viceré, col quale per opera del cardinale de’ Medici facilmente si compose: perché il cardinale si contentò che degli interessi propri non si esprimesse altro che la restituzione de’ suoi, e di tutti quegli che l’avevano seguitato, alla patria, come privati cittadini, con facoltá di ricomperare infra certo tempo i beni alienati dal fisco ma rendendo il prezzo sborsato e i miglioramenti fatti da coloro ne’ quali erano stati trasferiti. Ma quanto alle cose comuni, entrorono i fiorentini nella lega; obligoronsi, seguitando quello che i Medici aveano promesso per mercede del ritorno loro a Mantova, a pagare al re de’ romani, secondo le dimande di Gurgense, quarantamila ducati; al viceré, per l’esercito, ottantamila, la metá di presente il rimanente fra due mesi, e per sé proprio ventimila; e che ricevuto il primo pagamento partisse subito del dominio fiorentino, rilasciando quel che aveva occupato. Feciono oltre a questo lega col re d’Aragona, con obligazione reciproca di certo numero di gente [p. 233 modifica]d’arme a difesa degli stati, e che i fiorentini conducessino agli stipendi loro dugento uomini d’arme de’ sudditi di quel re: la qual condotta, benché non si esprimesse, si disegnava per il marchese della Palude, a cui il cardinale aveva promesso o almeno dato speranza di farlo capitano generale delle armi de’ fiorentini.

Cacciato il gonfaloniere e rimossi per l’accordo i pericoli della guerra, dettono i cittadini opera a ricorreggere il governo in quelle cose nelle quali si era giudicata inutile la forma; ma con intenzione universale, eccettuatine pochissimi, e questi o giovani o quasi tutti di piccola considerazione, di conservare la libertá e il consiglio popolare. Però determinorno con nuove leggi che il gonfaloniere non si eleggesse piú in perpetuo ma solamente per uno anno, e che al consiglio degli ottanta, che si variava di sei mesi in sei mesi, con l’autoritá del quale si deliberavano le cose piú gravi, acciocché sempre vi intervenissino i cittadini di maggiore qualitá, fussino aggiunti in perpetuo tutti coloro che insino a quel dí avessino amministrati, o dentro o fuori, i primi onori: dentro, quegli che erano stati o gonfalonieri di giustizia o de’ dieci della balía, magistrato in quella republica di grande autoritá; fuori, tutti quegli che eletti nel consiglio degli ottanta, erano stati o imbasciadori a príncipi o commissari generali nella guerra; rimanendo fermi in tutte l’altre cose gli ordinamenti del medesimo governo. Le quali cose stabilite, fu eletto per il primo anno gonfaloniere Giovambatista Ridolfi, cittadino nobile e riputato molto prudente, riguardando il popolo (come si fa ne’ tempi turbolenti) non tanto a quegli che per l’arti popolari gli erano piú grati quanto a uno che, con l’autoritá grande che aveva nella cittá, massimamente appresso alla nobiltá, e con la virtú propria, potesse fermare lo stato tremante della republica. Ma troppo erano trascorse le cose, troppo potenti inimici avea la publica libertá: nelle viscere del dominio l’esercito sospetto; dentro, i piú audaci della gioventú cupidi d’opprimerla. La medesima era, benché colle parole dimostrasse il contrario, la volontá del cardinale de’ Medici: il quale, insino da principio, [p. 234 modifica]non arebbe riputato premio degno di tante fatiche la restituzione de’ suoi come privati cittadini; considerava al presente di piú che né anche questo sarebbe cosa durabile, perché insieme col nome suo sarebbono in sommo odio di tutti per il sospetto che continuamente stimolerebbe gli altri cittadini che essi non insidiassino alla libertá, e molto piú per lo sdegno che avessino condotto l’esercito spagnuolo contro alla patria, stati cagione del sacco crudelissimo di Prato, e che per il terrore dell’armi la cittá fusse stata costretta a ricevere cosí indegne e inique condizioni. Stimolavanlo al medesimo coloro che prima erano congiurati seco, e alcuni altri che nella republica bene ordinata non aveano luogo onorato. Ma era necessario il consentimento del viceré; il quale, aspettando il primo pagamento, che per le condizioni della cittá si espediva difficilmente, soggiornava ancora in Prato, né aveva, quale si fusse la cagione, l’animo inclinato che nella cittá si facesse nuova alterazione. Nondimeno, dimostrandogli il cardinale, e procurando che il marchese della Palude e Andrea Caraffa conte di Santa Severina, condottieri nell’esercito, [facessino il medesimo], alla cittá, che avea ricevuta tanta offesa, non potere piú essere se non odiosissimo il nome spagnuolo, e che in qualunque occasione aderirebbe sempre agli inimici del re cattolico, anzi essere pericolo che, come si discostasse l’esercito, non richiamasse il gonfaloniere, il quale sforzata aveva cacciato, movendolo anche il provedersi con tanta difficoltá a’ danari promessi, i quali se fussino stati piú pronti arebbe fatto maggiore fondamento nel governo libero, consentí al desiderio del cardinale: il quale, composte le cose con lui, venne subito in Firenze alle case sue; ove, parte con lui parte separatamente, entrorno molti condottieri e soldati italiani, non avendo i magistrati, per la vicinitá degli spagnuoli, ardire di proibire che non vi entrassino. Dipoi il dí seguente, essendo congregato nel palagio publico per le cose occorrenti un consiglio di molti cittadini, al quale era presente Giuliano de’ Medici, i soldati, assaltata all’improviso la porta e poi salite le scale, occuporono il palagio, depredando gli argenti che vi [p. 235 modifica]si conservavano per uso della signoria. La quale, insieme col gonfaloniere, costretta a cedere alla volontá di chi poteva piú coll’armi che non potevano i magistrati colla riverenza e autoritá disarmata, convocò subito, cosí proponendo Giuliano de’ Medici, in sulla piazza del palagio, col suono della campana grossa, il popolo al parlamento; dove quegli che andorno, essendo circondati dall’armi de’ soldati e de’ giovani della cittá che aveano prese l’armi per i Medici, consentirono che a circa cinquanta cittadini, nominati secondo la volontá del cardinale, fusse data sopra le cose publiche la medesima autoritá che aveva tutto il popolo (chiamano i fiorentini questa potestá, cosí ampia, balía): per decreto de’ quali ridotto il governo a quella forma che soleva essere innanzi all’anno mille quattrocento novantaquattro, e messa una guardia di soldati ferma al palagio, ripigliorono i Medici quella medesima grandezza, ma governandola piú imperiosamente e con arbitrio piú assoluto che soleva avere il padre loro.

In tale modo fu oppressa con l’armi la libertá de’ fiorentini, condotta a questo grado principalmente per le discordie de’ suoi cittadini: al quale si crede non sarebbe pervenuta se (io passerò la neutralitá imprudentemente tenuta, e l’avere il gonfaloniere lasciato pigliare troppo animo agli inimici del governo popolare) non fusse stata, eziandio negli ultimi tempi, negligentemente procurata la causa publica. Perché nel re d’Aragona non era da principio tanto desiderio di sovvertire la libertá quanto di rimuovere la cittá dall’aderenza del re di Francia e di trarne alcuna quantitá di danari per pagare allo esercito; perciò, subito che i franzesi abbandonorno il ducato di Milano, commesse al viceré che, quando o le cose occorrenti lo tirassino ad altra impresa o che per altra cagione conoscesse difficile la restituzione de’ Medici, pigliando la deliberazione dalle condizioni de’ tempi, convenisse o no con la cittá, secondo che piú gli paresse opportuno. Questo era stato da principio il comandamento suo; ma di poi sdegnato contro al pontefice per quel che aveva tentato a Roma contro ad Alfonso da Esti, e insospettito per le minaccie che publicamente [p. 236 modifica]faceva contro al nome de’ barbari, dimostrò apertamente al medesimo imbasciadore fiorentino (che al principio della guerra era andato a lui), e al viceré commesse che non tentasse di alterare il governo, o perché giudicasse essergli piú sicuro conservare il gonfaloniere inimicato dal pontefice, o perché temesse che il cardinale de’ Medici, restituito, non avesse maggiore dependenza dal pontefice che da lui: ma non fu nota al viceré questa ultima deliberazione se non il dí dappoi che era stata ridotta la republica in potestá del cardinale. Per il quale discorso apparisce che se i fiorentini avessino, dopo che furno cacciati i franzesi, procurato diligentemente di assicurare mediante la concordia le cose loro, o se si fussino fortificati di armi di soldati esperti, o non si sarebbe il viceré mosso contro a loro, o trovata difficoltá nello opprimergli arebbe facilmente composto con danari. Ma era destinato non lo facessino, ancora che, oltre a quello che si poteva comprendere per i discorsi umani fussino stati ammuniti dal cielo degli imminenti pericoli: perché, non molto innanzi, uno folgore, caduto in sulla porta che da Firenze va a Prato, levò d’uno scudo antico di marmo i gigli a oro, insegna del re di Francia; un altro, caduto in sulla sommitá del palagio ed entrato nella camera del gonfaloniere, non avea percosso altro che un bossolo grande d’argento nel quale si raccoglievano i partiti del sommo magistrato, e dipoi sceso nella infima parte percosse di maniera una lapide grande, che a piè della scala sosteneva la macchina dell’edificio, che uscitane illesa pareva fusse stata cavata da’ periti con grandissima destrezza e architettura. In questi tempi medesimi o poco prima, battendo i genovesi il Castelletto di Genova con l’artiglierie che aveva prestate loro il pontefice, il castellano, ricevuti diecimila [ducati] lo dette a’ genovesi; non avendo speranza di essere soccorso, perché una armata spedita di Provenza innanzi che il re sapesse la rebellione di quella cittá per attendere a difenderla, non avendo avuto ardire di porre in terra, era ritornata indietro: ma per il re si teneva ancora la Lanterna; nella quale, ne’ dí medesimi, aveano alcuni legni franzesi messe vettovaglie e altri bisogni.